24 settembre 2014

Accordo di emigrazione del 1964: 1. Il contesto migratorio italo-svizzero


Il 10 agosto 1964 venne firmato a Roma l’«Accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera». Dopo la sua entrata in vigore il 22 aprile 1965, ha disciplinato gran parte dei problemi migratori tra i due Paesi e pertanto rappresenta una pietra miliare nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera dal secondo dopoguerra in poi. Ricordare in una serie di articoli come si giunse a quell'accordo, quali problematiche doveva risolvere e quali ne furono i risultati mi pare utile per comprendere l’evoluzione della collettività italiana in Svizzera negli ultimi cinquant’anni. 

Tra Ottocento e Novecento
Prima di trattare direttamente dell’Accordo del 1964, ancora in vigore, ritengo indispensabile accennare al contesto generale dei rapporti italo-svizzeri in materia di emigrazione/immigrazione a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Tradizionalmente, dagli ultimi decenni dell’Ottocento, la Svizzera ospitava sul suo territorio numerosi lavoratori stranieri per le sue industrie, la sua agricoltura e le sue attività terziarie. Essi provenivano nella stragrande maggioranza dai Paesi confinanti, anzitutto dalla Germania e dall'Italia, ma anche dalla Francia e dall'Austria. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, costituivano il 14,7 per cento dell’intera popolazione residente, per quei tempi una percentuale altissima. I più numerosi erano i tedeschi, seguiti da vicino dagli italiani.
Sulla base di accordi bilaterali con i Paesi di provenienza, i lavoratori stranieri potevano stabilirsi liberamente in Svizzera o rientrare in patria senza troppe formalità. Sebbene di tanto in tanto si registrassero scontri e in alcuni casi, soprattutto a Berna e a Zurigo, aggressioni e atti di violenza collettiva a danno di immigrati, generalmente la collaborazione tra svizzeri e stranieri funzionava bene. Per questo la popolazione straniera aveva continuato ad aumentare fino allo scoppio della guerra, quando molti lavoratori stranieri furono richiamati in patria.
E’ interessante osservare che fino ad allora erano soprattutto gli svizzeri a lamentarsi degli stranieri, benché fossero questi ultimi ad avere più di una ragione per recriminare bassi salari, lavori pesanti e pericolosi, miserevoli condizioni abitative. Dal 1900 gli svizzeri sintetizzarono i loro disagi e la loro paura nei confronti degli stranieri in una parola divenuta emblematica per quasi un secolo, «inforestierimento» (Überfremdung).

Tra le due guerre mondiali
Dalla fine della prima guerra mondiale i problemi legati alla forte presenza di stranieri continuarono ad agitare le acque della politica svizzera, che intervenne in vari modi per frenare l’afflusso della manodopera estera e il suo stabilimento a tempo indeterminato. La preoccupazione principale era quella dell’inforestierimento.
Fin dal 1917 vennero inaspriti i controlli alle frontiere. In seguito vennero introdotti diversi tipi di permesso di soggiorno, nuovi regolamenti e una legge speciale sull’ingresso e la dimora degli stranieri, che ridussero notevolmente la proporzione degli stranieri fino a toccare il minimo storico del 5,1 per cento nel 1941. Solo nella seconda metà degli anni ’60 si toccheranno nuovamente i livelli del 1914.
In effetti tra le due guerre mondiali i flussi migratori, soprattutto dall’Italia, furono molto esigui. Essi riprenderanno con crescente intensità alla fine della seconda guerra mondiale.

Il secondo dopoguerra
E’ bene ricordare a questo punto che la Svizzera era stata toccata solo marginalmente dalla guerra e il suo apparato industriale era rimasto molto efficiente e in grado persino di accrescere la produzione e le esportazioni.
Per poter far fronte alla crescente richiesta, la Svizzera aveva però bisogno di molta manodopera e quella indigena era assolutamente insufficiente. Tra i fornitori tradizionali di manodopera, solo l’Italia però era in grado di rispondere alla domanda svizzera. Alla Germania e all’Austria le potenze occupanti non concedevano infatti permessi di emigrazione. Quanto alla Francia, non aveva esuberi da collocare all'estero. Solo l’Italia ne aveva in abbondanza, soprattutto al Nord. Per questo la Svizzera si rivolse fiduciosa all’Italia, che divenne per alcuni decenni il principale fornitore di lavoratori stranieri per l’economia elvetica.
In pochi anni vennero creati in Svizzera 300.000 nuovi posti di lavoro in gran parte occupati da immigrati, che aumentarono in modo vertiginoso: da 285.000 (1950: 6,1% della popolazione residente) a 584.739 (1960: 10,8%). Nello stesso periodo gli italiani residenti stabilmente in Svizzera passarono da 142.280 a 346.223. Nel 1950 costituivano circa il 50% degli stranieri; alla fine del decennio quasi il 60%.

Il primo accordo di emigrazione
Alla Svizzera non fu difficile trovare subito un accordo informale con l’Italia per ottenere quantitativi sufficienti di manodopera, anche grazie alla mediazione di un fuoruscito divenuto poi Ministro plenipotenziario e Ambasciatore straordinario d’Italia a Berna, Egidio Reale, che durante il soggiorno in questo Paese aveva intrattenuto rapporti amichevoli con molti funzionari federali. Già nel 1946 ben 48.808 lavoratori italiani giunsero dall’Italia e nel 1947 addirittura più del doppio, 105.112.
Poiché il numero di lavoratori italiani presenti in Svizzera continuava a crescere, il 22 giugno 1948 fu firmato a Roma un accordo ufficiale allo scopo di «mantenere e sviluppare il movimento emigratorio tradizionale dall’Italia in Svizzera, e regolare di comune accordo e nell’interesse dei due paesi le modalità di reclutamento dei lavoratori italiani e la procedura relativa all’entrata di tali lavoratori in Svizzera e il regime applicabile alle loro condizioni di soggiorno e di lavoro».
Anche grazie a questo accordo, la Svizzera ha rappresentato il principale Paese verso cui si orientava l’emigrazione italiana. Secondo statistiche italiane, tra il 1946 e il 1961 sono emigrati in Svizzera circa 1.284.000 italiani.

Prima immigrazione dal Nord Italia
Va altresì ricordato che la prima emigrazione dell’immediato dopoguerra proveniva soprattutto dal Nord Italia ed era generalmente qualificata perché «liberata» dalla smobilitazione della grande industria (bellica): erano soprattutto, comaschi, valtellinesi, varesotti, bergamaschi, bresciani, veneti, friulani, ecc. Negli anni 1947/48 provenivano dal Nord circa 100.000 persone l’anno, contro appena 3000 dal Centro e 1000 dal Sud. La provenienza dal Nord è stata prevalente fino al 1957; dal 1958 prevalse l’emigrazione dal Sud e dal centro Italia, dal 1961 ha preso nettamente il sopravvento il Sud Italia.
Della manodopera proveniente dal Nord non solo i responsabili delle imprese, ma anche le autorità politiche erano ampiamente soddisfatte avendo dato, come ebbe a dire un consigliere federale, «complessivamente buona prova, in parte eccellente». Bisogna anche dire che pure da parte degli italiani il giudizio complessivo era generalmente positivo, come risulta da molti resoconti giornalistici italiani e svizzeri dell’epoca.
La loro esperienza era addirittura contagiosa e questo spiega almeno in parte perché soprattutto dagli anni ’50 in poi molti italiani entrassero in Svizzera non «clandestinamente», come talvolta ancora si dice e si scrive ma semplicemente evitando la complessa burocrazia italiana di visti e timbri vari. Oltretutto per l’entrata in Svizzera era sufficiente un documento d’identità, anche se per soggiornare oltre tre mesi e per lavorare occorrevano altri permessi, che le autorità svizzere concedevano generalmente senza troppe difficoltà.
Anche sotto il profilo assicurativo e previdenziale, gli italiani erano sufficientemente garantiti. Infatti, in aggiunta all’accordo relativo all’immigrazione, il 4 aprile 1949 era stato stipulato tra l’Italia a la Svizzera un accordo in materia di assicurazioni sociali, che regolava in particolare l’assicurazione vecchiaia e superstiti (AVS) dei cittadini italiani, con effetto retroattivo al 1° gennaio 1948. Il 17 ottobre 1951 l’accordo del 1949 venne ulteriormente migliorato, in modo che almeno dal punto di vista assicurativo, i lavoratori italiani fossero equiparati ai lavoratori svizzeri.

Gli anni ’50: problemi in vista
Intanto la fase di crescita economica in Svizzera non accennava a rallentare, provocando grandi cambiamenti nella struttura socio-professionale. Molti svizzeri approfittarono dello sviluppo per abbandonare l’agricoltura e trasferirsi all’industria, ma ancora più numerosi furono gli svizzeri che passarono dall’industria al terziario.
Il settore maggiormente sollecitato dalla domanda interna ed esterna di beni era quello infrastrutturale (strade, autostrade, impianti idroelettrici, edilizia) e industriale,Il contributo degli italiani, allora la forza lavoro straniera più importante, in alcuni rami divenne determinante.
specialmente i comparti tessile, metallurgico, meccanico, chimico-farmaceutico, elettrico e orologiero. Questo settore era anche quello che occupava il maggior numero di lavoratori stranieri.
L’Accordo del 1948, che regolava solo questioni di carattere amministrativo per un tipo di immigrazione prevista quasi esclusivamente a carattere temporaneo, sembrava non più sufficiente per affrontare seriamente i nuovi problemi che si venivano delineando in seno a una collettività immigrata sempre più numerosa, complessa ed esigente. Si pensi solo alle nuove problematiche legate alla seconda generazione, ma anche alla difficile convivenza con la popolazione locale, alle legittime aspirazioni di una comunità sempre più stabile.
In breve, alla fine degli anni ’50 sembrava indispensabile un nuovo accordo in grado di affrontare bilateralmente i nuovi problemi della collettività italiana. (Continua)

Giovanni Longu
Berna, 24.09.2014