26 novembre 2014

Bambini italiani clandestini: il contesto


La settimana scorsa, il 20 novembre, è stato celebrato il 25° anniversario dell’approvazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’infanzia. I media hanno dato il giusto rilievo a questa ricorrenza e hanno riproposto all'opinione pubblica i drammi di milioni di bambini privati di diritti fondamentali. Ben 230 milioni di bambini non risultano nemmeno registrati ufficialmente, molti di più soffrono la fame, sono privati del diritto alla salute, all'istruzione, alla protezione, a un’infanzia serena e a un futuro dignitoso.
In questo periodo, in vista della prossima votazione federale sull'iniziativa popolare EcopopStop alla sovrappopolazione – sì alla conservazione delle basi naturali della vita»), sono state organizzate in diverse città svizzere manifestazioni per sensibilizzare la popolazione sui rischi di un’accettazione di questa ennesima iniziativa antistranieri.

Stagionali e baracche
In questo sforzo di sensibilizzazione, il sindacato Unia ha organizzato a Berna anche un’esposizione e un convegno sul tema «Baracche, xenofobia e bambini clandestini» per ricordare «le disumane condizioni di vita degli stagionali e dei loro figli, costretti talvolta alla clandestinità». Per l’occasione è stata anche allestita una baracca sul modello di allora e una interessante raccolta di testimonianze fotografiche sulla vita degli stagionali.
In questa nostra vita frenetica, che sembra fatta apposta per impedirci di riflettere (la riflessione ha bisogno di tempo!) e di ricordare (persino un passato non tanto lontano), le ricorrenze e le rievocazioni sono talvolta benedette. Ci aiutano a osservare il mondo oltre i confini ristretti del nostro Paese e dei nostri interessi e ci aiutano a ricordare da dove veniamo, quali sono le nostre origini.
L’esposizione di Berna, in particolare, mi suggerisce alcune considerazioni sul periodo delle baracche, della xenofobia e dei bambini clandestini, a cui peraltro ho già accennato di recente in altri articoli (cfr. L’ECO del 5.11. e 19.11.2014), e su cui in questi ultimi anni è stato scritto molto, spesso tuttavia in maniera ideologica e poco critica. Spesso in questi scritti manca il necessario riferimento al contesto.

La paura dell’inforestierimento
In Svizzera, gli Anni Sessanta e Settanta, a cui si riferiscono soprattutto (anche se abbracciano in realtà un periodo più lungo) i fenomeni degli stagionali, delle baracche e dei bambini clandestini) furono molto difficili non solo per gli immigrati italiani, ma anche per la politica immigratoria svizzera, per non parlare della politica emigratoria italiana. Le difficoltà per giungere a un compromesso accettabile nella trattativa italo-svizzera sull’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera riflettevano un contesto ben più ampio, sociale e politico, che lasciava ben pochi margini di manovra.
Per rendersi conto del fenomeno degli stagionali bisognerebbe ricordare almeno mezzo secolo di dibattiti e di decisioni che portarono a impegnare il governo federale a prendere tutte le misure necessarie per evitare la Überfremdung, l’«inforestierimento», ossia una presenza di stranieri percepita nell’opinione pubblica come eccessiva. All’indomani della pubblicazione dei dati del censimento del 1910 si ebbe in Svizzera una sorta di choc, quando si venne a sapere che nel Paese erano presenti e in forte crescita 552 mila stranieri, quasi il 15 per cento della popolazione totale.
Da allora il popolo svizzero non ha smesso di preoccuparsi e il governo centrale, che si basa sul consenso popolare, non può non tenerne conto nelle sue decisioni, soprattutto quando sono avvalorate da un voto, dalla Costituzione federale e dalle leggi federali. Di fatto, dal 1910 la percentuale di stranieri in Svizzera non ha fatto che diminuire fino al 1941 (5,2%).
Quando nel dopoguerra, per le note esigenze dell’economia l’afflusso di manodopera straniera doveva essere in qualche modo liberalizzato, la politica ha dovuto affrontare due imperativi apparentemente inconciliabili: quello di soddisfare l’economia (che solitamente detta l’agenda politica) e quello di impedire l’inforestierimento, contro cui erano già in azione agguerriti movimenti xenofobi. Scelse un compromesso: favorire l’afflusso di manodopera temporanea (stagionale) e rendere sempre più difficile la residenza stabile e soprattutto il domicilio degli stranieri.

Una scelta obbligata?
Oggi è facile contestare tale scelta, anche perché non ha affatto impedito la crescita della popolazione straniera (1950: 6,1%, 1960: 10,8%, 1970: 17,2%, 1980: 14,8%, 1990: 18,1%, 2000: 20, 9%) e non ha frenato le spinte xenofobe di ampi settori della società. Allora tuttavia sembrava una scelta obbligata. Certamente il governo federale avrebbe potuto fare di più per migliorare le condizioni di vita degli stagionali, obbligando ad esempio le imprese a garantire ai propri dipendenti abitazioni decenti, ma anche al riguardo non si possono ignorare le difficoltà oggettive sia per creare un tale obbligo, sia per controllarne il rispetto e sia soprattutto per realizzare nuovi alloggi in un tempo relativamente breve.
D’altra parte, non bisogna nemmeno dimenticare che gli alloggi, anche se ce ne fossero stati a disposizione, avrebbero avuto un costo che gran parte degli stagionali non avrebbe potuto sostenere, per di più per tutto l’anno. Va anche detto che a fronte di baracche o altri tipi di alloggio indecenti (o, com’ebbe a denunciare in parlamento un deputato comunista nel 1963, «gli abituri fangosi, le stalle e le baracche umide e sconnesse che sono il loro tetto»), le baracche del dopoguerra di norma dovevano essere sicure e attrezzate in modo adeguato. Alcuni regolamenti cantonali prevedevano che i dormitori dovessero essere costituiti di stanze ben tramezzate e isolate comprendenti in regola generale 4 o al massimo 6 letti; per ogni inquilino ogni stanza doveva raggiungere almeno 15 metri cubi; dovevano essere inoltre dotati di toelette, lavabi e docce, ecc. Alcuni baraccamenti in montagna (ad es. durante le costruzioni di dighe) avevano ancora requisiti aggiuntivi, quali il riscaldamento, la mensa, l’infermeria, la biblioteca, sala da giochi, ecc.
Ciò di cui gli stagionali si rammaricavano maggiormente non era sicuramente l’infrastruttura. Poiché tra di essi vi erano persone sposate (ma non è dato sapere in che proporzione nei vari periodi), non c’è dubbio che per esse la mancanza più sentita era la famiglia e nove mesi di lontananza dovevano essere un sacrificio non indifferente. Ancora oggi ci si chiede se questo sacrificio non fosse un’imposizione esagerata e disumana. Credo che non esista una risposta assoluta e non si può neppure rispondere che in fondo alla base di quella situazione c’era un contratto (in senso largo), accettato da entrambe le parti, anche dallo stagionale sposato. Una delle condizioni del contratto era che lo stagionale non poteva farsi raggiungere dalla famiglia. Credo tuttavia che dalla Svizzera si sarebbe potuto ottenere di più se nella trattativa per l’Accordo del 1964 l’Italia avesse insistito maggiormente sul punto dei ricongiungimenti familiari perché questa era la tendenza che si stava affermando ovunque in Europa.

Ricongiungimenti familiari: e i bambini?
Probabilmente i tempi della politica, italiana e svizzera, non erano ancora maturi e numerosi stagionali, ritenendo di non poterli rispettare, hanno preferito farsi ugualmente raggiungere dalla famiglia, nonostante i divieti. Quando il resto della famiglia era costituito dalla moglie o dal marito poco male, all’epoca era abbastanza facile trovare un lavoro almeno stagionale anche per la nuova o il nuovo arrivato. I guai nascevano quando insieme venivano dall’Italia (per limitare il campo ai soli italiani) pure i figli o quando la moglie stagionale metteva al mondo un bambino.
I problemi, va detto subito, non riguardavano solo e forse non tanto il rischio di espulsione dalla Svizzera per aver infranto un divieto. Uno dei problemi di più difficile soluzione riguardava l’abitazione dove alloggiare la famiglia, visto che gran parte degli stagionali alloggiava in baracche, in camere singole o in mansarde in affitto. Le abitazioni disponibili erano rare e costose. C’era poi il problema della cura del bambino o dei bambini durante il giorno, visto che padre e madre avevano entrambi solo un permesso di lavoro stagionale, non di residenza (anche senza dover lavorare). Si sarebbe potuto lasciarli soli? Affidarli eventualmente ad altri, ma a chi? Tenerli nascosti, come hanno fatto in tanti?
La problematica dei bambini cosiddetti «clandestini» o «nascosti» o «proibiti» o altro ancora è nota e non si dirà forse mai abbastanza che sono stati vittime innocenti, anche se i colpevoli non emergono mai chiaramente. A prescindere dai singoli casi, che andrebbero conosciuti approfonditamente, in generale mi pare innegabile la complicità fra tutti i responsabili dell’emigrazione, dell’immigrazione e dei genitori interessati. Ognuno avrà avuto sicuramente delle attenuanti, ma non c’è dubbio che nessuna di queste entità ha messo chiaramente e decisamente al primo posto l’interesse del bambino, della sua crescita, della sua formazione, della sua felicità in una condizione «normale».

Una pagina triste di una storia positiva
Non si saprà mai quanti siano stati questi bambini «clandestini» tra gli anni Sessanta e Ottanta, anche se è verosimile che in una trentina d’anni siano stati diverse migliaia (poco plausibili, invece, le cifre di 10-30 mila riferite a un solo anno). Indipendentemente dal loro numero, il fenomeno dei bambini «clandestini» va ritenuto comunque una pagina triste della lunga storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, da non dimenticare.
Condivido pertanto l’appello dello scrittore svizzero Franz Hohler quando scrive in una poesia intitolata «Feindesland» (Paese nemico): Daran sollten wir uns erinnern / dass die Geschichte unseres glücklichen Landes / voll ist von Geschichten unglücklicher Kinder. (dovremmo ricordarci / che la storia del nostro Paese felice / è piena di storie di bambini infelici).
Fortunatamente, tuttavia, la storia di questi bambini è anche piena di esempi di solidarietà di vicini di casa e di amici, persino di funzionari di polizia, di datori di lavoro comprensivi oltre che interessati e soprattutto di esempi degli stessi bambini che hanno saputo superare nel tempo i traumi infantili subiti. Anche questi esempi di solidarietà e di riuscita meritano di essere ricordati nella variegata e complessivamente positiva storia dell’immigrazione italiana in Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 26.11.2014