19 agosto 2015

1965-2015: l’insegnamento di Mattmark


Nel cinquantesimo anniversario della tragedia di Mattmark si stanno svolgendo numerose manifestazioni non solo nel Vallese e prossimamente nei luoghi della catastrofe, ma anche in diverse parti d’Italia, a testimonianza della gravità di quella disgrazia del 1965 e del ricordo che si deve alle vittime. Del resto è ancora nella memoria di molti (sopravvissuti, soccorritori, giornalisti) ciò che avvenne alle 17.30 del 30 agosto di cinquant’anni fa in prossimità della diga idroelettrica in fase di completamento a Mattmark, nell’alta valle di Saas, in Vallese: lo stacco improvviso di una parte imponente del ghiacciaio Allalin sovrastante spazzò via in pochi minuti un intero cantiere operativo (macchinari, magazzini, officine, dormitorio, mensa, ecc.), uccidendo 88 lavoratori, 56 dei quali italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide.
Tragedia senza precedenti
Lapide a ricordo della tragedia del 30 agosto 1965 (foto gl)
L’eco della disgrazia superò in poche ore non solo i confini del Vallese, ma anche quelli svizzeri. La copertura mediatica fu straordinaria. Si trattava della più grave disgrazia sul lavoro avvenuta in Svizzera. Nemmeno ai tempi delle costruzioni delle ferrovie erano morti in una volta così tanti lavoratori. Inevitabilmente cominciarono subito anche le polemiche sulla sicurezza di quel cantiere e del lavoro in generale. Soprattutto da parte italiana fu sollevata la questione delle responsabilità e sulla stampa, specialmente in quella di sinistra, vennero lanciate precise accuse ai responsabili del cantiere, ma anche agli organi di vigilanza.
Non intendo riprendere la polemica se il cantiere era sistemato in luogo sicuro, se il ghiacciaio era sufficientemente monitorato, se i responsabili del cantiere erano più preoccupati di terminare i lavori in tempo per non dover pagare penali o della sicurezza dei lavoratori, se… se… ecc. Ne accenno soltanto perché mi capita di leggere qua e là ricostruzioni alquanto imprecise (ad esempio sulla localizzazione e la funzione di quel cantiere, sui lavori che vi si svolgevano, ecc.) che non aiutano certo a far luce su alcuni aspetti che non sono stati mai completamente chiariti.

La verità e il contesto migratorio
 Purtroppo «la verità» completa su quanto accaduto non si saprà mai (nemmeno quando saranno noti tutti gli atti del processo, in parte ancora coperti dal segreto) a causa dei molteplici fattori che possono avervi influito e del peso di ciascuno di essi. Quanto poi alle responsabilità personali dirette, credo che i risultati delle perizie e soprattutto le sentenze dei tribunali abbiano scagionato ampiamente (anche se forse non completamente) i responsabili del cantiere e dei lavori. Se poi ci siano state delle sottovalutazioni dei pericoli, errori di calcolo, omissioni, considerazioni di ordine più economico che umano (sicurezza dei lavoratori) nella collocazione del cantiere (non certo piazzato «ad occhio») e nei dispositivi di sicurezza, nel monitoraggio del ghiacciaio, nell’uso degli esplosivi, ecc. è materia opinabile, ma non prova di colpevolezza.


Gran parte della roccia che si vede in questa foto era ricoperta
di ghiaccio fino al giorno della tragedia del 1965 (foto gl)
Personalmente prendo atto dell’esito dei processi e delle conclusioni di molti studi, secondo cui quanto avvenuto era, almeno nella maniera improvvisa in cui è avvenuto, pressoché imprevedibile. Del resto, fino al momento della disgrazia, secondo le testimonianze di sopravvissuti, i lavori procedevano regolarmente e persino il brillamento delle mine (forse una concausa del distacco del ghiacciaio) avveniva senza preoccuparsi di possibili conseguenze sulla tenuta del ghiacciaio (comunque monitorato). Il fatto che di tanto in tanto precipitasse a valle qualche blocco di ghiaccio era ritenuto normale dalla maggioranza degli operatori di bulldozer e caterpillar, che altrimenti si sarebbero astenuti.
Preferisco tentare di individuare di quella tragedia l’impatto avuto nell’evoluzione dell’immigrazione italiana in Svizzera, che in quegli anni si trovava a una svolta.

L’immigrazione italiana del dopoguerra

Occorre anzitutto ricordare che dal dopoguerra la Svizzera si trovava in pieno boom economico e richiedeva molti lavoratori anche dall’estero, per diverse ragioni soprattutto italiani (altro che immigrazione clandestina, come ancora qualche sprovveduto scrive!). Gli italiani erano presenti in gran parte delle attività economiche, stagionali e non, ma soprattutto nelle grandi costruzioni infrastrutturali, soprattutto quelle idroelettriche d’alta montagna.
Il sopravvissuto Ilario Bagnariol (a s.) mentre
indica il luogo esatto dove si trovava il cantiere
distrutto dal crollo del ghiacciaio (foto gl)
Quando si rievoca la catastrofe di Mattmark si tende a dimenticare che fino al 1965 gli italiani avevano già partecipato alla costruzione di diverse decine di altre grandi dighe, comprese quelle più alte del mondo (Grande Dixence e Mauvoisin, rispettivamente di 285 e 250 metri, nel Vallese). Gli italiani erano non solo ancora presenti in gran numero in questo tipo di costruzioni, ma erano ritenuti in certa misura anche indispensabili. Ne è prova il fatto che nonostante le misure restrittive sull’ingresso degli stranieri, il governo dovette proseguire nella pratica liberale di concedere alle imprese che ne facevano richiesta tutti i permessi d'ingresso dei lavoratori stranieri di cui avevano bisogno.
Nel mese di agosto 1964 risultavano registrati in Svizzera 1.064.000 stranieri, compresi stagionali e frontalieri, ossia il 18% della popolazione residente. La popolazione straniera era dominata dagli italiani (oltre il 60%), dopo aver toccato tra il 1961 e il 1962 oltre il 70%.
Occorre però anche ricordare che la presenza massiccia di così tanti italiani da tempo suscitava nella popolazione sentimenti di paura di essere invasi e sommersi dagli stranieri (inforestierimento). Pochi svizzeri probabilmente sapevano che essi svolgevano generalmente lavori sgraditi agli autoctoni perché pesanti, pericolosi, stagionali. In verità, lo sapevano anche pochi politici italiani, persino tra quelli che gridarono allo scandalo dopo i processi di Mattmark. Per i primi governi del dopoguerra era certamente più importante sapere che l’emigrazione italiana aveva trovato nuovi sbocchi che occuparsi delle reali condizioni di vita e di lavoro degli espatriati.

I movimenti xenofobi
In Italia, il problema migratorio divenne tema di dibattito politico solo quando la Svizzera decise, negli anni ’50 e ’60, di non lasciare spazio alla propaganda comunista tra gli immigrati e di espellere gli attivisti più in vista. In concreto, tuttavia, si faceva ben poco per rasserenare il clima di reciproca ostilità che si stava creando tra svizzeri e stranieri (italiani). Anche in Svizzera si faceva ben poco, ma a riscaldare gli animi avrebbero provveduto ben presto, soprattutto dopo l’approvazione dell’Accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera del 1964, i movimenti xenofobi. Questi erano convinti, in generale, che gli stranieri erano troppi e che le concessioni fatte all’Italia erano eccessive. Occorreva, secondo loro, bloccare l’incremento e il pericolo di «inforestierimento».
 Con questi obiettivi, proprio in risposta all’Accordo del 1964, il Partito democratico svizzero del Cantone di Zurigo il 15 dicembre 1964 aveva lanciato la prima iniziativa popolare xenofoba del dopoguerra «contro l’inforestierimento», che verrà depositata con 59.164 firme valide il 30 giugno 1965. L’iniziativa non sarà sottoposta al voto popolare perché ritirata dal comitato d'iniziativa nel 1968 dopo un dibattito in Parlamento in cui il Consiglio federale aveva dato assicurazioni in merito alla politica restrittiva richiesta. Ne verranno però lanciate altre, una in particolare, quella nota come «iniziativa Schwarzenbach» che rischiò nel 1970 di essere accolta dall’elettorato svizzero. L’inforestierimento e la xenofobia dominarono il dibattito politico per oltre un decennio, ma nessuna delle iniziative anti-stranieri ebbe il sopravvento. Perché?

L’insegnamento di Mattmark
La diga di Mattmark, "in terra", misura alla base 370 m,
è alta 120 m ed è lunga, al coronamento, ben 780 m.
Con il suo volume di 10.500.000 metri cubi è la più
voluminosa della Svizzera (foto gl)
La catastrofe di Mattmark fu certamente una delle disgrazie più gravi di tutta la storia dell’emigrazione italiana, la più tragica avvenuta in Svizzera e come tale merita di essere sempre ricordata. Credo tuttavia ch’essa meriti di essere ricordata anche perché, forse, ha prodotto nell’animo di molti svizzeri l’antidoto più efficace contro la xenofobia.
 Mentre in Italia la tragedia aveva innescato un fiume di inutili polemiche antisvizzere, in Svizzera aveva suscitato un’enorme ondata di commozione, solidarietà e rispetto nei confronti dei lavoratori stranieri, specialmente italiani, che rischiavano quotidianamente la vita per il benessere di questo Paese. Se prima, a condizionare l’idea di molti svizzeri sugli stranieri era principalmente il loro numero ritenuto eccessivo, dopo la tragedia di Mattmark s’impose in primo piano l’umanità spesso tragica di questi lavoratori che con la loro dedizione arricchivano la Svizzera, avendo tutto sommato poco in cambio.
Molti svizzeri faranno tesoro della celebre frase di Max Frisch: «Abbiamo chiamato braccia… e vennero uomini». Gli immigrati cominciavano ad essere visti non più soltanto come macchine umane, come «forza lavoro», numeri, ma come persone, con radici culturali e sociali, con sentimenti e aspirazioni ad una vita familiare e sociale «normale».
A questa svolta contribuì anche il Consiglio federale, che non mancò di esprimere non solo le condoglianze alle famiglie delle vittime e tutta la solidarietà del popolo svizzero, ma anche la riconoscenza a tutti i lavoratori stranieri impegnati in una «feconda attività nel nostro Paese». Il consigliere federale Friedrich Wahlen, facendosi in qualche modo portavoce di un sentimento ormai molto diffuso, ebbe a dire: «tutto il popolo svizzero prova per voi grande stima e viva riconoscenza».
Le buone intenzioni diventeranno con gli anni realtà: la politica immigratoria del governo terrà sempre più conto delle esigenze degli immigrati, le condizioni di sicurezza dei cantieri saranno rafforzate, le iniziative xenofobe saranno respinte, l’integrazione dei giovani di seconda generazione diventerà dagli anni ’70 pratica corrente, gli italiani saranno visti sempre più con simpatia, l’italianità sarà sempre più considerata elemento essenziale della coesione nazionale. Mattmark rappresenta una pietra miliare di questo processo virtuoso.
Giovanni Longu
Berna, 19.08.2015