29 gennaio 2014

Italiani in Svizzera tra passato e futuro


Il 2014 è un anno di grandi anniversari, anche per la collettività italiana in Svizzera, che ha ormai alle spalle una lunga storia migratoria di oltre 150 anni. Ricordarne qualcuno, senza soffermarvisi troppo, può essere utile per intravedere la lunga marcia dell’emigrazione italiana in Svizzera dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri. Si è trattato di un lungo processo che ha visto cambiare non solo i protagonisti ma anche il significato della loro permanenza in questo Paese.

I mutamenti sono stati talmente profondi che anche il linguaggio ha dovuto adeguarsi. Se prima si parlava di espatriati, emigranti ed emigrati, colonie italiane, oggi si parla di prima generazione, seconda generazione, cittadini italiani all’estero, svizzeri di origine migratoria, doppi cittadini svizzeri e italiani. L’attuale realtà rende estremamente difficile definire e caratterizzare, sotto il profilo sociologico e culturale, la «collettività italiana» e ancor più problematico tentare paragoni con situazioni precedenti, anche non troppo lontane.

Le origini: 150 anni fa
L’Italia è sempre stata terra di emigranti e, purtroppo, lo è ancora. Dico purtroppo perché anche la classe politica attuale sembra non accorgersi dell’enorme perdita di risorse umane rappresentata dalla fuga (il termine mi pare appropriato) di giovani talenti dall’Italia, molto spesso senza prospettive di ritorno.
Si cominciò a partire già 150 anni fa, soprattutto dal Meridione, per sfuggire alla miseria e alla cattiva politica. Gran parte degli emigranti si dirigeva verso le Americhe, ma molti, soprattutto quelli delle regioni del Nord, si fermarono in Europa. Molti sono venuti in Svizzera, perché qui l’offerta di lavoro era abbondante.
Gli emigranti lasciavano il loro paese in cerca di fortuna, per lo più ignari della vita che li attendeva. Quasi ovunque la «fortuna» non li accoglieva a braccia aperte, ma chiedeva loro braccia possenti, sacrifici spesso disumani, molta fatica e sottomissione. Per questo i primi emigrati soffrivano così tanto di nostalgia e di rabbia allo stesso tempo, ma dovevano resistere per poter campare e tirar su famiglia.
I danni dell’emigrazione, soprattutto quella dal Mezzogiorno, furono enormi. Alla politica dissennata di allora (e successiva) e all’esodo massiccio di manodopera giovane oggi si addebitano, almeno in parte, l’abbandono delle campagne, il calo demografico, lo sfascio idrogeologico, agricolo-produttivo e socio-culturale, il divario persistente tra Nord e Sud.

L’immigrazione italiana in Svizzera
Gli immigrati italiani venuti in Svizzera prima della prima guerra mondiale hanno fatto un po’ di fortuna, ma hanno fatto soprattutto la fortuna di questo Paese.
Nel 1848, quando nacque lo Stato federale, la Svizzera accusava un forte ritardo nei confronti degli altri Paesi europei in materia di trasporti, di produzione industriale e di commercio. Quando decise di dotarsi di una rete ferroviaria moderna, indispensabile per ogni ulteriore sviluppo, mancava la manodopera necessaria e dovette far ricorso a quella straniera.
Gli italiani accorsero numerosi e soprattutto grazie al loro lavoro si realizzarono quei capolavori di ingegneria ferroviaria che sono le lunghe gallerie transalpine. In alcuni cantieri la manodopera era costituita quasi al 100% da italiani, ritenuti per quel genere di lavori insostituibili. Per questo il loro numero cresceva. Se nel 1880 erano poco più di 40.000 (senza contare gli stagionali), nel 1900 erano quasi 120.000 e dieci anni più tardi, nel 1910, oltre 200.000.

La Svizzera 100 anni fa
A crescere, tuttavia, non era solo il numero degli italiani (e degli stranieri in generale), ma era soprattutto la Svizzera, che all’inizio della prima guerra mondiale possedeva una rete ferroviaria tra le più fitte ed efficienti del mondo, un sistema bancario sviluppato, un apparato industriale e commerciale competitivo, un turismo in crescita. Naturalmente il prezzo di tanto progresso è stato alto: condizioni di lavoro e salariali dure, orari di lavoro che andavano fino a 90 ore settimanali, assicurazioni sociali inesistenti o carenti, separazioni familiari, ecc.

Per rendere evidente il successo economico della Svizzera, cento anni fa, nel 1914, venne organizzata a Berna una grande esposizione nazionale «per la promozione delle esportazioni» con circa 8000 espositori. Fu un successo, non effimero. La Svizzera si vedeva proiettata verso la modernità e il benessere generalizzato, un’isola felice, mentre tutt’intorno aleggiavano venti di guerra.
Per il lavoro compiuto i lavoratori italiani ricevevano il salario convenuto, sempre piuttosto scarso rispetto alle difficoltà e ai pericoli affrontati, ma sempre superiore a quel che avrebbero potuto ottenere in Italia. Dalle autorità e dai datori di lavoro erano molto apprezzati. Tra la popolazione indigena, invece, erano spesso isolati, derisi, umiliati e offesi persino con atti di violenza gravi. Erano «cinkali», o addirittura invasori che portavano via il lavoro e le abitazioni agli indigeni. Erano manodopera mobile, «à la carte», da usare quando e dove conveniva, al massimo «ospiti» giusto per il tempo che servivano. Non erano integrabili, per cui dovevano vivere in «colonie» isolate. Nella Svizzera tedesca di loro si parlò come di un grave problema e si inventò l’espressione «il problema degli italiani» (die Italienerfrage), prima ancora che si parlasse del «problema degli stranieri» (die Ausländerfrage). Erano gli inizi della xenofobia nei confronti degli italiani.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale divenne prioritaria la difesa del Paese. Il problema degli stranieri e degli italiani in particolare venne rimandato.

La xenofobia di 50 anni fa
Chiuso, con la fine della seconda guerra mondiale, il difficile periodo tra le due guerre, e messa a tacere (almeno così si sperava) la questione degli stranieri con l’approvazione di un’importante legge nel 1931, per la Svizzera iniziava un lungo periodo di sviluppo senza precedenti.
Anche in questa fase, almeno per alcuni decenni, il contributo italiano è stato determinante. Gli italiani arrivavano a ondate e col loro lavoro sviluppavano la fitta rete dell’infrastruttura stradale e autostradale, realizzavano a sostegno dell’industria, del commercio e del benessere generale una vasta rete di impianti idroelettrici, creavano o trasformavano interi quartieri urbani, costruivano ogni tipo di edifici pubblici, commerciali, residenziali con centinaia di migliaia di abitazioni, governavano ogni sorta di macchinari nei cantieri e nelle fabbriche per la produzione di beni di consumo e d’esportazione.
Nel 1948, per regolare l’afflusso degli immigrati italiani, su iniziativa dell’Italia venne firmato a Roma un accordo italo-svizzero sull'immigrazione allo scopo di regolare il movimento emigratorio tradizionale dall’Italia in Svizzera. Era un accordo minimalista e pochi anni più tardi (1964) se ne dovette rinegoziare un altro che tenesse meglio conto delle nuove esigenze degli italiani (migliori condizioni di lavoro e salariali, assicurazioni sociali, scuole, formazione scolastica e professionale della seconda generazione, integrazione, ecc.). Anche questo accordo però non ebbe l’esito sperato, perché in alcune parti molto carente.
Nella realtà quotidiana, gli italiani continuavano a vivere nelle loro «colonie» come fossero ghetti. Erano ancora considerati «ospiti», massa di manovra, stranieri non integrabili, forestieri pericolosi (inforestierimento, Überfremdung), utili per il lavoro, fonte di problemi nella vita quotidiana a causa soprattutto del loro numero in continua crescita, dei loro modi di vivere e delle loro esigenze (abitazioni, ospedali, chiese, scuole per i loro figli).
Inutilmente avrebbero voluto gridare come nel film di Alexander J. Seiler (1964) «Siamo Italiani», ma gli italiani allora non avevano voce, sebbene a loro favore fosse intervenuto lo stesso Max Frisch, uno dei più noti scrittori svizzeri. Fu lui a sintetizzare magistralmente la situazione degli immigrati e soprattutto degli italiani di quegli anni Abbiamo chiamato braccia… e vennero uomini». Gli immigrati erano visti principalmente come una sorta di macchine umane, come «forza lavoro», non come persone, con radici culturali e sociali, con sentimenti e aspirazioni ad una vita familiare e sociale «normale».
con la celebre frase: «

Verso il futuro
Negli ultimi decenni le polemiche, le contrapposizioni e le incomprensioni si sono via via attenuate per poi scomparire quasi del tutto. La collettività italiana residente stabilmente in Svizzera è e si sente in larga misura bene integrata e non sta certo ad aspettare la prossima visita a Berna di Enrico Letta (o chi per lui) e forse nemmeno quella di Giorgio Napolitano per sentirsi pienamente realizzata nella sua condizione «italo-svizzera». Il futuro però può sempre riservare sorprese. E’ difficile, ad esempio, decifrare le nuove ondate migratorie dall’Italia: meno di 6.000 arrivi dieci anni fa, più del doppio due anni fa. E’ comunque certo che le condizioni migratorie generali di oggi sono incomparabilmente migliori di quelle di 100, 50 o anche solo 30 anni fa.
Giovanni Longu
Berna, 29.01.2014