30 agosto 2013

1965: la tragedia di Mattmark insegna


Il 1965 è stato un anno molto importante nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, soprattutto per un evento tragico, ma non solo per quello.

Nel Vallese, a Mattmark, si stava costruendo una diga di grandi dimensioni, poco al di sopra dei 2000 metri. Il 30 agosto 1965 nelle liste del cantiere figuravano oltre 600 persone, tra cui più di 400 italiani, molti dei quali appena tornati dalle ferie di Ferragosto. Si lavorava alacremente, a turni, perché il grosso dei lavori doveva essere ultimato prima dell’inverno, quando non sarebbe stato più possibile tenere aperti i cantieri per la neve e le intemperie.
Nulla lasciava presagire la tragedia incombente. Quattro giorni prima era stato girato un filmato per il Cinegiornale svizzero e tutto sembrava procedere secondo i piani prestabiliti con decine di bulldozer, bagger, camion in movimento e centinaia di operai al lavoro.

La tragedia e l’illuminazione
Cantiere di Mattmark (maggio 1965)
Improvvisamente, alle ore 17.30 di quel 30 agosto di 48 anni fa, una parte del ghiacciaio Allalin sovrastante la zona del cantiere principale precipitò a valle, scaraventando immensi blocchi di ghiaccio e detriti (forse un milione di metri cubi), travolgendo tutto compresi gli operai al lavoro. Il terribile boato fu udito a chilometri di distanza.
Persero la vita 88 persone, di cui 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. Pochi dei presenti sul quel cantiere si salvarono. Uno di essi, uno dei pochi ancora in grado di descrivere i fatti, il friulano Ilario Bagnariol,
2010: Bagnariol (s.) indica il luogo dove
si trovava al momento della tragedia
frastornato dal rumore del suo bulldozer, udì appena quel boato maledetto, ma vide dall'alto della morena su cui stava lavorando tutto il disastro sottostante.
I lavori di soccorso iniziarono immediatamente e proseguirono per diversi giorni. Quando fu evidente che sotto quei cumuli di ghiaccio e pietre non potevano più esserci sopravvissuti, si cominciò a recuperare le salme. Il recupero richiese diversi mesi, anzi l’ultimo corpo venne ritrovato e identificato quasi due anni dopo, pochi giorni prima dell’inaugurazione della diga. L’identificazione delle vittime fu difficile e penosa perché a volte si trattava di ricomporre corpi completamente maciullati.
L’effetto mediatico di quella catastrofe fu enorme. In poche ore la notizia della catastrofe fece il giro del mondo. Era la disgrazia sul lavoro più grande conosciuta dalla Svizzera. La tragedia di Mattmark ebbe un impatto fortissimo sull’opinione pubblica svizzera, che forse per la prima volta si rese conto della complessa realtà migratoria, che proprio in quegli anni stava mutando profondamente.
Lo sgomento attraversò in lungo e in largo il mondo politico, le chiese, i sindacati, la stampa, soprattutto in Svizzera e in Italia. Per molti svizzeri fu uno shock e una sorta d’illuminazione. Tutti ebbero la possibilità di comprendere che gli immigrati non erano solo un fattore della produzione che creava benessere per tutti, molto meno per loro. Emerse, forse per la prima volta nella storia dell’immigrazione in Svizzera, almeno in quelle proporzioni, l’aspetto umano dell’emigrazione. Per diversi giorni i sentimenti si mescolarono vorticosamente, passando dal senso d’impotenza alla rabbia, dall'accusa alla solidarietà, dal desiderio di giustizia alla pietà.

Solidarietà e strumentalizzazione
Nell'apprendere la tragedia, L’Osservatore Romano, organo del Vaticano, aveva esortato in una nota sotto il titolo «Lutto comune»: «più urgente, più imperativo, più categorico, si rivela ora il dovere di solidarietà per i superstiti. Bisogna consolare, riconfortare e soprattutto aiutare le famiglie delle vittime. Che la società umana non si mostri avara nei confronti di coloro che offrono al progresso tecnico il sangue vivente del sacrificio della loro vita o dei loro sentimenti». Ci fu in effetti una gara di solidarietà, soprattutto nel Vallese.
Ci furono anche tentativi di strumentalizzazione. Il cronista Dario Robbiani, ad esempio, raccolse lo sfogo del viceconsole di Briga Odoardo Masini, un uomo che si era prodigato in ogni modo per aiutare le vittime e i sopravvissuti, riguardo a certe visite: «Poi sono arrivati i deputati e i sindacalisti comunisti. Hanno detto che era colpa di questo e di quest'altro, che bisognava costruire uno sbarramento di cemento armato per isolare il ghiacciaio, e contenere la morena con muraglioni. Allora sono scoppiato: - Sì, adesso voi rimproverate agli svizzeri di non aver messo il bichini al ghiacciaio. Non hanno più parlato. Mi facciano il piacere: è perlomeno di cattivo gusto fare polemiche del genere sopra ottantotto bare».

Stranieri, ma uomini
Come detto, in quegli anni la percezione dell’immigrazione nell’opinione pubblica svizzera stava mutando profondamente, come stava mutando la coscienza di centinaia di migliaia di immigrati insoddisfatti del loro stato personale e sociale e desiderosi di un cambiamento radicale. Ci vorrà ancora del tempo prima di giungere a risultati soddisfacenti, ma la strada era stata tracciata.
Max Frisch (1911-1991)
Nel 1964, lo scrittore e regista Alexander J. Seiler nel film «Siamo Italiani», si era fatto interprete delle pesanti condizioni di vita degli immigrati italiani. I testi delle interviste per la realizzazione del film furono raccolti in un libro, pubblicato l’anno seguente, che ebbe l’onore di una presentazione di un altro grande scrittore svizzero, Max Frisch. Fu lui a sintetizzare magistralmente in quella presentazione la situazione degli immigrati e soprattutto degli italiani con la celebre frase: «Si cercavamo braccia, sono venuti uomini».
In effetti i discorsi sull’immigrazione stavano aprendosi a considerazioni non solo economiche, ma anche sociali, culturali, politiche e già si cominciava a intravedere la necessità di una nuova politica d’integrazione degli stranieri.
Quella frase di Max Frisch, con tutto il discorso in cui è inserita e, forse, una conoscenza più approfondita di quel periodo fondamentale della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera andrebbero tenute presenti ogniqualvolta si parla di lavoratori immigrati, clandestini, extracomunitari, ecc. Non bisognerebbe mai perdere di vista che si sta parlando comunque e sempre di «uomini», persone che hanno bisogni, sentimenti, un’anima, fratelli e sorelle che contribuiscono a rendere più umane e più prospere le nostre società.

Benesse e stranieri
Lo stesso anno della tragedia di Mattmark, 1965, il grande pensatore e saggista svizzero, Denis de Rougemont, pubblicava un libro, che sarà tradotto in italiano col titolo: «La Svizzera. Storia di un popolo felice». Quell’opera non aveva apparentemente nulla a che vedere con l’immigrazione, ma sarebbe stato facile costatare che alla radice della «felicità» e della «fortuna» non solo del popolo svizzero, ma anche di molti altri popoli, c’è sempre il contributo di altri, stranieri e immigrati.

Giovanni Longu
Berna, 30 agosto 2013