12 giugno 2013

Fuga dei cervelli e formazione in Italia


Tra le varie criticità riguardanti l’Italia di oggi che il governo italiano dovrebbe tenere maggiormente in considerazione, c’è sicuramente lo stato del sistema formativo. Non è possibile qui analizzare nei dettagli la situazione, ma basteranno pochi dati per rendersi conto della sua gravità.

Dati allarmanti
Per la scuola obbligatoria è sufficiente ricordare i risultati abbastanza mediocri ottenuti dagli scolari quindicenni italiani nelle indagini internazionali (in particolare in quella più nota organizzata dall’OCSE e conosciuta sotto il nome di «Pisa»). Gli allievi italiani occupano una posizione di media classifica su una settantina di Paesi partecipanti.
La situazione della formazione postobbligatoria non è più rallegrante. In ambito europeo, l’Italia ha una percentuale di giovani (18-24 anni) senza formazione postobbligatoria del 35,5% (media europea: 30,0%) e una percentuale di adulti (25-64 anni) con formazione superiore di appena il 14,9% (media europea: 26,8%).
Va inoltre osservato che, secondo l’ufficio statistico europeo Eurostat, l’Italia è ultima in Europa per numero relativo di laureati. Tra i 27 paesi Ue, nel 2012 solo il 21,7% di chi ha cominciato l’università ha completato il percorso di studi e si è laureato entro i 34 anni: ce l’ha fatta il 26,3 % delle donne e solo il 17,2% degli uomini. Il tasso di abbandono è pertanto altissimo.
Per quanto riguarda il livello della formazione universitaria, l’Italia si piazza decisamente male nelle principali classifiche internazionali delle 500 più importanti università: nessuna università italiana figura nelle prime cento posizioni (la piccola Svizzera è presente con ben quattro) e solo quattro università rientrano tra la centesima e duecentesima posizione (Pisa, Roma-La Sapienza, Milano e Padova); altre cinque si collocano nelle successive cento posizioni.
I dati appena menzionati sono sicuramente parziali e frammentari, ma sufficienti a consentire al lettore di farsi una propria idea della situazione, che contrasta non solo col rango ancora occupato dall'Italia come potenza economica (anche se da qualche decennio in netto calo) ma anche con le potenzialità dei suoi abitanti. Dovrebbe suonare come un campanello d’allarme non solo la percentuale altissima di giovani disoccupati (anche tra i laureati e diplomati) soprattutto nel Mezzogiorno, ma anche il numero crescente di persone qualificate che lasciano l’Italia per svolgere le loro ricerche o conseguire specializzazioni all'estero, finendo spesso per restarci.

Rimedi necessari e urgenti
Qualcuno potrebbe pensare che le partenze possono essere compensate da nuovi arrivi, gli immigrati, ma sarebbe un’illusione. La «fuga dei cervelli» senza ritorno rappresenta un impoverimento durevole per l’Italia che potrebbe portare in pochi decenni al declino. Fino a quando il saldo tra partenze e arrivi non sarà almeno pari, quantitativamente e qualitativamente, non è vero che i giovani italiani potranno guardare al futuro con ottimismo. Basterebbe questa considerazione per ritenere che il sistema formativo dev'essere affrontato con grande serietà e urgenza.
Dovrebbe inoltre far riflettere questa ulteriore costatazione: mentre in Europa i giovani (da 0 a 19 anni) sono proporzionalmente più numerosi (2011: 19,5%) delle persone anziane di 65 anni e più (14,6%), in Italia si assiste da anni al fenomeno inverso di una percentuale di anziani (20,3%) più elevata di quella dei giovani (18,9%).
Quest’ultima osservazione dovrebbe rappresentare un ulteriore motivo per rendere inderogabile da parte delle istituzioni e in particolare della politica l’adozione di tutte le misure indispensabili per un’inversione di tendenza, cominciando da una seria riforma dell’intero sistema formativo italiano. La disoccupazione giovanile e la fuga dei cervelli sono due sintomi di una malattia grave, molto contagiosa, che non può essere sottovalutata.
L’Italia in questo momento ha sicuramente molti problemi urgenti da risolvere e poche risorse da investire; ma guai se questi problemi e le scarse risorse diventano alibi per non metter mano finalmente a una scuola che formi, a un sistema universitario efficiente e di eccellenza, a poli di ricerca e d’innovazione capaci non solo di trattenere i talenti nostrani ma anche di attirarne altri dall'estero. Il futuro dell’Italia passa necessariamente per la scuola, la formazione, la ricerca, l’innovazione.

Momento favorevole per le riforme
Mi auguro che il governo dia seguito alle affermazioni del Presidente Letta nel suo discorso per la fiducia, soprattutto quando afferma che bisogna investire sui giovani perché «solo i giovani possono ricostruire questo Paese», mentre « rinunciare a investire su di loro è un suicidio economico. Ed è la certezza di decrescita, la più infelice».
I più pessimisti diranno che discorsi del genere ne hanno sentiti più di una volta e che la situazione ha continuato a peggiorare. Difficile negare l’evidenza. Eppure in questo momento ragioni oggettive suggeriscono un minimo di ottimismo. La situazione politica, che vede uniti in uno sforzo comune i due maggiori partiti italiani sono un’occasione imperdibile per attuare anche una seria riforma del sistema formativo italiano, soprattutto nel suo grado più elevato, l’università e la ricerca.
Solo pochi anni fa fu adottata tra molti contrasti la cosiddetta «riforma Gelmini», dalla ministra dell’epoca. Che fine ha fatto? Non so se era fatta bene o male, so solo che in Italia è sempre enormemente difficile approvare e realizzare qualunque riforma, senza nemmeno rendersi conto che mentre il mondo va avanti l’Italia marcia sul posto, ossia arretra. E so anche che per qualunque Paese voglia sopravvivere, una delle condizioni essenziali è che il suo sistema educativo funzioni e le formazioni proposte siano appetibili. E senza investimenti adeguati nella scuola, nella ricerca e nell'innovazione non c’è futuro non solo per i giovani ma anche per il Paese.

Parole d’ordine: efficienza, eccellenza…
Per tornare alla riforma Gelmini, ma senza entrare nel merito, mi domando per esempio quale sarebbe stato il risultato se invece della feroce opposizione di un Bersani e di un Di Pietro, che bocciarono a priori sul nascere il disegno di legge del governo, le minoranze di allora avessero contribuito a rimodellare il progetto e la maggioranza berlusconiana si fosse resa disponibile ad accogliere anche contributi esterni. Forse oggi parleremmo meno di «fuga di cervelli», di disoccupazione giovanile, di formazione da riformare, e più di meritocrazia, di eccellenza, di ricerca avanzata, d’innovazione, d’importazione di cervelli e anche di capitali.
Certo con i «forse» e con i «se» si costruiscono al massimo dei sogni, ma è utile ragionare anche sulle ipotesi, soprattutto se il contesto cambia. Ciò che rende l’attuale governo notevolmente diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto è che, sul tema della riforma del sistema formativo e degli investimenti a favore dei giovani, la concentrazione di forze politiche favorevoli è enorme. Sarebbe a mio modo di vedere una catastrofe se, insieme a molti altri punti qualificanti del governo Letta, il tema della scuola, della ricerca, dell’innovazione non trovasse l’attenzione che merita e le risorse indispensabili.
In un Paese che invecchia velocemente e non può permettersi «generazioni perdute» l’intervento in queste materie è ormai determinante non solo per frenare l’emorragia dell’emigrazione giovanile particolarmente qualificata, ma anche per creare occupazione. E’ tuttavia fondamentale che a guidare progetti e interventi siano soprattutto alcune parole chiave quali efficienza, eccellenza, meritocrazia, sviluppo, tenendo conto dei mercati, non solo di quello interno ma anche di quello internazionale.

Giovanni Longu
Berna 12.06.2013