12 novembre 2014

Accordo di emigrazione del 1964: 7. Conseguenze politiche in Italia e in Svizzera


L’Accordo tra la Svizzera e l’Italia del 1964, nonostante tutte le critiche che gli si possono muovere per i suoi limiti e carenze, ha avuto certamente anche alcuni meriti non di poco conto. Mi riferisco in particolare alla tematizzazione dei problemi migratori per la prima volta su scala nazionale in entrambi i Paesi e alla spinta data in Svizzera al cambiamento della politica migratoria, caratterizzato dall'abbandono graduale del principio della rotazione della manodopera estera e dall'avvio di politiche di stabilizzazione e integrazione dei lavoratori stranieri e delle loro famiglie.

Italia: emigrazione problema nazionale


Attorno all'Accordo si sviluppò per la prima volta in Italia un ampio dibattito, non solo nelle aule parlamentari ma anche nell'opinione pubblica, sulle reali condizioni dell’emigrazione italiana in Svizzera e sul livello di tutela che la riguardava. Sebbene il risultato faticosamente raggiunto fosse considerato dagli ambienti politici e sindacali italiani in generale soddisfacente, benché non corrispondesse alle «rivendicazioni» italiane iniziali, il Partito comunista italiano (PCI) era riuscito a insinuare il dubbio che l’Accordo non comportasse che miglioramenti «limitati» alle condizioni dei lavoratori italiani e contenesse persino «clausole che avrebbero potuto trasformarlo in una trappola». Come esempio veniva citata la clausola relativa alla possibilità del ricongiungimento familiare dopo 18 mesi, «sempreché disponga di un alloggio adeguato per ospitarla». Chi avrebbe deciso se un alloggio era adeguato o no, soprattutto in un contesto di grande penuria di abitazioni?
Già da alcuni anni raggiungevano ormai il grande pubblico molte notizie riguardanti lo spopolamento giovanile di intere regioni del Mezzogiorno dovuto all'emigrazione, le attività svolte dagli emigrati in Svizzera (e negli altri Paesi di destinazione), le loro reali condizioni di vita e di lavoro. Alcuni episodi in particolare riuscivano a intercettare l’attenzione anche dei meno interessati, come quando vennero espulsi dalla Svizzera alcuni attivisti politici e ad alcuni parlamentari comunisti fu vietato l’ingresso per timore che svolgessero propaganda politica illegale.
Ma fu proprio durante il negoziato e subito dopo che in Italia si cominciò a prendere coscienza che l’emigrazione soprattutto dal Mezzogiorno era divenuta un problema nazionale a cui occorreva porre rimedio. A livello politico si faceva sempre più duro lo scontro tra l’opposizione comunista che chiedeva la piena occupazione in patria e i partiti di governo che si rendevano conto dell’impossibilità di fare a meno dell’emigrazione (e delle rimesse degli emigrati). Il governo si sentiva impegnato a migliorare quantomeno le condizioni spesso miserevoli degli emigrati, ma si rendeva anche conto che spesso, come nel negoziato con la Svizzera, si trovava in una posizione svantaggiosa.

Reazioni nei confronti della Svizzera
L’eco dei dibattiti parlamentare sull'emigrazione non faceva che confermare negli italiani le informazioni sempre più frequenti di parenti o conoscenti emigrati e della stampa quotidiana e periodica, che riferivano in termini per lo più negativi delle reali condizioni di vita degli emigrati in Svizzera. Si parlava apertamente di discriminazioni, di sfruttamento, di condizioni abitative indecenti nelle baracche, persino di maltrattamenti, ma anche del disagio di molti emigrati per lo stato di abbandono da parte delle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane. Ai racconti di singoli emigrati o di loro associazioni si aggiungevano sempre più spesso notizie sulla diffusione di movimenti antistranieri, sulle misure sempre più restrittive del governo, sull’ostilità crescente della popolazione indigena, ecc.
Migranti italiani in attesa della visita
medica alla frontiera svizzera
Un episodio (febbraio 1965) che finì sui principali rotocalchi della Penisola e riferito anche dalla televisione fu l’interdizione a proseguire il loro viaggio in Svizzera per molti lavoratori italiani, sprovvisti della necessaria autorizzazione della polizia degli stranieri da poco richiesta oltre ai normali documenti personali. Vennero pubblicati servizi fotografici commoventi di emigranti disperati, mamme e bambini infreddoliti, senza alcuna assistenza alle stazioni di Chiasso e Domodossola.
In molti gridarono allo scandalo, tutti cominciavano a rendersi conto della dura realtà dell’emigrazione, fin quando lo stesso anno, nell’agosto 1965, la tragedia di Mattmark in cui morirono 88 lavoratori fra cui 56 emigrati italiani, sepolti dalla caduta di un ghiacciaio, non lasciò più alcuno indifferente. Da allora si moltiplicarono le iniziative politiche, sindacali, delle organizzazioni degli stessi emigrati nel tentativo di apportare qualche miglioramento effettivo alle condizioni di lavoro e di vita (sociale, familiare, abitativa, formativa, culturale, ecc.) degli immigrati in Svizzera. Ma la situazione era destinata, purtroppo, a migliorare solo lentamente.

Svizzera: fine della politica di rotazione
In seguito a molte critiche e suggerimenti che giungevano da svariati ambienti (economici, sindacali, culturali), nella prima metà degli anni Sessanta le autorità federali svizzere avviarono una lunga riflessione sulla politica migratoria praticata fino a quel momento, incentrata sul cosiddetto «principio di rotazione». Non si trattava di un principio codificato, ma di una pratica ormai consolidata da decenni, secondo cui l’immigrazione in Svizzera era e doveva essere preferibilmente temporanea (possibilmente stagionale): per evitare la stabilizzazione di un numero eccessivo di stranieri (per paura dell’«inforestierimento»), per rispondere meglio alle fluttuazioni della congiuntura economica (come massa di manovra) e perché meno costosa (meno abitazioni, meno servizi alle famiglie, meno oneri di formazione per i figli, ecc.).
Questa politica cominciò ad andare in crisi nella prima metà degli anni Sessanta, come risultava dalla tendenza crescente degli immigrati a restare in Svizzera sempre più a lungo e addirittura alla loro stabilizzazione come residenti annuali e come domiciliati. In soli cinque anni, tra il 1960 e il 1965 gli stranieri residenti stabilmente erano passati da 584.739 a 837.100 (+252.361) e gli italiani da 346.223 a 454.657 (+108.434). La trasformazione dell’emigrazione è ancor più evidente osservando il rapporto stagionali-residenti. Se nel 1960 tale rapporto era di 24 a 76 (per gli italiani: 37 a 63), nel 1970 diventerà di 16 a 84 (per gli italiani: 17 a 83).

Avvio di una nuova politica immigratoria
La tendenza, che appariva irreversibile, richiedeva un cambiamento nella politica immigratoria e comunque l’abbandono del principio della rotazione. Uno dei segnali più attesi di questo cambiamento doveva consistere nell'allentamento significativo delle restrizioni al ricongiungimento familiare.
Di fronte a molteplici pressioni interne ed esterne, il Consiglio federale aveva già introdotto nel dicembre del 1960 alcune agevolazioni per alcune categorie di immigrati: per esempio, i dirigenti e gli specialisti altamente qualificati potevano farsi raggiungere subito dalla famiglia, mentre per i lavoratori qualificati era richiesto un periodo di attesa inferiore a tre anni e almeno tre anni per tutti gli altri.
Nel corso del difficile negoziato per l’Accordo del 1964 l’Italia cercò di eliminare per tutti il periodo di attesa, ma dovette accettare il compromesso di una sua riduzione a 18 mesi. Era comunque un primo passo importante, anche se insufficiente, verso una nuova politica immigratoria, che si sarebbe affermata più chiaramente negli anni Settanta e Ottanta, ma che già verso la metà degli anni Sessanta si delineava in maniera irreversibile.

La seconda generazione e il cambiamento
Per avere un’idea delle esigenze di cambiamento nella politica verso gli stranieri basti ancora osservare che nel 1970 i giovani della seconda generazione avevano già raggiunto una proporzione molto consistente. Limitatamente agli italiani (che comunque costituivano allora la parte largamente maggioritaria della popolazione straniera in Svizzera), al censimento del 1970 risultava che su 583.850 italiani residenti oltre 180.000 (quasi un terzo) avevano un’età inferiore a 20 anni e nella stragrande maggioranza (oltre 150.000) erano ancora in età scolastica o prescolastica.
Alcuni studi recenti sull'immigrazione soprattutto di quella italiana sottolineano a ragione la mancanza di coraggio e di lungimiranza del Consiglio federale in questo campo, ma non bisogna dimenticare la complessità istituzionale, politica e culturale di questo Paese (che rallenta il processo legislativo) e il particolare rapporto tra politica ed economia, caratterizzato generalmente da una subordinazione della politica all'economia, come è emerso chiaramente nel negoziato con l’Italia e anche nell'abbandono del principio della rotazione della manodopera estera.
La seconda generazione per l’economia rappresentava allora soprattutto un costo, non una risorsa. Il principio della rotazione, invece, cominciava ad essere un problema. A decretarne la fine fu pertanto soprattutto la convenienza economica. In base agli standard dell’economia proiettata allo sviluppo, non era più conveniente ricorrere continuamente a nuovo personale, magari lasciando a casa un personale già formato e più integrato nella cultura dell’azienda. Inoltre occorreva stare attenti alla concorrenza tedesca che a partire dagli anni Sessanta reclutava lavoratori italiani, offrendo loro in certi campi migliori condizioni.

Nel prossimo articolo si parlerà del ruolo delle associazioni italiane nel processo di cambiamento e della problematica relativa ai ricongiungimenti familiari in seguito all'Accordo italo-svizzero del 1964. (Continua)

Giovanni Longu
Berna, 12.11.2014