28 novembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 8. La questione linguistica


La lingua italiana, al momento della costituzione dello Stato federale nel 1848, era ben poca cosa nel panorama linguistico svizzero, non solo nei confronti della lingua dominante, il tedesco, ma anche di quella francese, parlata in tutti i Cantoni della Svizzera occidentale. L’italiano era concentrato nel sud della Svizzera, prevalentemente in un solo Cantone, il Ticino. Nel resto della Svizzera solo pochi intellettuali ed ecclesiastici conoscevano l’italiano appreso nei viaggi nelle grandi città d’arte e di cultura italiane.
Lo stato di esigua minoranza su scala nazionale ha pesato molto sull'integrazione del Ticino nella Confederazione e sul peso dell’italiano a livello federale. Basti pensare che solo nel 1917 il Consiglio federale istituisce un segretariato di lingua italiana in seno alla Cancelleria federale e dall'anno seguente cominciano ad apparire in italiano estratti del Foglio federale, ossia il bollettino d’informazione ufficiale della Confederazione. 
Fino ad allora, dal 1848, solo le leggi federali venivano tradotte e raccolte nella Collezione sistematica, oggi Raccolta ufficiale delle leggi federali. Fu in seguito all'insistenza dei deputati ticinesi che, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, l’offerta di pubblicazioni in italiano cominciò ad ampliarsi, fino alla fine degli anni ’80, quando il Consiglio federale, soprattutto per iniziativa del consigliere federale Flavio Cotti, decise di rendere l’italiano il più possibile equivalente alle altre due lingue ufficiali tedesco e francese.

Per difendere l’italiano, aguzzare l’ingegno
Michele Fazioli
Oggi, nell’ambito pubblico federale, resta ancora molto da fare, ma molto è stato fatto, sotto il profilo linguistico. Altro discorso è quello della rappresentanza degli italofoni soprattutto ai piani alti delle gerarchie dell’amministrazione federale. Se una decina di anni fa il deputato Fulvio Pelli definiva la situazione «quasi drammatica», negli anni seguenti altri non hanno esitato a togliere il «quasi». Guai, però, sembrava ammonire nel 2005 il noto giornalista Michele Fazioli, piangersi addosso nel ricordo di anni (ad es. il 1991) in cui il presidente della Confederazione era Flavio Cotti, il direttore della SSR Antonio Riva, il vicecancelliere Achille Casanova, il delegato per le celebrazioni del 700° della Svizzera Marco Solari, presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa Cornelio Sommaruga. Avrebbe potuto ricordare anche altri prestigiosi rappresentanti italofoni a capo di importanti uffici federali, ma avrebbe solo contribuito ad alimentare la desolazione. Voleva invece ammonire che «una lingua non la si difende per decreto ma mediante la dolce prepotenza della sua immaginosa affermazione». Per difendere l’italiano bisognava, secondo lui, «aguzzare l’ingegno, portare gli uomini migliori oltre Gottardo, fabbricare cose, progetti, idee e non farci provincialmente male tra noi».
La situazione sommariamente delineata nel settore pubblico è un po’ lo specchio della situazione nel settore privato. Negli articoli precedenti si è visto quanto il Ticino stesso, unico Cantone italofono, ha dovuto lottare per salvaguardare la propria identità linguistica e culturale, anche quando, dopo l’elezione in Consiglio federale di Giuseppe Motta (dicembre 1911) tutta la stampa locale pensava che quell’evento segnasse la definitiva «riconciliazione tra il Ticino e la patria svizzera». In realtà, secondo lo storico Silvano Gilardoni, «placatasi l’esaltazione e smorzatasi l’ebbrezza di retorico e magniloquente patriottismo, la situazione del Ticino tornò ad essere quella di prima».
Il disagio era anzi destinato a crescere, almeno fino alle Rivendicazioni ticinesi degli anni ‘20. Basterebbe leggere quel che scriveva nel 1912 la Tessiner Zeitung, il giornale degli svizzeri tedeschi in Ticino, di fronte all’accusa di rifiutare di assimilarsi rivolta dai ticinesi ai confederati che si stabilivano nel loro Cantone. Il giornale respingeva l’accusa e asseriva che, come i ticinesi hanno il diritto di difendere la propria razza e la propria lingua «contro la maggioranza del popolo svizzero», così gli svizzeri tedeschi rivendicano lo stesso diritto nei confronti della maggioranza linguistica del Ticino. Evidentemente la realtà era ben diversa dalla teoria dell’uguaglianza delle lingue nazionali proclamata dalla Costituzione.

Il principio di territorialità: è da rivedere!
A parere di molti osservatori, il principio della territorialità che condiziona qualsiasi politica linguistica in questo Paese, è purtroppo difficilmente superabile, perché inevitabilmente senza di esso le lingue minoritarie si sentirebbero minacciate. E, si badi bene, non si tratta di un principio teorico, ma molto concreto. Poche settimane fa si poteva leggere su alcuni media la risposta che molti svizzeri tedeschi davano ai romandi che si lamentano dell’uso esagerato dello Schwyzerdütsch: «i romandi dovrebbero imparare lo svizzero-tedesco». C’è qualche Comune svizzero che sottopone gli aspiranti alla naturalizzazione a un test di comprensione del dialetto locale. E pochi giorni fa, durante la sessione giovanile del Parlamento, sembra che al momento della valutazione delle proposte per la comunicazione presentate da ciascun gruppo nella sede della Swisscom, i giovani svizzero tedeschi non abbiano votato la proposta dei ticinesi perché non l’avevano capita e non si erano muniti delle cuffiette per la traduzione simultanea (!).
Esempi, che confermano quanto il plurilinguismo sia contrastato dal principio di territorialità, che di fatto tende a escludere o a minimizzare, persino nella pratica scolastica abituale, tutte le lingue (o le lingue più deboli) diverse da quella del territorio. Molti osservatori sono convinti che l’applicazione (troppo rigida) di questo principio sia da riesaminare. Non c’è dubbio che di questo principio si è avvalso il Ticino per frenare la «tedeschizzazione» di alcune aree del Cantone, ma non c’è dubbio alcuno che su scala nazionale ha nuociuto e continuerà a nuocere, se non interverranno dei correttivi, alla salvaguardia dell’italiano nella Svizzera tedesca e nella Svizzera francese.

Evoluzione dell’italiano in Svizzera
Qualche accenno all’evoluzione dell’italiano su scala nazionale può essere illuminante per capirne la sua importanza. Rispetto alla situazione iniziale al momento della costituzione dello Stato federale (1848), l’italiano non ha subito grandi variazioni fino al 1880, ossia fino a quando ai ticinesi si sono aggiunti gli immigrati italiani. Da allora (1880: 5,7% sulla popolazione residente) l’italiano come lingua principale è progredita incessantemente (salvo una leggera flessione nel 1888: 5,3%) fino al 1910 (8,1%). Nel periodo tra le due guerre la percentuale di italofoni è diminuita a causa delle partenze e dei minori arrivi di italiani (1920: 6,2%, 1930: 6,0%, 1941: 5,2%). Nel secondo dopoguerra ha ripreso la crescita, incessante, fino al picco registrato nel 1970 (11,9%), per poi ridimensionarsi gradualmente fino al livello del 2000 (6,5%).
L’evoluzione altalenante dell’italiano in Svizzera rispecchia non solo i vari periodi dell’immigrazione italiana, ma anche la sua diffusione. Tanto è vero che il picco raggiunto agli inizi degli anni ’70 corrisponde al punto massimo raggiunto dalla collettività italiana e anche alla sua massima diffusione sul territorio. Praticamente in tutti i Cantoni, dal dopoguerra in poi, si costituirono comunità in cui la lingua usata abitualmente era l’italiano. Per almeno un trentennio, fino al censimento del 2000, in quasi tutte le grandi città la seconda lingua parlata era l’italiano, tanto nella Svizzera tedesca che nella Svizzera francese. Dagli anni Sessanta in moltissimi Comuni svizzeri vengono ancora organizzati corsi di lingua e cultura italiane per migliaia di allievi della scuola obbligatoria, finanziati dallo Stato italiano. Nelle
città, la scuola secondaria superiore ha inserito molto spesso l’italiano nei corsi di maturità ed è senz'altro preoccupante che questa offerta si stia sempre più riducendo. Le università, fino a pochi anni fa, potevano contare su un cospicuo numero di allievi italofoni. In breve, l’italiano era non solo una lingua parlata o almeno ben conosciuta da circa un milione di persone, ma costituiva una sorta di «lingua franca» per molti lavoratori non italiani e, soprattutto, si alimentava sui banchi di scuola di ogni ordine e grado, grazie soprattutto al sostegno del governo italiano.

Attenzione: l’italianità non coincide con l’italofonia
A ben guardare, la diffusione massiccia dell’italiano negli anni ’70 e ’80, non era però dovuta solo alla presenza di lavoratori italiani in tutte le attività economiche, ma anche alla diffusione su vasta scala di attività legate all’italianità in senso largo (comprendente, oltre alla lingua, riferimenti specifici all’arte, al cinema, alla moda, alla gastronomia, allo sport, al senso della famiglia, al bel canto, a un sistema di valori e comportamenti tipici di una lunga tradizione italiana). Per oltre un ventennio, l’italianità ha sicuramente contribuito a diffondere l’italiano, ma una maggior conoscenza dell’italiano ha sicuramente contribuito alla diffusione e al consolidamento dell’italianità in tutta la Svizzera. Si è cioè verificato un fenomeno che meriterebbe grande attenzione: mentre l’italofonia, per le ragioni ben note, è sicuramente in crisi (rispetto ai tempi di massima diffusione), l’italianità non lo è affatto, perché è divenuta una componete fondamentale dell’esistenza di questo Paese.
Achille Casanova
Del resto, già nel decennio passato, alcuni osservatori della fase calante dell’italiano facevano notare la non coincidenza tra italofonia e italianità. Giusto per citarne uno, mi piace ricordare il vicecancelliere Achille Casanova, che pur denunciando il «rischio di estinzione» dell’italiano, nel 2005 ricordava: «se la condizione dell’italiano in Svizzera è insoddisfacente, non significa che l’italianità stia altrettanto male. Al contrario. Io credo che in Svizzera l’italianità sia più che mai in voga. E non penso soltanto al cinema, alle canzoni, all’opera o al teatro, bensì anche alla moda italiana, ai prodotti italiani, che riscuotono grande successo da noi, e, non da ultimo, alla cucina italiana».
Giovanni Longu
Berna, 28.11.2012