11 settembre 2013

Quell’estate calda di 50 anni fa (seconda parte)


Il miracolo economico italiano, paradossalmente, non aveva impedito e nemmeno rallentato l’emigrazione verso l’estero, tanto è vero che proprio nel decennio 1954-1963 (con punte da record negli ultimi tre anni) si registrò il massimo numero di espatri della storia d’Italia con oltre 3 milioni di partenze, contro poco più della metà di rientri.
Molti non sanno che in quel periodo la piccola Svizzera era il principale Paese di destinazione. Da sola fece venire quasi un milione di italiani, sebbene moltissimi solo a titolo temporaneo per evitare, come prescriveva la legge sugli stranieri fin dal 1931, la stabilizzazione della manodopera estera e l’«inforestierimento». Molti furono tuttavia anche coloro che vennero fatti arrivare con un permesso di lavoro e di soggiorno annuale.

Nuova immigrazione e associazionismo
Si deve altresì ricordare che la nuova immigrazione dall'Italia centro-meridionale era qualitativamente assai diversa da quella giunta fino ad allora prevalentemente dal nord. I nuovi immigrati, spesso totalmente sprovvisti non solo della conoscenza della lingua locale, ma anche di un’adeguata formazione scolastica e professionale, incontravano molte più difficoltà d’inserimento sia sul lavoro che nella società.
Per molti immigrati l’associazionismo fu un rifugio e una salvezza dall'isolamento e dall'emarginazione. Accanto alle Missioni cattoliche italiane (MCI), le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (ACLI) e la Federazione delle Colonie libere italiane in Svizzera (FCLIS) si dimostrarono le associazioni più accoglienti e più attive.
Oltre a creare luoghi d’incontro e di socializzazione tra connazionali di diversa provenienza, queste associazioni presero molto a cuore le difficoltà sociali di molti di loro, i problemi della lingua e della scuola, i rapporti con le istituzioni locali svizzere, ecc. E’ vero, ad occuparsi di questi problemi c’erano anche i consolati e i patronati, ma ad essi pervenivano praticamente solo i casi più critici. A differenza delle associazioni, né gli uni né gli altri avevano il polso della situazione sul territorio.
Uno dei compiti assunti dalle grandi associazioni, specialmente quelle soprammenzionate, era quello di fare per così dire da intermediarie tra la base e le autorità italiane (con quelle svizzere l’approccio era molto più difficile) per sollecitare un generale miglioramento della situazione e un deciso intervento presso le autorità svizzere per attenuare almeno le difficoltà di molti lavoratori e delle loro famiglie.

Attivismo politico e xenofobia
L’attivismo di alcune associazioni, soprattutto quando si esprimeva al di fuori della vita associativa con manifestazioni e rivendicazioni «politiche», urtava spesso la sensibilità di molti svizzeri e persino dei sindacati e delle autorità svizzere, contribuendo di fatto ad alimentare un certo malcontento che cominciava ad esprimersi nei primi movimenti xenofobi.
Uno di questi sorse proprio nell’estate del 1963. Venne chiamato «Partito anti-italiano» perché il suo fondatore cercò di scatenare, tramite volantini e lettere razziste - in maggioranza anonime - utilizzando un lessico di stampo nazionalsocialista, l'odio contro gli stranieri e in particolare gli italiani del Sud. Un’intervista alla televisione svizzera dello stesso tenore suscitò immediate reazioni nella stampa italiana e una dura presa di posizione delle autorità politiche e diplomatiche italiane.
Per fortuna quel movimento ebbe vita breve e le polemiche attorno ad esso anche. Ma per breve tempo, perché di lì a poco stava per scoppiare un caso ancor più clamoroso riguardante l’espulsione di alcuni immigrati italiani e di alcuni parlamentari comunisti.

Penetrazione del PCI
Anzitutto va ricordato, come risulta anche da documenti diplomatici, che la stampa italiana, soprattutto quella di sinistra, da qualche anno seguiva da vicino la situazione dei connazionali emigrati in Svizzera, ritenuti spesso discriminati, male alloggiati, sottoposti a condizioni di lavoro insopportabili e qualche volta maltrattati.
Credendo di dare man forte alle associazioni più attive sul piano organizzativo e rivendicativo, agli inizi degli anni ’60 si era intensificata tra i lavoratori immigrati italiani la penetrazione del Partito comunista italiano (PCI), sensibile più di ogni altro partito politico italiano alle loro proteste, ma anche fortemente interessato a reclutare nuovi membri e sostenitori e soprattutto voti al momento delle elezioni.
Gli attivisti del partito e di alcune associazioni, soprattutto la FCLIS, facevano attenzione a non dare troppo nell’occhio, consapevoli del controllo esercitato discretamente ma intensamente dalle autorità di polizia locali e federali e del rischio di espulsioni, come quelle già avvenute negli anni ’50 in base a un articolo costituzionale e alla legge del 1948 che regolava l’attività politica degli stranieri. Ciononostante, in vista delle elezioni politiche del 28 aprile 1963, alcuni parlamentari e attivisti del PCI sembravano non rendersi conto della sorveglianza e del pericolo e non esitarono a organizzare conferenze, distribuire materiale propagandistico, far sentire registrazioni di autorevoli esponenti del PCI, ecc.

Attività politica «illegale» e pericolosa
Alcuni mesi più tardi il Dipartimento federale di giustizia e polizia tenne a precisare che la polizia federale, in collaborazione con le polizie municipali di Berna, Basilea-Campagna e Zurigo, aveva potuto appurare che «un gruppo di italiani che soggiornano nel nostro paese aveva ricevuto l'ordine dal PCI, specialmente prima delle recenti elezioni in Italia, di raccogliere fondi (marchette, doni, ecc.) per questo partito politico straniero nei confronti di operai italiani che lavoravano in Svizzera e di reclutare parimente inscritti a questo partito. Questo gruppo fu inoltre incaricato di diffondere materiale di propaganda (stampati, dischi con discorsi elettorali, ecc.). Quest'attività politica è stata svolta sotto falsi nomi e falsi indirizzi. Inoltre, è stato constatato che deputati comunisti alla Camera italiana sono giunti in Svizzera per dare istruzioni a questi militanti. Certi membri di questo gruppo d'italiani erano in più in contatto con alcune ambasciate di paesi dell'Est a Berna».
Oggi si sa che quelle attività erano del tutto innocue sotto il profilo della sicurezza dello Stato e dell’ordine pubblico, ma nell’immaginario collettivo svizzero rappresentavano un pericolo e comunque, per i ben pensanti, un’ingerenza indebita negli affari interni della Svizzera. Per questo la politicizzazione degli immigrati stranieri e specialmente la propaganda politica comunista erano malviste non solo dalle autorità e da gran parte dei media, ma anche dai sindacati e dai datori di lavoro svizzeri, perché le ritenevano una minaccia alla pace sociale e sindacale.
Non va inoltre dimenticato che, in generale, l’opinione pubblica svizzera era profondamente anticomunista fin dai tempi dello sciopero generale del 1918 e forse ancor di più dopo la repressione dell’insurrezione ungherese del 1956, che provocò migliaia di profughi accolti a braccia aperte in Svizzera. Inoltre erano in molti a ricordare il clima di contrapposizione e di rischio sociale che si era prodotto tra le due guerre tra sostenitori e oppositori delle ideologie fascista e nazista per cui le autorità federali e cantonali erano decise a non correre rischi simili con l’ideologia comunista.

Espulsioni dalla Svizzera e reazioni della stampa italiana
Per tornare ai fatti riguardanti gli italiani, dopo gli accertamenti sugli episodi verificatisi in alcuni Cantoni in vista delle elezioni politiche della primavera del 1963 (che segnarono fra l’altro una grande avanzata del PCI) le autorità federali decisero fra il 15 e il 30 agosto 1963 l’espulsione e il divieto d’ingresso in Svizzera a 18 italiani.
L'Unità del 13 agosto 1963
Si fosse trattato di semplici emigrati italiani, probabilmente dopo qualche chiarimento verbale a livello diplomatico tutto sarebbe finito lì. Invece quell'episodio sollevò una reazione straordinaria nella stampa italiana di sinistra, perché dei 18 italiani 5 erano parlamentari del PCI, tra i quali alcune personalità molto note come gli onorevoli Pellegrino, Calasso e Pajetta.
«L’Unità», organo del PCI, riportando anche testimonianze di immigrati italiani che sarebbero stati maltrattati dalla polizia svizzera degli stranieri, definita provocatoriamente «politica» e al servizio dei banchieri svizzeri, si distinse per la vivacità degli interventi sia contro la Svizzera che contro il governo italiano. Non era evidentemente dello stesso tenore la stampa anticomunista.
La questione approderà qualche mese più tardi in Parlamento con una serie di interrogazioni e interpellanze di deputati comunisti, che oltre a condannare l’accaduto invocheranno una netta presa di posizione del governo contro la Svizzera (che fra l’altro, con un’ordinanza del 1° marzo 1963, aveva deciso di limitare l’immigrazione, ovviamente non solo dall’Italia).
Nel prossimo articolo si parlerà delle conseguenze di questi interventi parlamentari sulla politica migratoria italiana e svizzera e delle ripercussioni sulla collettività italiana in Svizzera. (Continua sul prossimo numero).
Giovanni Longu
Berna, 11.09 2013