12 dicembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 9. I consiglieri federali e l’italianità


Chi conosce anche solo sommariamente la storia e l’organizzazione della Confederazione sa bene che il governo (Consiglio federale) è stato voluto dai costituenti in una posizione nettamente più debole di quella riconosciuta al Parlamento (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati), quale organo supremo di rappresentanza della volontà del popolo e dei Cantoni svizzeri. Per di più,  il Consiglio federale, titolare del potere esecutivo, è un organo collegiale senza nemmeno un presidente con poteri superiori a quelli degli altri membri del Collegio.
Alla luce di questa impostazione fondamentale, si può ben capire perché il Consiglio federale, nemmeno all’interno dell’amministrazione federale goda di poteri sovrani e tutto sia regolato da leggi, ordinanze e istruzioni varie, che limitano fortemente la discrezionalità dei singoli consiglieri federali a capo dei vari Dipartimenti. Non voglio dire che essi o gli alti dirigenti dell’amministrazione non abbiano poteri decisionali importanti o il potere d’influire sulla nomina dei principali collaboratori, sulla politica del personale in genere, sulla scelta dei progetti e sull’assegnazione delle risorse, ma sicuramente non bisogna esagerarne la portata.

Legittimità della rivendicazione italofona
In questa ottica, l’elezione di un consigliere federale dovrebbe essere depurata da aspettative esagerate. Invece, da sempre attorno ad ogni elezione ruotano molteplici interessi di parte, quali l’appartenenza a questo o quel partito, a questo o quel Cantone, a questo o quell'orientamento (persino religioso, in altri tempi), a questa o quella regione linguistica. Spesso a prevalere non sono gli interessi generali più importanti, ossia quelli indicati nella Costituzione federale, specialmente il criterio dell’appartenenza linguistica e culturale.
Da questo punto di vista trovo legittima la rivendicazione degli italofoni di una rappresentanza italofona in Consiglio federale e la delusione ogniqualvolta viene negata. E’ forse impossibile individuare quali siano le vere ragioni di ogni esclusione, ma una ragione potrebbe essere che non esistono a tutt'oggi regole precise per garantire tale rappresentanza. Sta di fatto che finora, ossia fino a qualche settimana fa, dopo le innumerevoli discussioni che si sono svolte nell'arco di 165 anni, il problema della rappresentanza italofona nel Consiglio federale non è stato ancora risolto.
Eppure basterebbe ripensare alla storia delle elezioni dei consiglieri federali italofoni per capire che esistono ragioni sufficienti per assicurare anche all'italianità visibilità e rappresentanza costanti in Consiglio federale. E’ illuminante soprattutto l’elezione del primo consigliere federale italofono Stefano Franscini.

Perché Franscini?
Anzitutto va ricordato che la prima discussione sul numero dei consiglieri federali si è avuta in seno alla Dieta (l’assemblea dei rappresentanti dei Cantoni) prima della stesura definitiva della prima Costituzione federale (1848). Nella proposta iniziale si parlava di cinque membri, ma la maggioranza dei rappresentanti cantonali decise di aumentarne il numero a sette (e tale è rimasto fino ad oggi). Questo numero, a quanto sembra, fu scelto per motivi di efficienza nei compiti da svolgere e per dare qualche possibilità in più di esprimere un consigliere federale anche ai piccoli Cantoni.
Inoltre è bene ricordare che la Costituzione appena approvata all’art. 109 dichiarava che «le tre lingue principali della Svizzera, la tedesca, la francese e l’italiana sono lingue nazionali della Confederazione», sancendo così la natura plurilingue e pertanto anche pluriculturale della Svizzera e l’uguaglianza delle stesse lingue e relative culture. Di qui la conseguenza, ovvia, di inserire nel primo Consiglio federale almeno un rappresentante di ciascuna componente linguistica e culturale, dunque anche il ticinese Stefano Franscini (1848-1857).
Una prima considerazione su questa elezione è che essa, in quel momento storico, dovette apparire del tutto normale (anche se avvenuta solo al terzo turno di scrutinio con un solo voto oltre il minimo richiesto), perché sarebbe apparsa una sorta d’ingiuria sacrificare in nome della maggioranza tedescofona e francofona la rappresentanza italofona e una violazione palese del plurilinguismo sancito nella Costituzione.
Una seconda considerazione, conseguente alla precedente, mi porta a ritenere del tutto secondario, agli occhi dei parlamentari di allora, il fatto che Franscini fosse «ticinese», rispetto alla sua caratteristica principale di «italofono». Era infatti esclusa una scelta diversa in quanto allora la quasi totalità degli italofoni si concentrava nel Ticino. Certamente non si volle riconoscere (né allora né mai anche in seguito) una sorta di privilegio al Cantone Ticino e, del resto, nemmeno questo, riteneva di avere diritti particolari di rappresentanza. Tanto è vero che alla scadenza del mandato, i ticinesi non rielessero Franscini nel Consiglio nazionale, pur sapendo che questa era la condizione per mantenere il seggio in Consiglio federale. Poté continuare l’opera iniziata a Berna solo grazie all’elezione come deputato del Cantone di Sciaffusa.

Italofoni per interessi nazionali
1° Consiglio federale (1848)
Franscini è stato l’apripista dei consiglieri federali italofoni, ma ha avuto un solo immediato successore, Giovan Battista Pioda (1857-1863). Questi venne eletto certamente per le sue qualità personali, ma anche, probabilmente, per continuare una rappresentanza italofona ritenuta indispensabile in uno Stato che intendeva consolidare la sua fragile identità e coesione nazionale e non da ultimo perché sembrava la personalità più adatta per assicurare buoni rapporti con il vicino Stato nascente italiano. Tanto è vero che una volta lasciato il Consiglio federale, Pioda fu nominato rappresentante della Svizzera presso il Regno d’Italia, incarico che mantenne fino alla sua morte nel 1882.
Indubbiamente a monte sia dell’elezione di Franscini che di Pioda ci stavano interessi nazionali che sopravanzavano di gran lunga qualsiasi interesse particolare: l’interesse a dare del Consiglio federale un’immagine adeguata del Paese reale, che non poteva prescindere né dalla sua composizione interna plurietnica, plurilinguistica e pluriculturale né dalla necessità di coltivare buoni rapporti con i grandi Paesi confinanti, dei quali si condivideva in buona parte la lingua e la cultura.

Discontinuità dopo Pioda
Purtroppo a Pioda non seguì nessun altro italofono fino al 1911, quando venne eletto Giuseppe Motta (1911-1940). Difficile spiegare come mai, per così tanto tempo, la maggioranza parlamentare, in rappresentanza della maggioranza del popolo svizzero, non ritenne indispensabile la rappresentanza italofona. Invano a più riprese tra il 1870 e il 1874, nel 1892, 1899 e 1909 si discusse nelle Camere federali circa la necessità o l’opportunità di aprire la porta del Consiglio federale a un italofono, eventualmente ampliando il numero dei consiglieri federali.
E’ interessante osservare che in tutta la storia dei dibattiti parlamentari in cui si trattò della questione della rappresentanza italofona, soprattutto in occasione di proposte di revisione della composizione del Consiglio federale (praticamente dal 1913 ad oggi), non mi è mai capitato di trovare un solo intervento da cui si possa ricavare che la lingua e la cultura italiane in questo Paese per importanza o dignità siano ritenute secondarie.
Evidentemente le ragioni dell’esclusione per periodi più o meno lunghi di un italofono dal Consiglio federale risiedono altrove e andrebbero ricercate e ben spiegate. Sono infatti convinto che, prese una per una, non basterebbero a vanificare il principio secondo cui un organo, per quanto collegiale ma alquanto rappresentativo, non possa o peggio non debba rappresentare anche un’area linguistica e soprattutto culturale che è riconosciuta di pari valore e dignità dalla stessa Costituzione.

Prepararsi è bene, ma come?
Per assicurare una tale rappresentanza, non bisognerebbe tuttavia aspettare l’eccezionalità dei tempi come nel caso di Franscini e Motta e persino di Nello Celio (1966-1973) e Flavio Cotti (1986-1999), ma bisognerebbe disporre anche delle persone giuste al momento giusto. Una condizione questa, più facile a dirsi che a verificarsi, come dimostrano le numerose candidature non andate a buon fine dalle dimissioni di Cotti a oggi.
Consiglio federale 2012
Non so quanto sia possibile in un sistema politico complesso come quello svizzero pianificare o preparare le successioni, ma ritengo, da semplice osservatore, indispensabile che nel campo degli italofoni si chiariscano e definiscano le priorità, verificando anche la coerenza e la significatività del linguaggio. E’ facile infatti, leggendo interventi parlamentari od opinioni sui giornali, riscontrare numerose confusioni (giusto per citare due esempi, tra italofonia e italianità, rappresentante italofono e rappresentante ticinese), quanto basta per far sospettare chi magari al plurilinguismo o alla uguaglianza di valore tra le lingue nazionali e le culture ha già rinunciato.
Una maggiore precisione andrebbe forse inserita anche all’articolo 175 della Costituzione federale, se si vuole davvero assicurare la rappresentanza delle tre principali lingue e culture di questo Paese, a prescindere dal numero dei membri del Consiglio federale.
Giovanni Longu
Berna, 12.12.2012