18 settembre 2013

Cosimo Risi, nuovo ambasciatore d’Italia in Svizzera


Cosimo Risi
, diplomatico di
lungo corso, ministro plenipotenziario, è dal 29 agosto 2013 il nuovo Ambasciatore d’Italia in Svizzera.
Per i diplomatici italiani la sede svizzera è tradizionalmente tranquilla. Infatti, nella lunga storia dei rapporti bilaterali, i momenti di alta tensione sono stati rari. Se n’è avuta una conferma anche la settimana scorsa quando il ministro degli esteri italiano Emma Bonino, in visita ufficiale a Berna, ha dichiarato che «Italia e Svizzera oltre a condividere un confine e secoli di storia mantengono relazioni ottime che vanno nella direzione di un rafforzamento del nostro partenariato privilegiato».
In realtà i rapporti bilaterali non sono proprio idilliaci e anche i rapporti tra la collettività italiana residente in Svizzera e le rappresentanze diplomatica e consolare presentano qualche criticità. Basti pensare all’ancora irrisolta questione fiscale riguardante gli ingenti depositi di denaro sottratti in passato al fisco italiano, le tensioni esistenti in Ticino attorno alla delicata questione dei frontalieri e alle difficoltà che incontrano le ditte svizzere intenzionate a operare in Italia, ma anche ai disagi di molti connazionali a causa del ridimensionamento della rete consolare, della situazione dei corsi di lingua e cultura, della mancanza di una vera politica linguistica e culturale italiana in questo Paese, ecc.
Ritengo auspicabile che col contributo del nuovo ambasciatore i rapporti tra l’Italia e la Svizzera migliorino rapidamente non solo nei settori cruciali della fiscalità e dei trasporti, ma anche in quelli della ricerca, della cultura e del rafforzamento dell’italianità. Essendo quest’ultimo elemento di particolare rilevanza per le relazioni italo-svizzere, anche in considerazione dell’entità e qualità della collettività italiana in questo Paese, ritengo altresì auspicabile da parte dell’ambasciatore d’Italia in Svizzera il suo personale incoraggiamento e sostegno al dialogo e alla collaborazione tra italiani residenti e svizzeri in questo particolare settore.
Dunque, buon lavoro e tanti auguri, signor Ambasciatore!
Giovanni Longu

Cosimo RISI, nuovo ambasciatore d’Italia in Svizzera dal 29 agosto scorso, è nato a Salerno il 13 aprile 1951. Dopo la laurea in scienze politiche all’Università di Napoli, nel 1978 è entrato nella carriera diplomatica. Ha ricoperto numerosi incarichi in seno al Ministero degli Affari Esteri e in diverse sedi diplomatiche e rappresentanze permanenti dell’Italia.
Fuori ruolo è stato per qualche anno consigliere diplomatico del Presidente della Regione Campania Antonio Bassolino. Dal 2012 era ambasciatore e r
appresentante permanente presso la Conferenza del Disarmo a Ginevra.
Cosimo Risi è anche docente di Relazioni Internazionali alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Salerno e di Politica euro-mediterranea e di vicinato al Collegio Europeo di Parma. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni scientifiche.


Quell’estate calda di 50 anni fa (terza e ultima parte)


Ai numerosi attacchi della stampa comunista italiana (e in parte anche di quella svizzera) e dei parlamentari comunisti la Svizzera rispose, attraverso un comunicato del Dipartimento federale di giustizia e polizia del 6 agosto 1963, affermando che «le autorità federali hanno ritenuto loro dovere di porre fine alle mene degli attivisti italiani per prevenire la formazione di cellule che, su! piano politico, avrebbero potuto costituire un pericolo per la sicurezza interna del paese e avere effetti nefasti per il mantenimento della pace del lavoro in generale e della pace fra i lavoratori italiani in Svizzera in particolare».

Reazioni della stampa svizzera
Journal de Genève del 23.07.1963
Gran parte della stampa svizzera si schierò al fianco del governo, ritenendo inaccettabile che taluni stranieri «abusino della nostra ospitalità». Un quotidiano ticinese tenne a precisare che, sebbene i cittadini stranieri che si trovano in Svizzera possano esprimere le loro opinioni politiche e fruire della libertà d'associazione e di riunione, «non va dimenticato il principio secondo il quale solo il cittadino svizzero deve poter esercitare un'attività politica in Svizzera e contribuire in questo modo a formare l'opinione pubblica in materia politica. Bisogna esigere dagli stranieri del controllo in questo campo», tanto più quando si tratta di propaganda politica «per un partito estremista straniero».
Ma al PCI evidentemente le giustificazioni della Svizzera non andavano giù e intervenne a più riprese con interpellanze, formalmente per sapere, in realtà per accusare non solo la Svizzera, ma anche il governo italiano ritenuto in qualche modo complice di quanto avvenuto.

Interventi parlamentari italiani
E’ interessante rileggere oggi quegli interventi parlamentari per rilevare non solo con quanta passione veniva trattato in Italia 50 anni fa il tema migratorio, ma anche la superficialità e l’arroganza con cui alcuni deputati della sinistra pretendevano di definire la reale condizione degli emigrati italiani in Svizzera e la politica svizzera nei loro confronti. Non si rendevano conto né della complessità dei rapporti tra italiani e svizzeri, per altro molto diversi da regione a regione, né della complessità delle regole di un Paese federalista con diversi livelli di competenza. Venivano dimenticati soprattutto i forti interessi reciproci tra l’Italia e la Svizzera anche in materia di emigrazione, regolati da accordi bilaterali liberamente sottoscritti.

Un esempio significativo
Nella seduta del 10 settembre 1963 alcuni deputati del PCI depositarono la seguente interpellanza: «I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri ed i Ministri degli affari esteri e del lavoro e previdenza sociale, sulle persecuzioni e sui provvedimenti di espulsione posti in atto dal governo svizzero nei confronti di lavoratori italiani colà emigrati, sul fermo e l'espulsione di parlamentari italiani nell'esercizio del loro mandato, nonché sull'atteggiamento assunto in tali circostanze dalle nostre rappresentanze diplomatiche; e per sapere se il Governo – per tutelare le libertà, i diritti e la dignità di cittadini italiani all'estero e, nel caso specifico, dei nostri 550.000 connazionali emigrati in Svizzera, che danno un notevole contributo allo sviluppo di quel paese – non intendano : 1) compiere un passo ufficiale per esprimere la protesta degli italiani e per chieder e la revoca dei gravi provvedimenti adottati ; 2) annullare le disposizioni anti-costituzionali contenute nella circolare inviata dall'Ambasciata italiana in Svizzera ai diversi consolati, rivolte a raccogliere dati sull'attività e le convinzioni politiche degli emigrati italiani, i quali, per altro, non contravvenendo alle leggi svizzere, hanno il pieno diritto di partecipare alla vita del nostro Paese in tutte le sue manifestazioni; 3) promuovere misure per la tutela dei diritti civili e per la difesa ed il miglioramento delle condizioni economiche e sociali degli emigrati e delle loro famiglie».

Risposta del governo italiano
Nel dibattito parlamentare che ne seguì, nessuno negava i fatti, ma gli esponenti della maggioranza invitavano a considerare il contesto anche dal punto di vista del diritto internazionale e soprattutto a tener presente che in Svizzera in quel momento c’erano circa 600.000 italiani per cui non conveniva aggiungere altre difficoltà, tanto più che la politica degli ingressi era nelle mani dei soli svizzeri.

Attilio Piccioni (1892-1976)
Il Ministro degli Affari Esteri Attilio Piccioni, rispondendo agli interpellanti, confermò che la Svizzera aveva agito in base a precise leggi federali e che «i provvedimenti lamentati erano stati adottati in base a norme federali in applicazione dell'art. 70 della Costituzione elvetica, che reca testualmente: La Confederazione ha diritto di espellere dal territorio svizzero quei forestieri che mettono in pericolo la sicurezza interna ed esterna della Confederazione».
Quanto alle responsabilità dello Stato italiano, il ministro ricordò che gli interessati erano stati informati della possibilità di fare ricorso, usufruendo anche del supporto delle rappresentanze diplomatiche e consolari. Aggiunse tuttavia che «non va dimenticato che ci siamo trovati dinanzi a misure che rientrano nell'ambito discrezionale di ogni Stato sovrano che, come anche il nostro, si avvale della facoltà riconosciuta dalle norme di diritto internazionale, di allontanare dal proprio territorio quegli stranieri che siano ritenuti capaci di turbare con il loro comportamento l'ordine pubblico interno».
Il ministro Piccioni concluse la sua risposta ricordando che «i nostri rapporti di tradizionale amicizia con la Svizzera non potranno essere offuscati da episodi che, quantunque spiacevoli, non possono sicuramente rispecchiare i sentimenti amichevoli degli organi ufficiali e della grande maggioranza del popolo svizzero per l'Italia e in particolare per la massa dei lavoratori italiani nella vicina Confederazione».

Le conseguenze per l’Italia
La storia ha confermato ripetutamente le considerazioni del ministro Piccioni. Tuttavia è innegabile che quell'incidente, insieme a molti altri sebbene di minore rilevanza mediatica, ha contribuito in quegli anni di grande immigrazione e di grandi tensioni tra svizzeri e italiani a dare una svolta fondamentale alla politica migratoria sia italiana che svizzera.
Aldo Moro (1916-1978)
L’Italia si è sentita più impegnata a considerare il problema migratorio come un problema nazionale, per cui la politica e il governo dovevano cercare di rimuovere le cause dell’emigrazione favorendo il più possibile la creazione di nuovi posti di lavoro specialmente nel Mezzogiorno. Non sempre alle dichiarazioni di buona volontà corrisponderanno i fatti, ma è certo che la sensibilità nazionale nei confronti degli italiani emigrati stava mutando.
Aldo Moro, nel 1966, inaugurando il suo terzo governo, di centrosinistra, assicurerà nel suo discorso programmatico che «non mancheremo di esplicare vivo interessamento per i problemi dell’emigrazione. L’obiettivo di fondo è quello che ho indicato nei programmi dei precedenti governi (…). Si tratta di offrire ai nostri concittadini crescenti opportunità di impiego in Patria, sì da dare sempre più al fenomeno emigratorio dignità di una libera, consapevole scelta tra differenti sbocchi, nell’interesse del lavoratore che aspiri ad utilizzare nel modo migliore le sue capacità».

Conseguenze per la Svizzera
Un documento svizzero  ricostruisce la
 vicenda dei comunisti espulsi nell'estate 1963
La Svizzera, di fronte alle crescenti difficoltà di reclutamento di manodopera proveniente dall’Italia, cercò in quegli anni nuovi accordi con altri Paesi, ad esempio la Spagna. Poiché, comunque, sarebbe stato difficile fare a meno nel breve periodo della manodopera italiana, divenuta elemento essenziale dell’economia svizzera, si mostrerà più arrendevole alle richieste italiane nel difficile negoziato in corso sull'immigrazione. Quando l’accordo venne concluso nel 1964, la destra nazionalista gridò allo scandalo e minacciò il governo di ricorrere alla piazza.
La conseguenza più importante del travaglio di quegli anni fu tuttavia la presa di coscienza del Consiglio federale che l’immigrazione stava diventando un fenomeno strutturale non solo dell’economia ma anche della società svizzera. Questa tendenza venne evidenziata chiaramente nel «Rapporto di gestione del Consiglio federale» del 1963 con alcuni dati, uno per tutti il numero dei prolungamenti dei permessi di soggiorno, passati da 278.631 (nel 1962) a 336.020 (1963). Del resto in quegli anni cresceva costantemente anche il numero degli stranieri residenti stabilmente e proprio in quel decennio la Svizzera conobbe grazie agli immigrati un forte incremento delle nascite, mai più raggiunto in seguito.
Sembrava ormai una tendenza irreversibile di cui la politica migratoria doveva assolutamente tener conto. Bisognava abbandonare il tradizionale orientamento incentrato sulla «rotazione» dei lavoratori stranieri e avviare quanto prima quella che si sarebbe sviluppata inizialmente come politica della stabilizzazione e successivamente dell’integrazione degli stranieri.

Conseguenze per gli immigrati italiani
La maggioranza degli immigrati italiani, nemmeno sfiorata dalle vicende di pochi attivisti incriminati, era purtroppo costretta a subire le politiche di entrambi i Paesi, senza poterle influenzare, almeno direttamente. Eppure maturava nell'insieme degli immigrati la percezione dei mutamenti in corso e provocava una nuova presa di coscienza individuale e collettiva sul futuro di ciascuno. La scelta era per certi versi radicale: restare o rientrare in Italia. Una gran parte, si sa, optò per il rientro definitivo a breve o medio termine, molti scelsero di restare. In entrambi i casi non si trattò quasi mai di una decisione facile. Sotto questo aspetto, per quasi tutti gli immigrati italiani gli anni ‘60 sono stati forse i più difficili, anche perché nella scelta venivano coinvolte per la prima volta altre persone, l’intero nucleo familiare. (La prima e seconda parte sono state pubblicate il 4 e 11 settembre 2013).

Giovanni Longu
Berna 18.09.2013