23 gennaio 2013

Quando la Svizzera chiamò i lavoratori italiani (Prima parte)


Il tema dell’immigrazione in Svizzera è sempre di attualità perché il fenomeno è tutt’altro che esaurito, anche in provenienza dall’Italia, e per i suoi risvolti molto complessi nell’economia, nella vita sociale e nella politica di questo Paese. Basti pensare alle problematiche riguardanti l’invecchiamento degli immigrati di prima generazione, l’integrazione ed eventuale naturalizzazione delle seconde e terze generazioni, i flussi di migliaia di frontalieri in alcune regioni di confine, le nuove immigrazioni, la libera circolazione delle persone in seguito agli accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea, ecc.
Data questa complessità e le numerose implicazioni del fenomeno migratorio, è facile capire come attorno ad esso esistano e spesso si scontrino opinioni e visioni diverse. Non è una novità introdotta nella discussione politica svizzera dalla comparsa della Lega dei ticinesi o dell’Unione democratica di centro. I conflitti ideologici sull'immigrazione ci sono sempre stati, addirittura prima ancora che cominciasse le sue battaglie antistranieri l’Azione nazionale di J. Schwarzenbach negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. E’ in quegli anni, tuttavia, che il tema dell’immigrazione divenne uno dei punti più caldi della discussione politica.

Svizzera, Paese d’immigrazione
Al centro della discussione, oltre a tutta una serie di problemi legati alla presenza di centinaia di migliaia di stranieri, per lo più italiani, c’era la questione se la Svizzera dovesse considerarsi un Paese d’immigrazione oppure no. Per molto tempo la risposta è stata a grande maggioranza negativa, fino a quando ci si rese definitivamente conto che la Svizzera era diventata a tutti gli effetti un Paese d’immigrazione perché l’economia e il benessere sociale senza l’apporto della manodopera estera non sarebbero progrediti.
Questa presa di coscienza non provocò nell'immediato alcun cambiamento nella politica svizzera d’immigrazione e tanto meno una liberalizzazione degli ingressi di stranieri per motivi di lavoro, ma diede l’avvio a un ripensamento generale dell’intera politica degli stranieri, con un particolare riguardo ai problemi familiari degli immigrati e alle esigenze d’integrazione soprattutto delle seconde generazioni.
Il processo di cambiamento fu lento ma irreversibile. Gli effetti cominciarono a farsi sentire solo dalla seconda metà degli anni ’70, quando la politica d’integrazione delle seconde generazioni introdusse anche nella considerazione degli immigrati di prima generazione un cambio di mentalità importante, che indusse fra l’altro un numero crescente di stranieri ad acquisire la nazionalità svizzera e a stabilirsi definitivamente in questo Paese.
Può essere interessante ripercorrere alcune tappe importanti della situazione migratoria del secondo dopoguerra, che coinvolse soprattutto centinaia di migliaia di italiani.

Tra le due guerre mondiali
Occorre tuttavia ricordare anzitutto che con lo scoppio della prima guerra mondiale e la chiusura delle frontiere con la Svizzera, Paese neutrale, l’immigrazione non o poco controllata dall’Italia (in virtù di un accordo risalente al 1868) cessò praticamente in forma definitiva. Infatti, dalla fine della guerra, con la riapertura delle frontiere, l’immigrazione fu sottoposta a stretto controllo ad opera della Polizia degli stranieri, istituita nel 1917. Uno dei motivi dei rigidi controlli alla frontiera era quello di evitare che tentassero di entrare in Svizzera insieme alle persone con le carte in regola anche disertori, anarchici, bolscevichi e persino delinquenti comuni. In realtà si voleva anche esercitare un controllo sugli immigrati regolari per evitare che il loro numero crescesse a dismisura, com'era avvenuto alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, provocando la paura dell’«inforestierimento» (Überfremdung).
Nonostante che nel frattempo la situazione si fosse in gran parte normalizzata e la proporzione di stranieri sulla popolazione totale si fosse notevolmente ridotta (dal 14,7 del 1914 all’8,7% del 1930), tanto da consentire l’abolizione del visto d’ingresso per gran parte dei cittadini europei (1929), il sistema dei controlli della Polizia degli stranieri non si attenuò.

La legge federale sugli stranieri
Nel 1931 venne addirittura approvata la Legge federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri (LDDS), che aveva come obiettivo principale la lotta all’«inforestierimento».
Il raggiungimento di questo obiettivo condizionava non solo le modalità d’ingresso in Svizzera degli stranieri, ma anche le ragioni del loro ingresso. Da questo momento, infatti, l’autorizzazione del soggiorno fu vincolata all’ottenimento di un permesso di lavoro e alla capacità di accoglienza del Paese. Non bastava quindi un permesso di lavoro, ma anche l’autorizzazione della Polizia degli stranieri, che divenne in tal modo l’organo esecutivo delle disposizioni federali in materia di soggiorno degli stranieri.
Ricordando gli obiettivi della LDDS negli anni Sessanta, il Consiglio federale ammise che quella legge «era destinata ad adempiere una duplice funzione: da un lato impedire ad individui «indesiderabili» di entrare e rimanere in Svizzera, dall’altro permettere alle autorità federali di esercitare un influsso regolatore sul mercato del lavoro e prevenire l’inforestierimento».
Questo potere della Confederazione, esercitato fino ad allora prevalentemente dai Cantoni, è stato considerato a giusta ragione dallo storico Mauro Cerutti una «novità fondamentale del secondo dopoguerra» perché prevedeva per la prima volta «l’intervento diretto dello Stato svizzero per sollecitare, poi regolare e infine limitare l'afflusso di lavoratori italiani». Il fatto che qui si parli di «italiani» è dovuto al fatto che in quel periodo «gli immigrati» erano nella stragrande maggioranza italiani.

Condizioni per l’ingresso e il soggiorno
Quando in certe pubblicazioni e discussioni di oggi si lascia intendere che nel secondo dopoguerra le porte dell’immigrazione si siano aperte a un flusso praticamente ininterrotto di stranieri «venuti qui per cercare lavoro», come se la Svizzera avesse adottato improvvisamente un atteggiamento più accogliente o addirittura benevolo nei confronti di popolazioni ridotte dalla guerra quasi alla fame, si ignorano le norme molto restrittive che le autorità federali applicavano proprio in quel periodo per «regolare» gli ingressi per motivi di lavoro e si ignorano i fatti.
Si ignora anche che quella legge, sebbene più volte ritoccata, ma rimasta fondamentalmente invariata fino al 2007, ha costituito la base giuridica non solo per la lotta contro l’«inforestierimento», ma anche per l’intera politica svizzera nei confronti degli stranieri fino all'entrata in vigore degli accordi bilaterali con l’Unione europea sulla libera circolazione delle persone (2002) e della nuova legge sugli stranieri (2008).
La legge del 1931 non aboliva i trattati internazionali, ma inevitabilmente li limitava. Questi continuavano a regolare il reclutamento e le condizioni iniziali di lavoro, mentre la legge definiva lo statuto del lavoratore immigrato e disciplinava le condizioni del suo soggiorno in Svizzera. Lo spirito degli accordi bilaterali dell’Ottocento e dell’attuale legge sugli stranieri era completamente diverso. Se i primi erano il frutto di una concezione liberale dello Stato, aperto all’ingresso e al domicilio degli stranieri col solo vincolo del rispetto delle leggi e del principio della reciprocità, la nuova legge rispondeva a nuove esigenze di tipo nazionalistico e protezionistico. Queste esigenze sottolineavano inequivocabilmente il primato dell’interesse nazionale su tutti gli altri interessi.

Immigrati a richiesta e precari
In base alle nuova legge, l’ingresso e il soggiorno in Svizzera degli stranieri potevano essere concessi unicamente se risultava un interesse esplicito al loro arrivo e al loro soggiorno. La legge era esplicita (art. 16): «Nelle loro decisioni, le autorità competenti a concedere i permessi terranno conto degli interessi morali, economici del paese nonché dell’eccesso della popolazione straniera». In altre parole, le nuove ammissioni potevano avvenire unicamente in funzione della situazione del mercato del lavoro, del clima sociale, della situazione degli alloggi, della politica di limitazione del numero di stranieri.
Inoltre, venivano introdotte per la prima volta nella legge due caratteristiche determinanti per la successiva politica federale degli stranieri, la discrezionalità dei permessi e la precarietà. L’art. 4 precisava che «l’autorità decide liberamente, nei limiti delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione del permesso di dimora o di domicilio, e la tolleranza». Pertanto si stabiliva anche che l’autorità non era obbligata al rinnovo dei permessi, qualora fossero venute meno le condizioni per le quali erano stati rilasciati. L’art. 10 indicava inoltre tutta una serie di casi per cui gli stranieri indesiderati potevano essere espulsi (criminalità, malattia, indigenza, abuso dell’ospitalità con ripetute infrazioni dell’ordine pubblico, ecc.).

Diversità di permessi in funzione dell’economia
Per evitare che un’eccessiva precarietà potesse nuocere all'economia, la legge prevedeva inoltre una diversità di permessi, varianti da quello stagionale di breve durata (denominato Permesso A) a quello di durata indeterminata (Permesso C o di domicilio). Soprattutto il permesso stagionale permetteva di regolare il flusso d’entrata in funzione del mercato del lavoro, che poteva subire forti variazioni nel tempo e nello spazio.
La nuova legge rafforzava pertanto i dispositivi di controllo dei migranti sia al momento dell’ammissione che dopo. Anzitutto ogni autorizzazione doveva essere preceduta dall’approvazione della polizia federale degli stranieri (art. 18 cpv. 3) e poi ogni Cantone doveva disporre di una polizia degli stranieri a cui doveva essere comunicata ogni decisione riguardante qualsiasi permesso di soggiorno, di domicilio o di tolleranza come pure di espulsione (cfr. art. 15, cpv. 2).
Non bisogna perdere di vista che gli stranieri maggiormente interessati dalla nuova legge erano gli italiani. (Continua sul prossimo numero)
Giovanni Longu
Berna, 23.1.2013