10 luglio 2013

Giovani disoccupati e formazione


Il Presidente del Consiglio dei ministri italiano Enrico Letta considera il problema dei giovani disoccupati uno dei più gravi dell’Italia di oggi. In prima persona si sente impegnato a trovare soluzioni adatte e compatibili con le risorse disponibili. E per non essere accusato di individuare sia il male che la cura, ma di non somministrare la medicina giusta, l’ultima settimana di giugno il governo ha approvato un «pacchetto occupazione» con una dotazione finanziaria di tutto rispetto, 1,5 miliardi di euro.
Nel presentare in conferenza stampa il provvedimento, il presidente Letta si è detto molto fiducioso perché, garantendo agevolazioni ai datori di lavoro disposti ad assumere giovani disoccupati, «le decisioni prese andranno ad aiutare l’assunzione in 18 mesi di 200 mila giovani» (su un numero di inoccupati che solo nella fascia d’età dai 15 ai 24 anni è di oltre 640 mila!).
Le reazioni, anche in seno alla maggioranza governativa, sono state tuttavia alquanto tiepide, perché le misure adottate appaiono del tutto insufficienti a risolvere un problema che appare gravissimo e diffuso, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Non è infatti nemmeno immaginabile che in quest’area d’Italia i datori di lavoro riescano ad assorbile decine di migliaia di disoccupati, sia pure con grandi agevolazioni, se il lavoro disponibile scarseggia, se le imprese non investono, se la sfiducia dei giovani cresce e l’emigrazione riprende la sua vecchia tradizione.
Sulla situazione generale del Mezzogiorno sono state fatte e si continuano a fare approfondite analisi, ma il passaggio dalla diagnosi alla cura tarda a compiersi. Verrebbe quasi da pensare che forse si tratta ormai di un malato incurabile. In realtà non è così, perché le potenzialità del Mezzogiorno sono enormi. Basterebbe pensare ai settore del turismo, dell’agricoltura, delle infrastrutture, in cui sarebbe possibile e auspicabile investire con l’aspettativa di grandi benefici.

Un piano per il Sud
Per individuare la cura o meglio le cure giuste per il Sud andrebbe intanto stabilito quale punto di partenza che l’Italia non è un Paese omogeneo, sotto molti punti di vista, ma particolarmente sotto l’aspetto economico e sociale. La disoccupazione giovanile ne è un esempio evidente: essa è concentrata soprattutto nel Mezzogiorno con punte che sfiorano o superano addirittura il 50%, ossia su due giovani solo uno lavora.
Fatta questa premessa e tenendo conto che le risorse finanziarie disponibili in un periodo di crisi sono sempre limitate, occorrerebbe limitare anche il campo d’intervento. Ad esempio, invece di parlare di un «piano Italia per l’occupazione giovanile» perché non adottare immediatamente un «piano per l’occupazione nel Mezzogiorno»?
Credo tuttavia, che soprattutto nel Mezzogiorno, sia necessario anzitutto un cambio di mentalità. Nell’attuale dibattito sulla disoccupazione giovanile mi pare di capire che tutte le attese sono riposte nell’intervento dello Stato per creare occupazione in funzione dei giovani disoccupati. Illusione! Raramente o forse mai mi è capitato di sentire interventi che capovolgano l’impostazione e postulino un diverso atteggiamento dei giovani in funzione delle esigenze delle imprese che potrebbero creare occupazione. Eppure credo che sia inevitabile che debbano essere i giovani che devono adeguarsi alle imprese e non le imprese ai giovani disoccupati. Non va infatti dimenticato che anche le imprese devono ormai lottare per stare sul mercato e adeguarsi continuamente alle esigenze della globalizzazione.
Chiunque obietterà che in ogni caso il rimedio alla disoccupazione giovanile anche solo nel Mezzogiorno comporterà tempi medio-lunghi. Mi sembra evidente, e non potrà essere diversamente, visto che i posti di lavoro non si creano dall’oggi al domani, ma presuppongono l’analisi di un contesto piuttosto complesso, l’individuazione di attività produttive e redditizie compatibili col territorio, lo snellimento della burocrazia, l’adeguatezza delle infrastrutture necessarie, la garanzia del rispetto della legalità.

Adeguare la formazione
Dati i tempi lunghi, mi parrebbe sensato che si affrontasse immediatamente anche un altro aspetto del problema, che pur non essendo direttamente all'origine della disoccupazione giovanile non è privo di una stretta relazione.
Probabilmente nel Mezzogiorno d’Italia è ancora prevalente un concetto di istruzione e di cultura legato a una certa ideologia di tipo dualistico che usava distinguere la teoria dalla pratica, i lavori intellettuali dai lavori pratici, i camici bianchi dalle tute blu e via dicendo. Implicitamente, anche ricchezza e povertà rientravano nella distinzione, per cui per decenni dal dopoguerra si diceva ai figli «dovete assolutamente studiare», senza aggiungere per fare cosa, e si relegava alla raccolta dei detti antichi la raccomandazione «impara l’arte e mettila da parte».
Il risultato è sotto gli occhi di tutti e ad essere messo in discussione è anche proprio il sistema scolastico esistente al Sud. Quando in altri articoli ho richiamato i mediocri risultati degli alunni italiani nel confronto internazionale secondo l’indagine «Pisa», mi riferivo alla media nazionale. Disaggregando i dati per aree geografiche e regioni appare evidente un forte distacco tra Nord e Sud.

«Pisa» insegna
L’ultima indagine Pisa di cui sono disponibili i dati (2009) pone l’Italia significativamente al di sotto della media dei Paesi dell’OCSE sia per i risultati in «lettura», sia per quelli in «matematica e scienze». Ai primi posti figurano Paesi come Corea, Finlandia, Svizzera, Stati Uniti, Germania, Francia, Svezia, ecc.
Per capire meglio la portata di questa indagine va ricordato che la «lettura», considerata in senso ampio anche di comprensione e analisi di testi scritti, è ritenuta «la competenza chiave per eccellenza, fondamentale anche per altre competenze chiave, in quanto costituisce la base sia per conseguire gli obiettivi di apprendimento in tutte le aree disciplinari sia per acquisire informazioni in modo funzionale alla piena partecipazione dell’individuo alla vita adulta» (dal Rapporto nazionale PISA 2009).
Ebbene, osservando i dati da vicino, appare ad esempio che nella valutazione delle competenze in «lettura» dei quindicenni italiani le regioni Lombardia, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trentino (provincia di Trento), Veneto ed Emilia Romagna si avvicinano ai primi della classifica internazionale e superano addirittura le medie di Paesi come Svizzera, Stati Uniti, Germania, Francia, Svezia, Gran Bretagna. I dati delle regioni Calabria, Campania, Sicilia, Sardegna, Molise, Basilicata, Abruzzo, Lazio, Puglia sono al di sotto della media italiana e dell’OCSE e si avvicinano a quelli dei Paesi di fondo classifica. Per i risultati in «matematica e scienze» la situazione è analoga.
Quando si vuole analizzare seriamente il problema della disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno d’Italia credo indispensabile anche un’attenta analisi delle prestazioni del sistema scolastico. Per assorbire la disoccupazione è infatti assolutamente necessario che sul territorio esistano imprese competitive col nord dell’Italia e del resto del mondo. Ma perché vi si possano insediare è necessario che trovino sul posto (oltre alle condizioni generali adatte) anche il personale competente di cui abbisognano.

Formazione e flessibilità
In Italia, purtroppo, quando si parla di scuola, formazione, università, laurea, cultura si resta quasi sempre sul generico e sull'astratto, dimenticando spesso che nel mondo globalizzato in cui viviamo, anche questi valori vanno associati con esigenze ormai irrinunciabili come competitività, eccellenza, produttività, formazione continua, mobilità, intraprendenza, sviluppo, ricerca. Termini purtroppo assenti normalmente dal dibattito politico e mediatico, ancora dominato dall’idea (o mito?) del lavoro inteso come «posto fisso», possibilmente a vita, e talvolta come strumento per acquisire ricchezza e potere.
A furia di insistere che la Costituzione ha messo al primo posto il «diritto al lavoro», molti hanno finito per credere che possono davvero rivendicare un posto di lavoro, anche senza cercarlo. Eppure l’articolo primo della Costituzione può essere letto anche come dovere di ogni cittadino di provvedere al proprio futuro e allo sviluppo del Paese col proprio lavoro da conquistare, se necessario, con spirito d’iniziativa, disponibilità, flessibilità, ma anche con la preparazione adeguata che esigono le condizioni nazionali e internazionali.
E’ evidente che sull’articolo 1 della Costituzione si fonda anche l’obbligo dello Stato a favorire tutte le condizioni per creare posti di lavoro, ma guai aspettarsi che lo Stato diventi un datore di lavoro per risolvere i problemi dei disoccupati. Lo Stato ha solo il compito di favorire la creazione di nuovi posti di lavoro, dando stimoli all’economia generale e incentivi ai veri datori di lavoro, le imprese. Ma sono le imprese e la società civile che devono muoversi per prime.
Giovanni Longu
Berna 10.07.2013

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