22 aprile 2015

Sbarchi di profughi: né clandestini né migranti


Nota: Questo articolo è stato scritto prima che si conoscesse l'ennesima tragedia dei profughi in fuga verso l'Italia. Penso che ponga un problema non solo di carattere terminologico ma anche politico, che l’ultimo tragico evento non fa che aggravare. E’ pertanto auspicabile che la politica internazionale trovi presto la necessaria convergenza e determinazione per adottare soluzioni coordinate ed efficaci al grave problema di questi esodi, informando l’opinione pubblica con un linguaggio consono e coerente (22.05.2015)

Le notizie di salvataggi in mare e sbarchi sulle coste italiane, all’ordine del giorno già da alcune settimane, saranno sempre più frequenti durante la stagione estiva. Se lo scorso anno sono sbarcate 170.000 persone, per quest’anno se ne prevedono almeno il doppio. Aumenta purtroppo anche il numero delle vittime dei frequenti naufragi. Si parla già di emergenza profughi. I centri di accoglienza sono al collasso. L’«operazione Triton» (controllo delle frontiere dell’Unione europea nel mar Mediterraneo) è ritenuta del tutto inadeguata sia per i controlli che per i salvataggi in mare.
I continui sbarchi di masse in fuga dalle guerre e dalla miseria interpellano non solo la classe politica italiana, dell’Unione europea e delle Nazioni Unite, ma anche le nostre coscienze. Cosa fare per gestire con senso di umanità il fenomeno? Cosa bisognerebbe intraprendere per evitare che tanta gente sia costretta ad abbandonare le loro terre? Come vanno considerate le persone che arrivano da noi? Che cosa si può e si deve fare per venire incontro ai loro bisogni? La solidarietà è solo una virtù cristiana o anche un dovere civico?

Opinione pubblica disorientata
L’opinione pubblica è disorientata. Non riesce ad avere risposte soddisfacenti a queste o a simili domande. A parte l’aggiornamento pressoché quotidiano del numero degli arrivi, degli sbarchi e dei morti, con qualche elogio sporadico alla professionalità dei soccorritori e alla generosità dei volontari, i media non offrono spunti di discussione alla ricerca di soluzioni sostenibili. Sembrano appiattiti sulla registrazione delle reciproche accuse tra i partiti e delle critiche al governo Renzi per una presunta arrendevolezza nei confronti dell’Unione europea, accusata persino dai vescovi italiani di «lavarsene le mani». Nessuna informazione giunge all’opinione pubblica su eventuali piani per gestire meglio il fenomeno o addirittura per risolverlo alla radice.
Eppure l’opinione pubblica dovrebbe almeno sapere se in questo campo sono in corso per lo meno discussioni ad alto livello (diplomazia internazionale, Unione europea) per predisporre interventi radicali efficaci (politici, militari, finanziari o di altro genere) o si pensa soltanto a rafforzare i controlli alle frontiere per impedire (o ritardare?) l’assalto alla fortezza Europa. Ogni tanto si sente parlare di interventi militari (ad esempio in Libia) per impedire le partenze dei barconi, di organizzare nei Paesi nordafricani centri di accoglienza e di esame delle richieste di asilo, di predisporre massicci piani d’investimenti nei principali Paesi colpiti dalla povertà, da cui si cerca di fuggire. Non si sente mai parlare di un comune piano d’integrazione in Europa per poche centinaia di migliaia di persone che credono nell'Europa come nei secoli passati gli europei hanno creduto nell'America. Forse ci sono ancora europei che credono che la fortezza Europa sia imprendibile?
Non intendo certo incolpare i media se l’opinione pubblica è disorientata. In effetti i media hanno il compito d’informare sui fatti e sulle idee e se queste mancano non se le possono certo inventare immaginando di leggere nei cervelli di Renzi, della Mogherini, di Juncker o di altri responsabili politici italiani ed europei. Eppure anche i media sono responsabili della maniera con cui vengono presentati i fatti e la loro interpretazione.

Bando alle confusioni
Voglio dire che in questo campo, delicato e drammatico, le parole contano più che mai e non mi sembra che quelle utilizzate più di frequente siano sempre chiare, comprensibili e veritiere. Soprattutto nei confronti delle persone che sbarcano dai gommoni o dalle navi che le hanno soccorse in mare, indicarle in un modo o in un altro non è indifferente. Non si può continuare a chiamarle a piacimento migranti, clandestini, richiedenti l’asilo, profughi e quant'altro. Questi termini non sono equivalenti e le persone a cui vengono attribuiti non sono raggruppabili in un’unica categoria.
Aggiungo che dall'uso delle parole dipende molto l’impatto sociale che il fenomeno sta generando in Italia (per limitare l’attenzione al Paese maggiormente coinvolto). Se, di fronte ai racconti pressoché quotidiani degli sbarchi, ma anche purtroppo dei naufragi, e soprattutto delle difficoltà oggettive di accogliere «dignitosamente» (come vorrebbero le regole internazionali) tutti coloro che riescono ad approdare sul suolo italiano l’opinione pubblica è frastornata, lo si deve anche al tipo di narrazione che ne fanno i media e i leader politici tra due estremi: da una parte il facile buonismo di alcuni, anche tra le alte cariche dello Stato, e dall'altra l’ingiustificata paura di quanti si sentono minacciati dall'eccessiva presenza di stranieri, soprattutto all'estrema destra politica.
Gli uni, che considerano gli sbarcati dei «migranti» da soccorrere, accogliere e sistemare, peccano di ingenuità e forse anche di falsità perché sembrano minimizzare il fenomeno e negare l’incapacità dell’Italia (ancora in crisi) di risolverlo, soprattutto quando si tratta di dare ai «migranti» un alloggio dignitoso e garantire una sistemazione definitiva, ossia un lavoro, che al momento è insufficiente anche per gli italiani.


Gli altri, che rappresentano gli sbarcati come «clandestini» e «invasori», peccano di becera xenofobia e di smemoratezza perché sono solo capaci di agitare spauracchi inverosimili (infiltrazione di terroristi islamici, invasione in massa di clandestini, aumento della microcriminalità, ecc.) e vedono nei «respingimenti» l’unica soluzione possibile. Al confronto di certi politici italiani nemmeno Schwarzenbach, in Svizzera, era così radicale nei confronti dell’immigrazione di massa (italiana, per chi l’avesse scordato).
Il problema del linguaggio è molto serio e spesso sottovalutato, ma è proprio sull'uso sconsiderato delle parole che sorgono in Italia le prime incomprensioni e le contrapposizioni politiche. In certi ambienti, penso in particolare alla Lega Nord, si privilegia il termine «clandestini», che è invece rifiutato nettamente da tutta l’area di centrosinistra. In questa si parla ormai quasi esclusivamente di «migranti», più raramente di «richiedenti l’asilo» e di «profughi».

Profughi: né migranti né clandestini
Per rendere il dibattito costruttivo e comprensibile all'opinione pubblica, bisognerebbe fare un tentativo di convergenza nell'uso di termini appropriati ma non divisivi. Non mi sento di dire qual è l’espressione più adeguata per indicare le masse che approdano sul litorale italiano, ma la mia preferenza va al termine «profughi». Sebbene in senso proprio «profugo» indichi specialmente chi è in qualche modo «costretto a lasciare il proprio Paese in seguito a guerre, persecuzioni politiche, calamità naturali, ecc.», in un senso più generale rende bene il senso della fuga (profugo deriva dal latino profugum e dal verbo profugĕre, «cercare scampo») da una situazione pericolosa o comunque precaria (ad esempio in seguito a carestia, fame, mancanza di lavoro).
«Profugo» non è un termine divisivo ed è conosciuto e accettato da tutti anche nel suo significato più generale, che può ben comprendere tanto i migranti quanto i richiedenti l’asilo, i rifugiati e persino i clandestini.
Trovo meno adeguato il termine «migranti», anche se è quello che ha finito per imporsi, forse in ossequio all'uso che ne fa l’ONU (quando parla dei «migranti internazionali»), perché l’«emigrazione» in Italia evoca la condizione di chi era sì costretto ad espatriare «per motivi di lavoro», ma emigrava perché c’era un Paese d’immigrazione disposto ad accoglierlo e a regolarizzarlo (o addirittura lo richiedeva, come ad esempio la Svizzera nel dopoguerra). Allo statuto di «migrante» erano generalmente collegati un regolare permesso di lavoro e di soggiorno, una retribuzione corrispondente, ma anche la garanzia di poter ritornare liberamente al Paese d’origine.
Del resto la condizione di «migrante» riguarda ancora oggi decine di migliaia di italiani, che francamente hanno ben poco in comune con i profughi che stanno giungendo in Italia soprattutto dall'Africa e dall'Asia. Anche per i «migranti» italiani si tratta di cercare opportunità di lavoro altrove, ma per essi questo avviene in condizioni completamente diverse, specialmente di libera scelta e ampie garanzie.
In quest’ottica ho trovato fuorviante l’intervento della presidente della Camera Laura Boldrini di un mese fa nel corso della presentazione di un suo libro. Mentre criticava l’atteggiamento di chi continua a «considerare la migrazione una minaccia» (con evidente riferimento al leader della Lega Matteo Salvini, pur senza nominarlo) sbagliava a mio avviso nel confondere i «migranti» (che vanno dove c’è la domanda, come ammetteva la stessa Boldrini, contraddicendosi) con i profughi («che non vengono da noi per motivi economici ma scappano dalle guerre»).
Ritengo invece che il termine «clandestini», preferito da Salvini, sia completamente inadeguato perché nei profughi che sbarcano a Lampedusa o in Sicilia non si può ravvisare l’intenzione della clandestinità e sicuramente non riguarda la maggioranza di essi. Oltretutto la clandestinità viene a cadere già al momento dello sbarco con la prima identificazione. Quanto alle espressioni «richiedenti l’asilo» e «rifugiati», ritengo che debbano essere riservate alle persone che possono avvalersi del diritto all'asilo e ottenere lo statuto di rifugiato, non ad altre.

Manca la soluzione!
A questo punto non vorrei apparire come uno che riduce un problema enorme a una semplice disputa terminologica. So infatti benissimo che la soluzione va cercata principalmente al problema non alla disputa, ma sono convinto che a seconda della scelta delle parole si può capire meglio il da fare e svelare le ipocrisie. I «profughi» infatti hanno soprattutto bisogno di soccorso, accoglienza, solidarietà, prima sistemazione. La problematica dei «migranti» è invece molto più complessa perché ha bisogno soprattutto di una politica immigratoria seria e coerente di cui non c’è alcun indizio né in Italia né nell’Unione europea. Anche per questo, continuare a parlare di «migranti» da soccorrere mi sembra un’ipocrisia.

Giovanni Longu
Berna, 22.4.2015 (scritto il 18.4.2015)

20 aprile 2015

Ancora morti nel "Mare nostrum"


Il Mediterraneo, che dal tempo dei romani chiamiamo «Mare nostrum», nei giorni scorsi ha interrotto violentemente la fuga di centinaia di profughi alla ricerca di una vita migliore. Erano, come ha detto domenica scorsa Papa Francesco, «uomini e donne come noi, fratelli nostri, affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre, che cercavano una vita migliore, cercavano la felicità».
Non hanno fatto in tempo a goderne nemmeno un poco perché il «Mare nostrum» li ha inghiottiti brutalmente per aggiungerli alle migliaia di profughi già periti in questi ultimi anni. Non solo il mare, ma anche i morti dovremmo considerare «nostri» e piangerli con qualche senso di colpa.
Sono morti perché il barcone sovraccarico che li trasportava si è rovesciato, ma si trovavano su quel mezzo inadatto anche per la cattiveria umana, per la nostra insensibilità e l’irresponsabilità delle istituzioni competenti. Il nostro sentimento d’impotenza rischia di diventare un alibi miserevole se non siamo capaci d’indignarci e reclamare a gran voce dalle autorità responsabili soluzioni efficaci e sostenibili a lungo termine.

Per non dimenticare i morti di ieri e di oggi Piera Caponio ha scritto questa delicata poesia intitolata Vanno…,  «dedicata a tutti coloro che hanno sognato una vita diversa, in un mondo diverso, con persone diverse. Ma hanno perso».

Vanno

Vanno,
inseguono un fragile sogno,
guidati da un lieve spiraglio.

Ombre furtive nel buio
li scrutano senza parlare,
mani rapaci si accostano,
carpiscono senza pietà.

L’ora che incalza li inghiotte,
procedono a passi guardinghi
sospinti da altri che vanno.
Audaci viandanti del nulla.

Son soli nel cuor della notte,
son soli col cuore che batte,
ma breve sarà la paura,
la luce è già là all’orizzonte…..

Si portano dentro una fiamma,
una fiamma che brucia e riscalda,
che guizza leggera e tenace
incontro al destino che avanza.

Poi d’improvviso uno schianto,
un bagliore scatena l’inferno,
le grida trafiggono il cielo
ma l’eco si perde nel nulla.

Son tonfi di corpi avvinghiati,
la fiamma pian piano si spegne,
il gigante pietoso li accoglie,
li copre con l’umido velo
e assorto riprende a cantare
l’ennesima sua ninna nanna.

                               Piera Caponio