18 dicembre 2013

Italiano irrinunciabile… perché?


Il 9 dicembre scorso, in occasione del 50° anniversario dell’adesione della Svizzera al Consiglio d’Europa, l’Ufficio federale della cultura e la Direzione del diritto internazionale pubblico hanno organizzato un Convegno su «Le lingue minoritarie in Svizzera: tra diritti e promozione della diversità. Le sfide attuali nell’insegnamento delle lingue in Svizzera».
Il livello e la qualità del Convegno sono stati messi in evidenza non solo dal pubblico molto numeroso e qualificato che gremiva la grande sala del Municipio (Rathaus) di Berna, ma anche dalle relazioni e dagli interventi dei rappresentanti di istituzioni (Consiglio federale, vari Uffici federali, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, Consiglio di Stato del Cantone di Berna, Consiglio di Stato del Cantone Ticino), di organizzazioni intercantonali, di associazioni d’insegnanti e del pubblico.

Contesto e contenuti
Il contesto era celebrativo, i 50 anni di adesione della Svizzera al Consiglio d’Europa, il contenuto divisivo, com’è ormai da anni quando si discute del plurilinguismo elvetico, vanto per chi vorrebbe ancora diffondere nel mondo la bella immagine di una Svizzera coesa, plurilingue e pluriculturale, preoccupazione per tutte le rappresentanze delle lingue minoritarie che vedono a malincuore la perdita costante di attrattiva e di utenti soprattutto dell’italiano, del romancio ma anche del francese.
Friedrich Dürrenmatt, in un discorso del 1° agosto 1967, diceva a proposito dei rapporti tra i vari gruppi linguistici e culturali che compongono la Svizzera: «il rapporto non è buono, anzi di per sé non esiste alcun rapporto. Abitiamo gli uni accanto agli altri, ma non insieme. Quel che manca è il dialogo, il colloquio, la curiosità reciproca, l’informazione». Da allora ad oggi, purtroppo, non si sono fatti molti passi avanti, anzi, sembrerebbe, se ne sono fatti parecchi indietro.
In numerosi interventi sullo stato e sull’insegnamento delle lingue minoritarie, specialmente del romancio e dell’italiano, sembrava quasi di sentire l’eco delle parole di Dürrenmatt. In effetti, le lingue minoritarie non godono oggi salute migliore che ai tempi del grande scrittore svizzero; stanno infatti perdendo sempre più il carattere nazionale e attrattiva tra gli studenti liceali svizzeri. Fuori del Ticino è sempre più difficile incontrare giovani di seconda generazione italiani e ticinesi che sanno ancora parlare discretamente l’italiano. L’italiano, come il romancio, si riduce sempre più a lingua regionale (Svizzera italiana). La stessa sorte toccherà al francese: nella Svizzera tedesca solo in pochi Cantoni ha una percentuale di parlanti superiore all’uno per cento; fa eccezione Basilea Città con il 2,5%.

Lingue minoritarie e regionali
L’italiano però sta peggio perché non ha la massa critica del francese, sebbene nella Svizzera tedesca e nei Cantoni plurilingui presenti generalmente percentuali superiori al 2 per cento, con punte del 10,2% nei Grigioni e del 4,4% a Glarona. Il grosso handicap dell’italiano è che diminuiscono sempre più gli italofoni (in seguito al rientro di molti italiani di prima generazione e alla totale integrazione di molti italiani e ticinesi di seconda generazione) e l’offerta dell’italiano nelle scuole pubbliche si riduce costantemente.


Proprio questa riduzione dell’offerta ha provocato un vigoroso intervento del consigliere di Stato ticinese Manuele Bertoli, in difesa del plurilinguismo e della primogenitura dell’italiano come lingua nazionale e ufficiale insieme al tedesco e al francese, fin dalla costituzione dello Stato federale (1848). Oltretutto, egli ha denunciato, questa trascuratezza della lingua di Dante avviene violando le regole che disciplinano l’insegnamento delle lingue nazionali in Svizzera. Basta dunque, ha insistito Bertoli, con questa inosservanza da parte di numerosi Cantoni svizzero-tedeschi, ultimo della serie Obvaldo, e basta con le parole («inutile anche organizzare convegni sulla necessità di promuovere le lingue minoritarie»): è tempo di passare ai fatti, cominciando dal mantenimento dell’italiano quale lingua di maturità in ogni liceo svizzero.

Cercare le motivazioni
A sostegno dell’intervento del consigliere Bertoli si sono levate diverse voci del pubblico e di alcuni relatori, ma a mio parere non si è fatto ancora alcun passo avanti rispetto alla situazione attuale e alla tendenza ormai sotto gli occhi di tutti. Del resto nemmeno Bertoli ha affrontato il tema della motivazione necessaria per imparare una lingua, aldilà delle considerazioni piuttosto ovvie della coesione nazionale, dei diritti delle lingue minoritarie, della primogenitura della lingua italiana e simili argomentazioni, utili ma non sufficienti.
La verità è che le motivazioni per apprendere l’italiano a livello di grande pubblico scarseggiano perché l’italiano, come diceva un ambasciatore d’Italia in Svizzera alcuni anni fa, non è o non sembra spendibile, anche in termini di convenienza economica.
Credo che la soluzione del problema dell’italiano non vada tanto cercato invocando nuove ordinanze federali o nuove leggi sulle lingue nazionali, ma piuttosto ricercando le giuste motivazioni per la salvaguardia di una lingua che non è solo una lingua. Ha detto bene, nel suo discorso inaugurale del Convegno, il Consigliere federale Alain Berset: «una lingua non è solo una lingua. Una lingua è più di una lingua. Essa rappresenta una cultura, esprime una maniera di vedere il mondo…».
In effetti, quando si parla di difesa della lingua italiana non si dovrebbe mai dimenticare che a questa lingua è legata strettamente una cultura vivente di ampia portata e anche una parte assolutamente non trascurabile della storia svizzera. Dimenticarla, considerarla secondaria e peggio ancora abbandonarla sarebbe un errore gravissimo.

Giovanni Longu
Berna, 18.12.2013

Italia: investire in formazione


Da oltre vent’anni i leader politici di ogni orientamento nei loro proclami verbali indicano la necessità di interventi prioritari nel campo della formazione, tanto quella di base quanto quella professionale. Di fatto questi interventi vengono trattati come secondari e rinviati «per mancanza di risorse». Sono convinto che manchino anche le idee, ma soprattutto la consapevolezza che senza un sostanziale miglioramento della formazione l’Italia continuerà il suo declino.
L’ultimo leader italiano di turno, Matteo Renzi, ha anch’egli messo tra i suoi impegni politici prioritari «il rilancio della cultura» e «la formazione» perché, secondo lui, «la scuola è il terreno sul quale si gioca il futuro del nostro Paese». Difficile non dargli ragione. Resta da vedere se, in attesa che venga il suo turno di governo, riesca a superare la fase declamatoria e populista stimolando da subito l’attuale governo Letta a fare meglio di quelli di Monti, Berlusconi, Prodi, Amato, D’Alema, Dini, ecc.

Non è pessimismo
Purtroppo anche il dinamico Renzi e il più moderato Letta dovranno fare i conti con le scarse risorse disponibili, la resistenza di una vecchia burocrazia, insegnanti demotivati e forse poco disponibili all’introduzione di criteri quali produttività e meritocrazia anche nel campo della scuola, programmi di studio poco proattivi, centri di ricerca scarsi e inadeguati. Pertanto anche stavolta, come ho manifestato altre volte in passato, dubito che nel prossimo futuro la scuola italiana possa fare il salto di qualità per divenire quel motore di rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno in un mondo di competitori sempre più agguerriti e competenti.
Intanto i segnali negativi ci sono tutti, a cominciare dagli insegnanti. Secondo un quotidiano italiano, «i nostri docenti spesso non sanno usare un tablet, non conoscono l’inglese, non leggono un quotidiano, non conoscono la Costituzione e chiedono “Cos’è un comma?”».
Non si tratta evidentemente di pessimismo. Basta osservare le classifiche internazionali riguardanti ad esempio la scuola dell’obbligo, la formazione universitaria, la ricerca e l’innovazione, la formazione continua. Ebbene, l’Italia non figura mai ai primi posti e spesso si trova in fondo alla scala.

Allievi italiani sotto la media OCSE
Recentemente sono stati pubblicati risultati concernenti le prestazioni scolastiche degli allievi quindicenni a livello OCSE. In matematica, lettura e scienze naturali, i tre campi in cui gli allievi sono stati esaminati, gli italiani si classificano al di sotto della media OCSE. In matematica, ad esempio, ben 128 punti separano l’Italia dalla prima classificata Cina-Shanghai, in lettura 80 punti, in scienze 86 punti. Giusto per fare un confronto, la distanza che separa la Svizzera sempre dalla prima classificata è rispettivamente di 82, 61 e 65 punti.
Il quadro degli allievi italiani non è tuttavia uniforme. Infatti gli allievi del nord (soprattutto Trentino, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia e Alto Adige) sono decisamente al di sopra della media nazionale, mentre quelli del sud (Molise, Basilicata, Sardegna, Campania, Sicilia, Calabria) ottengono punteggi sotto la media.
La distanza notevole tra nord e sud anche in questa classifica non fa che aggiungere difficoltà a difficoltà nel rinnovamento e nello sviluppo della scuola italiana.

Formazione continua
Va forse meglio la formazione continua? Niente affatto. A livello europeo gli italiani sono tra i meno dediti alla formazione permanente, mentre ad esempio gli svizzeri sono tra i più virtuosi. Questo confronto mi sembra illuminante.
Mentre l’83% delle imprese in Svizzera dichiara di aver sostenuto almeno uno dei propri collaboratori nelle attività di formazione continua nel 2011 (con punte del 95-96% in campo finanziario-assicurativo, dell’amministrazione pubblica, istruzione, sanità e assistenza sociale), le imprese italiane risultano col 56% sotto la media europea (EU-27) dietro a Croazia, Portogallo e altri Paesi, e poco al di sopra di Malta e Lituania.
Queste cifre possono apparire poco significative, eppure stanno a denotare una situazione molto diversa non solo nel concepire l’importanza della formazione continua in azienda e fuori dell’azienda e conseguentemente l’impegno delle aziende a investire nella formazione e nel perfezionamento dei propri addetti. Non deve pertanto apparire strano che oggi, in Europa, le imprese che hanno meno difficoltà sono anche quelle che investono di più non solo nella ricerca e nell’innovazione, ma anche nella formazione del proprio personale.
Riformare la scuola e investire nella formazione dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta d’investire almeno nell’Italia del domani, se proprio per quella di oggi non ci sono più le condizioni.

Giovanni Longu
Berna, 18.12.2013