19 novembre 2014

Accordo di emigrazione del 1964: 8. Associazioni, ricongiungimenti familiari e bambini clandestini


L’Accordo tra la Svizzera e l’Italia del 1964 doveva risolvere numerosi problemi lasciati aperti dal precedente accordo del 1948 o venutisi a creare nel frattempo. Si trattava in particolare di migliorare le modalità del reclutamento, eliminare o mitigare le numerose limitazioni (per cambiare professione, posto di lavoro, Cantone, ecc.) a cui erano sottoposti i lavoratori immigrati, agevolare la trasformazione dei permessi stagionali in permessi annuali, favorire la stabilizzazione dei residenti e i ricongiungimenti familiari.

I risultati raggiunti dopo la lunga trattativa sono stati tutto sommato modesti, soprattutto rispetto alle richieste italiane e alle attese degli immigrati. Eppure sia l’Italia che la Svizzera hanno ritenuto «difendibile» l’Accordo raggiunto, forse senza rendersi conto che molti problemi rimanevano aperti (cfr. L’ECO del 5.11.2014).

Associazioni italiane impotenti e inascoltate
Se ne resero invece subito conto le organizzazioni degli emigrati italiani che, pur riconoscendo alcuni miglioramenti ritenevano necessarie ulteriori rivendicazioni, soprattutto in campo assicurativo, formativo, abitativo e familiare. Tanto è vero che chiesero ben presto la revisione dell’Accordo. Invano, sia per l’intransigenza della Svizzera (sotto la pressione dei movimenti xenofobi), sia per la persistente debolezza negoziale dell’Italia e sia anche per lo scarso peso politico dell’associazionismo italiano, allora rappresentato principalmente dalla Federazione delle colonie libere italiane in Svizzera (FCLIS) e dalle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (ACLI).
FCLIS, la più importante associazione
italiana in Svizzera del dopoguerra
Contrariamente a quanto talvolta è stato detto e scritto, le associazioni italiane hanno avuto nel difficile negoziato un ruolo del tutto marginale. Benché manifestassero esigenze sentite da molti immigrati, esse non furono coinvolte nemmeno indirettamente nelle trattative perché considerate sia da parte svizzera sia da parte italiana non sufficientemente rappresentative e anche perché la principale di esse, la FCLIS, era ritenuta negli ambienti svizzeri (ma anche italiani) troppo legata alla sinistra politica (PCI) e sindacale (CGIL) italiana.
In quei tempi (ormai in piena guerra fredda simboleggiata dal muro di Berlino, costruito nel 1961), l’appartenenza e persino la vicinanza al PCI (ossia al più importante partito comunista fuori dall’Unione Sovietica) rappresentavano in Svizzera un pericolo e un ostacolo al dialogo. Per questo, com’è noto, in quegli anni numerosi attivisti italiani (ma anche svizzeri e di altre nazionalità) erano schedati perché sospettati di propaganda «illecita».
Purtroppo l’associazionismo moderato e impegnato nei processi integrativi e formativi non era molto diffuso e non aveva ancora avuto modo di esprimersi compiutamente. Solo sul finire degli anni Sessanta diventerà urgente tra le diverse associazioni l’esigenza di organizzarsi meglio, di coordinarsi maggiormente, di trovare nuove forme di rappresentanza, di avviare tentativi di collaborazione con i sindacati svizzeri, con gli organismi scolastici ufficiali, con nuove istituzioni delle Città e dei grandi Comuni svizzeri tese a favorire il contatto tra svizzeri e stranieri, ecc.

Rallentamento voluto del processo integrativo
Da diversi documenti anche ufficiali prodotti nella prima metà degli anni Sessanta risultava chiara e irreversibile la tendenza alla stabilizzazione della manodopera estera. Il Consiglio federale avrebbe dovuto tenerne conto, ma evidentemente non si sentiva pronto o non aveva la forza sufficiente per dare un nuovo corso alla politica d’immigrazione.
L’esito della trattativa con l’Italia ne è una dimostrazione. Di fronte alla richiesta italiana di ridurre da dieci a cinque anni il periodo di attesa per l’ottenimento del permesso di domicilio a quanti erano già a beneficio di un permesso di dimora annuale, la Svizzera oppose un netto rifiuto. Riteneva che accogliere la richiesta italiana, avrebbe significato una specie di capitolazione su una questione di «importanza capitale», che avrebbe avuto «conseguenze molto gravi di carattere demografico, politico e sociale».
Si temeva che analoghe richieste sarebbero state avanzate prima o poi dagli altri principali Paesi fornitori di manodopera (Germania, Francia, Austria, Spagna, ecc.) e che la popolazione residente straniera sarebbe cresciuta a dismisura. Era evidente la paura dell'inforestierimento, che impegnava anche legalmente il governo federale a impedirlo, limitando non tanto l’immigrazione (che poteva sempre contare sugli stagionali e sui frontalieri) quanto l’aumento della quota di stranieri stabilmente residenti (annuali e domiciliati).
Sta di fatto che
il processo d’integrazione (o assimilazione, come si diceva allora) fu molto ritardato, nell'illusione che l’immigrazione potesse continuare ad essere governata con i sistemi dei permessi, dei contingenti, della precarietà assoluta dei «Gastarbeiter». Una risposta positiva alla richiesta italiana avrebbe potuto anticipare di quasi un decennio quel processo integrativo che comincerà solo negli anni Settanta tra molti contrasti (si pensi alle numerose iniziative xenofobe degli anni Settanta e Ottanta e alla difficile convivenza tra stranieri e svizzeri). Agli italiani in particolare avrebbero potuto essere risparmiati innumerevoli difficoltà, discriminazioni, umiliazioni risultanti dall’odio xenofobo, ma anche da una politica poco coraggiosa e lungimirante.

Ostacoli ai ricongiungimenti familiari, compromesso insufficiente
Con lo stesso atteggiamento di paura e di difesa ad oltranza della situazione, la Svizzera si dimostrò poco aperta nella ricerca di soluzioni praticabili e umane al problema dei ricongiungimenti familiari. Apparve ben presto chiaro che il compromesso raggiunto nell'Accordo con l’Italia di una riduzione dei tempi d’attesa per i titolari di un permesso annuale da tre anni a 18 mesi (e in certi casi meno) era insufficiente.
Non credo che, alla luce delle condizioni generali di allora, la Svizzera avrebbe potuto accogliere in pieno la richiesta iniziale italiana di eliminare le restrizioni e i termini di attesa allora in vigore (tre anni dopo l’ottenimento del permesso di dimora annuale). Mancavano, ad esempio, le abitazioni «adeguate» che avrebbero dovuto accogliere le famiglie ricongiunte, mancava soprattutto la disponibilità della popolazione indigena ad accogliere una crescita pressoché incontrollata di altri stranieri.
Tuttavia, il Consiglio federale - è convinzione molto diffusa tra gli studiosi di quel periodo - avrebbe potuto essere più accondiscendente nei confronti della richiesta italiana. Del resto erano note le critiche che gli venivano mosse sul tema dei ricongiungimenti familiari da vari ambienti della politica e della società. Esse nascevano non solo da considerazioni di ordine umano, morale e cristiano, ma anche da preoccupazioni di carattere sociale. Erano noti i problemi, i rischi e i disagi che comportava una prolungata separazione forzata delle persone sposate e magari con figli, si parlava apertamente di «vedove bianche» e di figli extramatrimoniali in aumento, di famiglie ufficiali e famiglie di fatto, di figli affidati a nonni e parenti e di figli parcheggiati in collegi e istituti sorti allo scopo in Italia lungo la fascia di confine con la Svizzera, ecc.
Eppure il Consiglio federale non venne incontro alla richiesta italiana sui ricongiungimenti familiari, sebbene si rendesse conto dell’insostenibilità alla lunga di una politica antifamiliare, che pretendeva una sorta di celibato forzato da tutti gli stagionali e da una parte abbondante di annuali. Avrebbe potuto accondiscendere almeno all’unità familiare dei coniugi entrambi stagionali o titolari di un permesso annuale, anche se da meno di 18 mesi, pur pretendendo quali condizioni indispensabili, per le famiglie con bambini, la disponibilità di alloggi adeguati, l’assistenza costante dei figli in età prescolastica e la scolarizzazione di quelli in età scolastica.

Figli «clandestini»
Si sa che molti italiani non si rassegnarono a questa separazione forzata della famiglia né a soluzioni provvisorie come l’affidamento dei figli a parenti o il loro ricovero in istituti. Dalla fine degli anni Sessanta in poi molti preferirono quella che uno studioso ha chiamato «la soluzione più istintiva, che è quella di portare comunque i bambini in Svizzera e mantenerli in maniera clandestina» (Calvaruso), sfidando i divieti della burocrazia svizzera e forse senza rendersi sufficientemente conto dei rischi e dei pericoli che correvano essi stessi e soprattutto i loro figli.
Manifestazione in favore dei
ricongiungimenti familiari
Di questi bambini «clandestini» si è detto e scritto molto, anche di recente, azzardando talvolta sul loro numero cifre poco probabili (da poche centinaia a parecchie decine di migliaia), ma soprattutto soffermandosi sulle loro condizioni di vita di vera e propria segregazione perché tenuti «nell’ombra» (come scrisse nel 1971 la «Tribune de Lausanne» nella prima inchiesta giornalistica su questi bambini nascosti).
La storia di questi bambini (che abbraccia alcuni decenni), considerata in senso generale, è triste perché getta una luce oscura sulla storia dell’immigrazione italiana (ma non solo italiana) degli anni Settanta e Ottanta. E’ stato detto e ripetuto che la politica migratoria svizzera e italiana è stata la principale responsabile di questo fenomeno, ma non va dimenticata nemmeno la responsabilità degli stessi genitori italiani, vittime a loro volta ma coscienti di molta ignoranza, di pregiudizi, di scelte sbagliate, di priorità sconvolte (si pensi all’assillo del risparmio, del gruzzolo, della casa in Italia, ecc.). Essi sapevano che non potevano trattenere illegalmente i loro figli in Svizzera non avendo (ancora) i titoli per tenerli in condizioni normali, forse sapevano anche che non stavano facendo il loro bene. O forse credettero, in buona fede, di non avere altre alternative. Purtroppo a «pagare» furono soprattutto bambini innocenti.
Nessuno, credo, è risalito nella catena delle responsabilità all’Accordo italo-svizzero del 1964. Eppure nelle mancate risposte o nelle soluzioni a metà di quell’Accordo è possibile trovare molte spiegazioni di quel che è avvenuto nei decenni seguenti. Anche per questo l’Accordo del 1964 è fondamentale nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera del dopoguerra.
(Il primo articolo di questa serie è apparso il 24 settembre 2014).

Giovanni Longu
Berna, 19.11.2014