18 giugno 2014

1914-2014 : un secolo di emergenza lavoro in Italia


Da cent’anni, almeno, l’Italia vive periodi di forte emergenza lavoro. Oggi se ne parla come se la disoccupazione fosse una novità conseguente alla crisi finanziaria del 2008 e a quella economica e sociale successiva. Purtroppo la disoccupazione oltre quel tasso fisiologico (in genere poche unità percentuali), che è presente in tutte le società evolute, non abbandona l’Italia da almeno un secolo, anche se in certi periodi, per scelta politica (si pensi al fascismo) o per scelta «forzata», una parte della disoccupazione ha trovato sfogo nell’emigrazione.

Disoccupazione e malcontento
Sotto questo punto di vista,  il flusso migratorio verso la Svizzera, dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino a una trentina di anni fa, è sempre stato un buon indicatore della situazione occupazionale e sociale italiana. E’ così possibile conoscere attraverso i flussi migratori verso la Svizzera il livello di disoccupazione e di disagio sociale in Italia.
Cento anni fa, ossia poco prima che la forza lavoro venisse assorbita dalle forze armate bisognose di «carne da cannone» per la grande guerra, in Italia, specialmente nel Mezzogiorno, la disoccupazione era spaventosa, forse più di quella attuale, ma accompagnata come quella attuale da un grave malcontento per il degrado della politica.
Su un quotidiano dell’epoca (gennaio 1914) si poteva leggere che «la disoccupazione laggiù [nel Barese] è salita in modo impressionante. […] A Cerignola [località in provincia di Foggia] si sciopera. A San Severo [altra località del Foggiano] si tumulta. A Milano alle tavole di beneficenza si presentarono diecimila poveri: Milano, la capitale morale d'Italia, non ha di che sfamare diecimila bocche! La disoccupazione è ora diffusa per tutte le Provincie. Ricordiamo. A Suzzara [provincia di Mantova] dal 25 al 50 per cento. A Ravenna dall'80 all’82. A Reggio da 50 a 80. A Pavia dal 15 al 25. A Milano da 8 a 15. A Piacenza, poi, su 7000 organizzati, 3000 non hanno da lavorare. A San Severo e Foggia da 30 a 60 l'anno passato, a 60 e 70. A Bologna il 58. A Ferrara il 70: A Forlì il 60. A Rovigo il 50. E questa dolorosa statistica non è stata smentita in nessuna intervista di giornali ufficiosi […]».

La valvola dell’emigrazione
Andrebbe aggiunto che la disoccupazione e il disagio sociale conseguente sarebbero stati ben maggiori se una parte dei disoccupati non fosse emigrata: nel decennio 1905-1914 emigrarono (anche se molti poi ritornarono) non meno di 6.500.000 italiani, dei quali quasi 800.000 verso la Svizzera.

Sono passati cent’anni e la situazione occupazionale non è molto migliorata. Anzi, non lo è affatto, sebbene oggi non si tumulta più (persino i forconi delle manifestazioni del dicembre scorso sono stati messi via) e quasi non si sciopera nemmeno più, a parte le manifestazioni di protesta delle categorie di lavoratori che si sentono particolarmente minacciate. E anche oggi, di fronte alla mancanza di lavoro e alla mancanza di prospettive occupazionali almeno nel breve termine, molti italiani hanno ripreso la via dell’emigrazione.
Già, l’emigrazione! E’ sempre stata considerata una valvola di scarico delle tensioni sociali prodotte spesso proprio dalla disoccupazione e dalla povertà. Così era agli inizi del secolo scorso, così era persino nel periodo del «boom economico» (tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’70) e così è, almeno in parte, anche in questi ultimi anni di crisi, pur facendo tutte le differenze del caso.
Se nel 1913 lasciarono l’Italia in 872.500 e negli anni ’50 e ’60 partivano ogni anno 200-300 mila italiani, lo scorso anno ad emigrare sono stati meno di 100.000 italiani. Si tratta comunque di una bella cifra, significativa, fra l’altro, perché da alcuni decenni gli italiani non emigravano più, ma accoglievano immigrati. Ma la cifra è significativa soprattutto di un disagio sociale che nelle attuali proporzioni era sconosciuto anche agli italiani più longevi.

Emergenza lavoro nel dopoguerra
Quando il 2 giugno si è celebrata la Festa della Repubblica, ridando fra l’altro rilievo alle sfilate e ai ricevimenti ufficiali, sia pure con maggiore moderazione rispetto agli anni pre-crisi, si è ricordato soprattutto il passaggio dalla monarchia alla repubblica col referendum del 2 giugno 1946. Si è invece sorvolato sulla difficile situazione di allora, messa a nudo fra l’altro anche dal voto degli italiani, che rivelò un’Italia spaccata in due, monarchica a sud e repubblicana a nord e con prospettive di sviluppo assai diverse.
Alcide De Gasperi (1881-1954)
Se ne rese invece ben conto l’allora presidente dei ministri Alcide De Gasperi, che mentre era ancora incerto l’esito del referendum, in un breve intervento alla radio ricordò che non si era votato solo per la scelta tra monarchia e repubblica, ma anche per l’elezione dell’Assemblea Costituente (556 deputati). Ebbene, dopo aver tranquillizzato la popolazione perché «la legalità dei risultati è garantita senza interferenza alcuna» (la paura di ingerenze esterne era grande!) grazie soprattutto alla «volontaria collaborazione» tra tutte le forze democratiche di maggioranza e minoranza, De Gasperi richiamò i due principali problemi del momento: dapprima l’insediamento della Costituente e poi «quelli più gravi del lavoro».
La Costituente si mise subito all’opera in un grande clima di collaborazione. Il risultato, la Costituzione repubblicana, è ancora oggi, a detta di molti, un capolavoro. Vale la pena ricordare che si apre con una sintesi di straordinaria saggezza politica e un richiamo molto impegnativo per i cittadini e per lo Stato: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Purtroppo l’elemento più delicato dell’Italia repubblicana è ancora oggi proprio il suo fondamento, il lavoro, sempre fragile, spesso insicuro, precario, talvolta completamente assente.
Il governo De Gasperi, è vero, aveva avviato subito la ricostruzione del Paese, creando numerosi posti di lavoro e richiamando dall’estero ingenti investimenti, indispensabili per la ripresa. Ma il lavoro restava per molti, soprattutto meridionali, un’utopia. Esso era concentrato soprattutto al nord, mentre al sud cresceva la disoccupazione e la povertà.

Promesse non mantenute
Tutti i governi del dopoguerra, soprattutto nei periodi elettorali, promettevano la rinascita del Sud. Nel 1948, in campagna elettorale, i democristiani avevano fatto affiggere in tutto il Mezzogiorno un grande manifesto a colori con la scritta: «Faremo del Mezzogiorno la California d’Italia». Qualche anno più tardi Giorgio Amendola (PCI) rimprovererà al Governo di aver promesso «che avrebbe risolto la questione meridionale con massicci investimenti pubblici (…). Il fondamento sicuro di questa politica avrebbe dovuto essere il piano Marshall che, secondo i propagandisti democristiani, avrebbe fatto del Mezzogiorno la California d’Italia. Ma la realtà, ora che gli aiuti E.R.P. sono cessati, fornisce un quadro sconsolante (…) L’Italia meridionale ha ottenuto solo le briciole di questa torta e ha pagato a un prezzo estremamente caro i pochi vantaggi conseguiti».
Può sembrare un paradosso, eppure si verificò in Italia questa sorta di contraddizione: prima ancora che finisse la ricostruzione e si avviasse dall’inizio degli anni ’50 un lungo periodo di espansione economica, aveva ripreso a crescere, come all’inizio del secolo, il flusso migratorio verso l’estero.
Per evitare le tensioni sociali l’emigrazione venne addirittura favorita, persino con accordi ritenuti in seguito scandalosi, come quello col Belgio (1946), con cui si garantivano minatori in cambio di carbone. Lo stesso De Gasperi andava dicendo: «imparate una lingua e andate all’estero». Già nel 1946 lasciarono l’Italia non meno di 110.000 italiani, di cui quasi 49.000 raggiunsero la Svizzera. Nel 1947 gli emigranti italiani erano già più del doppio: ben 254.000, di cui oltre 100.000 diretti in Svizzera. Il flusso migratorio continuerà, praticamente inarrestabile, per circa un trentennio, segno evidente che l’emergenza lavoro in Italia non era stata ancora superata.

Disoccupazione allarmante
Dalla metà degli anni ’70 in Italia si registra una ripresa economica, gli italiani non emigrano più in massa, altri stranieri cominciano ad arrivare, anzi a sbarcare, e le opportunità di lavoro aumentano. La disoccupazione è sotto controllo, nonostante tenda a salire fino al 2000, quando si avvia a una forte discesa fino al 2007. Con l’avvento della crisi finanziaria prima e della crisi economica generale dopo, il tasso di disoccupazione balza in pochi anni da poco sopra il 6% a oltre al doppio. Il lavoro ridiviene un’emergenza, che genera malcontento contro la politica (com’era già avvenuto un secolo fa), disagio sociale, rischio accresciuto di povertà. e ripresa dell’emigrazione.
Le cifre sulla disoccupazione italiana sono allarmanti: secondo statistiche ufficiali nel primo trimestre di quest’anno il tasso generale di disoccupazione ha superato il 13%, quello giovanile (dai 15 ai 24 anni) addirittura il 46%. Si tratta complessivamente di 3,5 milioni di italiani, concentrati soprattutto nel Mezzogiorno, dove i valori percentuali sono nettamente superiori: 21,7 la media e 60,9 la disoccupazione giovanile.
Nonostante la drammaticità della situazione che queste cifre rappresentano, ho la sensazione che la situazione sia sottovalutata, oppure le statistiche non dicono la verità. Sta di fatto che anche il dinamico governo di Matteo Renzi non sembra considerare il livello della disoccupazione allarmante e tale da richiedere una sorta di stato di emergenza occupazionale. Se tale venisse percepito si dovrebbe investire il massimo delle risorse disponibili nella prospettiva di una maggiore occupazione, senza aspettare la conclusione delle promesse riforme strutturali, interventi salvifici dell’Unione Europea o una improbabile ripresa del settore manifatturiero. Ritengo anzi un’illusione pensare ancora di poter creare nuovi posti di lavoro nella manifattura.
Probabilmente mancano le idee, una in particolare che dovrebbe fare da filo conduttore: oggi il lavoro è garantito principalmente dall’înnovazione. A sua volta non ci può essere innovazione se non si investe massicciamente nella formazione, nella ricerca e nelle nuove tecnologie. Tanto vale puntare decisamente verso altre mete, cominciando da una vera riforma della scuola e dell’università, investendo massicciamente nella ricerca e nello sviluppo, defiscalizzando tutti gli investimenti privati negli stessi campi e incentivando le assunzioni. Così hanno fatto e fanno grandi e piccoli competitori dell’Italia. Perché non seguirne l’esempio?

Giovanni Longu
Berna, 18.06.2014