12 febbraio 2014

Nello Celio e l’immigrazione italiana (prima parte)


Cento anni fa, esattamente il 12 febbraio, nasceva a Quinto, in Ticino, Nello Celio, destinato a una brillante carriera come economista e uomo politico. Padre di due figli, Francesco e Cristina, avvocato e notaio, cattolico liberale. Ha ricoperto importanti incarichi politici dapprima in Ticino, poi nella Confederazione come consigliere nazionale (1963-1966) e consigliere federale (1963-1973). Diresse i dipartimenti militare (1967-1968) e finanze (1968-1973) e nel 1972 fu presidente della Confederazione. Alla fine del 1973 lasciò l’attività politica per ritirarsi a vita privata, non disdegnando tuttavia di occupare importanti incarichi nell'economia e nella finanza (dopo aver rinunciato alla pensione come ex consigliere federale). Morì a Berna il 29 dicembre 1995.
Nello Celio (1914-1995)

Il giudizio storico su Nello Celio è forse ancora controverso come lo è stato quando era in vita, ma non c’è dubbio ch'egli sia stato un importante personaggio della vita pubblica ticinese e nazionale, con una visione del Ticino e della Svizzera che superava i confini nazionali. Un aspetto della sua personalità di cui si è sempre parlato e scritto poco è la sua attenzione particolare all'Italia e agli italiani, specialmente quelli immigrati in Svizzera.

Celio e l’Italia
Celio conosceva e amava l’Italia, tanto che vi trascorreva spesso le vacanze, soprattutto in Versilia, dove, a Marina di Pietrasanta, possedeva una «casetta». Aveva una grande stima di alcuni uomini politici italiani che conosceva personalmente come Carlo Donat-Cattin (dal 1969 al 1972 ministro del lavoro), «persona di un’intelligenza straordinaria e spassosissima», Emilio Colombo (presidente del Consiglio dei ministri dal 1970 al 1972), Alberto Bemporad (all’epoca sottosegretario agli affari esteri), «una cara persona» e numerosi altri. Tra i funzionari dell’Ambasciata italiana di Berna conosceva in particolare il ministro Tullio Migneco, siciliano, «mio buon amico», allora capo dell’Ufficio emigrazione. Ma aveva grande stima degli italiani in generale e in particolare, come si vedrà, dei lavoratori immigrati in Svizzera. Non lo nascondeva: «siamo in debito con l’Italia».
Dell’Italia conosceva non solo la politica, ma anche molte tradizioni, culinarie comprese. Ad esempio, apprezzava molto il caffè all'italiana, che riusciva ad ottenere anche in casa da ciascuna delle tre macchinette Faema, Olympia e Mirella, che possedeva. Per ottenere un buon caffè sconsigliava di comprare caffè già macinato, perché destinato a perdere presto l’aroma. Secondo lui il caffè andrebbe sempre macinato al momento. La sua preferenza andava a una miscela particolare di caffè africano e caffè portoricano. Avrebbe voluto miscelare e tostare egli stesso il suo caffè «all'italiana», ma non era ancora riuscito a trovare lo strumento apposito.

Celio e l’Accordo di emigrazione del 1964
Nello Celio amava certamente l’Italia e gli italiani, ma forse la sua maggiore comprensione e stima era rivolta ai lavoratori italiani venuti a lavorare in Svizzera, che sentiva poco compresi e ingiustamente colpevolizzati. A quanti sostenevano la scarsa integrazione degli immigrati nella Svizzera tedesca rispondeva che integrarsi era tutt'altro che facile, soprattutto a causa della lingua. Di per sé, «gli italiani sono rapidamente assimilabili», ma quando ci si mette di mezzo il tedesco («boia di una lingua!»), le difficoltà sono inevitabili. Celio aveva conosciuto queste difficoltà in famiglia e nel corso di un’intervista a ruota libera del 4 maggio 1972 confessò: «per mio figlio è stato una tragedia il tedesco, per mia figlia no».
Di fronte alle ingiustificate preoccupazioni nei confronti degli immigrati italiani, Celio aveva espresso chiaramente il suo pensiero una prima volta in occasione del lungo dibattito al Consiglio nazionale, nel 1965, sulla ratifica dell’Accordo di emigrazione tra la Svizzera e l’Italia del 1964. Credo che le sue considerazioni meritino di essere ricordate, anche per l’attualità che hanno conservato, nonostante sia trascorso da allora quasi mezzo secolo e sebbene gli attacchi xenofobi di oggi non siano più rivolti solo agli italiani.
E’ noto che quell'Accordo fu molto contestato in Svizzera soprattutto dalla destra nazionalista. Celio fu tra i principali oppositori di quella destra che aveva organizzato un’ondata di contrasti e di polemiche a scopo puramente strumentale e ricattatorio. Alla domanda se fosse giustificata tanta violenta reazione, Celio rispondeva molto garbatamente ma fermamente: «Non è certamente lecito sottovalutare quanto accade nel paese in questo momento, ma ancor meno lecito è assecondare le più deteriori manifestazioni contro i lavoratori italiani, il cui unico torto è quello d'essere nella corrente migratoria verso una economia che li ha reclamati a gran voce …».

Richiamo alla responsabilità e al buon senso
Da parte di Celio, la difesa degli immigrati italiani non era dovuta a semplice simpatia personale e tantomeno si trattava di una difesa d’ufficio legata alla «vicinanza» geografica e culturale del Ticino con l’Italia o a considerazioni di tipo umanitario, ma era il risultato di una visione politica (una chiara proiezione della Svizzera nel più vasto contesto dell’integrazione europea) e di convinzioni profonde fondate sulla realtà.
Italiani durante lo scavo della galleria del San Gottarrdo
Nel suo intervento al Consiglio nazionale Celio invitava a un piccolo sforzo di memoria e di comprensione: «In collaborazione con l'eccellente operaio svizzero, l'emigrazione italiana ha da noi impresso il marchio alle più grandi opere, dalle gallerie ferroviarie agli impianti idrici, e le grandi costruzioni del genio civile non avrebbero visto la luce se umili e meno umili lavoratori di quella nazione che nei tempi illuminò il mondo con la sua civiltà, non vi avessero posto mano. Il padronato svizzero non può misconoscere di avere, grazie alla mano d'opera italiana, risolto il problema della espansione ed i lavoratori del nostro paese, dopo aver fino a ieri predicato la solidarietà internazionale, non avranno dimenticato il contributo dell'estero all'incremento del prodotto sociale di cui essi stessi hanno beneficiato in larga misura».
La Grande-Dixence, la diga più alta del mondo
Pertanto, proseguiva Celio, «di fronte a questo fattivo, innegabile, insostituibile grande apporto [degli italiani], impallidiscono singoli episodi, certo non edificanti, ma comuni a tutti gli esseri umani, e che acquistano d'un tratto particolare riprovevole rilievo solo perché sono imputabili a stranieri».
Per contestualizzare ulteriormente l’intervento di Celio è bene ricordare che dalla fine degli anni Cinquanta la paura dell’«invasione» degli stranieri (allora soprattutto italiani) non faceva che aumentare, anche tra i sindacati, tanto che il Consiglio federale si vide costretto a intervenire introducendo misure di contenimento (i famosi «contingenti») all'ingresso di nuovi immigrati. L’applicazione immediata di tali misure aveva creato non pochi problemi alle frontiere di Chiasso e Briga, e un problema politico in Italia, perché molti lavoratori italiani, sprovvisti dell’autorizzazione della polizia degli stranieri, vennero respinti alla frontiera. Tant’è, soprattutto la destra nazionalista e xenofoba riteneva tali misure insufficienti e il 15 dicembre 1964, ossia pochi mesi dopo la firma dell’Accordo italo-svizzero, aveva lanciato un’iniziativa popolare «contro l’inforestierimento».

Applicare le misure con «umanità»
In questo contesto, l’intervento dell’on. Celio proseguiva con queste parole: «Sono nettamente favorevole alla politica del Consiglio federale che vuole arginare il flusso degli operai stranieri: mi sia concesso di dire però che se eccesso vi fu lo è stato nella domanda, non nella offerta di servigi, e se errore vi fu, lo è stato da parte dei lati economici nell'aver seguito il fenomeno con occhio contemplatore, senza avvertire tempestivamente l'esito finale, che doveva tradursi in drastiche misure. E se errore politico è stato commesso, non è quello di oggi, ma quello di non aver creato le condizioni per assicurare alla nostra economia quegli elementi del settentrione italiano che, per mentalità e costume di vita, meglio si addicevano ad una assimilazione».
Riferendosi in particolare ai frontalieri e agli operai edili Celio non aveva dubbi: «Che i frontalieri non creino problemi congiunturali, non è da dimostrare, e sappiamo quanto siano necessari ai nostri cantoni di frontiera. Che gli operai dei cantieri discosti non domandano infrastruttura è anche pacifico. Infine, che sia rispondente al nostro interesse, nell'ambito delle nostre relazioni mondiali, considerare la presenza da noi di complessi che al disopra delle frontiere creano legami economici con altri paesi, pure mi sembra indiscutibile. Il Consiglio federale deve essere sorretto nei suoi sforzi con dignità, senza tracotanti dichiarazioni e senza imposizioni arbitrarie circa il numero, imposizioni che tengono conto del rumore che sale dalla piazza, ma assai meno della complessità della nostra economia e della nostra industria. Ma il Consiglio federale deve anche adoperarsi perché le misure siano applicate con umanità. Non faccio rimproveri a nessuno, perché so quanto sia difficile, ma è lecito dire che certe scene alla frontiera, la divisione delle famiglie, quando proprio l'accordo le vuole unire, hanno risvegliato in noi sentimenti di amarezza».

«Discutiamo da pari a pari»
Celio invitava quindi a evitare polemiche inutili e dannose, nell’interesse di tutti, e a ricondurre la discussione entro i termini di un accordo che deve regolare un «fatto economico» concernente due parti che vanno considerate «sullo stesso livello».
Così argomentava: «Io considero il lavoro straniero in Svizzera come un fatto economico, una compenetrazione di economie, l'una ricca di braccia, l'altra di attrezzature e di capacità produttiva. Non facciamo, per la dignità stessa dei lavoratori, del lavoro italiano in Svizzera, un fatto di carità, o di assistenza internazionale. Mettiamo le due parti sullo stesso livello, e discutiamo da pari a pari, senza speculazioni sullo stato di necessità dei contraenti».
Il vero problema di cui discutere, serenamente, non era tanto se l'accordo con l'Italia incidesse sul numero degli stranieri in Svizzera, ma come incideva, ossia estendendo la possibilità di riunire le famiglie. «Le famiglie, le scuole per i figli, gli alloggi: ecco il punto cruciale e controverso», ma anche ineludibile. Celio alludeva evidentemente a una politica d’integrazione ancora di là da venire, ma fondamentale, almeno nella misura in cui si riteneva indispensabile anche in futuro la manodopera estera. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 12. 02. 2014