17 ottobre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 3. Il Ticino alla ricerca della propria identità



Costretti a far parte della Repubblica Elvetica (1798), i baliaggi italiani vi entrarono divisi in due diversi Cantoni: quello di Bellinzona e le tre valli di Riviera, Blenio e Leventina, e quello di Lugano con Mendrisio, Locarno e Val Maggia. Le valli italofone del Distretto della Moesa preferirono rimanere unite al Cantone Rezia (Grigioni). Racconterà Franscini nella sua La Svizzera Italiana che fu un vero problema, nel 1800, trovare i 16 rappresentanti spettanti complessivamente ai due Cantoni nel Gran Consiglio Elvetico (che si componeva di 144 delegati), in quanto «tale era in quel tempo la nostra penuria di uomini istruiti, che di quei sedici Rappresentanti (…) appena tre o quattro avevano qualche coltura».

L’«Atto di Mediazione», la nuova costituzione imposta da Napoleone nel 1803 a tutti i 19 Cantoni svizzeri (tra vecchi e nuovi), segnò l’atto di nascita del Cantone Ticino (così chiamato dal nome del principale fiume che l’attraversa), derivante dalla fusione voluta dal Bonaparte dei due Cantoni di Bellinzona e di Lugano, con capitale Bellinzona. La Svizzera italiana, con la separazione delle valli grigionesi italofone, in verità di scarsa rilevanza politica, finirà d’ora in poi per essere rappresentata di fatto dalla sua parte preponderante, il Cantone Ticino, sovente indicato anche come «il Cantone italiano».
Benché politicamente unito, il Ticino continuava ad essere un Cantone profondamente diviso e disuguale fra regione e regione, centri urbani e campagne, Sopraceneri e Sottoceneri, con istituzioni inesistenti o inefficienti, un’economia tutta da sviluppare e un livello d’istruzione bassissimo in tutte le classi sociali.

Ricerca dell’unità, compito prioritario del Cantone
Gli anni fino alla caduta di Napoleone e al Congresso di Vienna (1815) furono assai difficili per il giovane Cantone, alle prese fra l’altro con continue interferenze francesi, contrasti interni a non finire (anche per la scelta della capitale, perché Lugano si opponeva a Bellinzona), tentativi di restaurazione dei privilegi sugli ex baliaggi da parte di alcuni Cantoni, il rigetto da parte dei ministri della grandi potenze di un progetto di una nuova costituzione ticinese ritenuto «troppo democratico» e l’accettazione «senza contrasto», nel 1814, di un nuovo «Patto federale» tra i Cantoni, una costituzione, scrisse Franscini, «approvata dall’aristocrazia svizzera e dalla Santa Alleanza», ecc.
Il Patto federale rispettava pienamente le autonomie cantonali e riservava alla Dieta (l’assemblea dei delegati cantonali) solo pochi compiti quali la politica estera, il sistema militare e una sorta di supervisione delle costituzioni cantonali (compresa quella, liberale e democratica, che il Ticino si diede nel 1830). Sarà abrogato solo nel 1848 con l’approvazione della nuova Costituzione federale.
Nel frattempo, il Ticino dovette affrontare compiti estremamente complessi e di difficile attuazione, per mancanza di risorse e soprattutto per la mancanza di uno spirito di coesione tra le varie regioni e istituzioni del Cantone. Oltre a rifare o far funzionare meglio le proprie istituzioni e sanare i contrasti politici e sociali interni, occorreva creare o migliorare vie di comunicazione, sviluppare l’economia (l’industria tessile aveva ad esempio un forte ritardo rispetto al resto della Svizzera e alla Lombardia) e frenare in tal modo il flusso emigratorio che privava il Cantone delle forze di lavoro più giovani e promettenti, colmare le enormi lacune nell’istruzione pubblica (40% di analfabeti nel 1835) e non da ultimo migliorare i rapporti con i confederati, piuttosto critici e sospettosi nei confronti dei ticinesi.
Nel periodo tra il 1830 e il 1848, chiamato anche «Rigenerazione», si avviò nel Cantone Ticino anche un lento e difficile processo di identificazione tra «popolazioni che mai si sono sentite unite e che non si riconoscono né in una patria comune, né in una comunanza di interessi». Si moltiplicarono gli appelli alla fratellanza cantonale e al superamento delle divisioni, sfidando una sorta di fatalismo che faceva ritenere ancora nel 1870 a molti ticinesi di essere talmente diversi da non poter vivere insieme sotto le stesse leggi.

Rapporti marginali con gli altri Cantoni

Fino al 1848 i rapporti del Ticino con gli altri Cantoni furono piuttosto marginali. L’attenzione del Ticino era rivolta principalmente ai problemi interni e alla difesa degli interessi cantonali, a tal punto che nel 1848, ritenendo non sufficientemente tutelati alcuni suoi interessi (soprattutto dazi doganali), la maggioranza del Cantone votò contro l’approvazione della nuova Costituzione federale.
Non si poteva tuttavia ignorare che l’opinione di molti confederati nei confronti dei ticinesi era alquanto negativa. Questi venivano considerati spesso «neghittosi e nemici del lavoro e dell’industria; (…) inferiori a tutti gli altri popoli d’Elvezia in moralità e benessere; (…) alloggiati peggio che in qualche luoghi della Svizzera tedesca, i maiali; (…) non partecipi della sobrietà italiana né quanto al cibo né quanto alla bevanda…».
Stefano Franscini (1796-1857)
Franscini, in una sorta di difesa d’ufficio, riteneva ingiustificate quelle generalizzazioni, ma era pronto ad ammettere che i ticinesi erano diversi dagli svizzeri tedeschi, non solo «pel clima e per le Alpi e per la diversità del linguaggio e per alcune altre circostanze», ma anche per molte caratteristiche, buone e cattive, che «noi Ticinesi abbiamo in comune colla razza italiana». Questa diversità non doveva tuttavia far dimenticare i comuni destini del Ticino con gli altri Cantoni. Riteneva pertanto «della estrema importanza che vi sarebbe di famigliarizzare il popolo Ticinese col resto della Svizzera promovendo nella gioventù lo studio del tedesco idioma».

Tra italianità ed elvetismo
Fu tutt’altro che facile instaurare buoni rapporti col resto della Svizzera e con Berna in particolare, anche perché da un parte e dall’altra non si facevano grandi sforzi per rimuovere gli ostacoli. Cominciava a profilarsi già prima del 1848 quella che decenni più tardi diventerà «la questione ticinese», ossia il tema vivacemente dibattuto nella politica e nei media dell’identità svizzero-italiana, tra italianità ed elvetismo o elveticità.
I ticinesi cominciavano a rendersi conto che i «comuni destini» non li condividevano solo con i confederati ma anche con gli italiani. Si sentivano infatti di animo e di costumi «italiani» e «lombardi», sebbene avessero accettato liberamente di essere anche totalmente «svizzeri», soprattutto dopo il rifiuto di far parte della Repubblica Cisalpina. Una scelta di campo netta non era più impossibile, anche solo per motivi pratici: gran parte della realtà ticinese (economia, cultura, emigrazione, ecc.) continuava a gravitare nell’area lombarda. Soprattutto nelle città, osservava Franscini, il vitto «si distingue ben poco da quello della vicina Lombardia» e quanto al modo di vestire, «in città si veste secondo le fogge che giungono da Como e da Milano». Ad avvicinare i ticinesi ai lombardi c’era anche l’appartenenza religiosa alle due diocesi di Como e Milano.

Emigranti ed esuli
Anche i flussi migratori contribuivano a rafforzare i legami tra il Ticino e la Lombardia e più in generale l’Italia. Parlando dei numerosi ticinesi costretti ad emigrare fin dai tempi dei baliaggi soprattutto in Lombardia, ma anche in Piemonte e nelle altre regioni d’Italia (muratori, stuccatori e tagliapietre, garzoni di mercante di vino e camerieri, spaccalegna, spazzacamini, fumisti, facchini, vetrai, marronai, vaccari, caciai, donne di servizio, ecc.), Franscini evidenziava un rapporto di dare e avere che faceva profittare entrambe le parti.
Ribadiva anche che ad emigrare non erano solo abili artigiani o semplici operai, perché molti ticinesi, formatisi nelle «pubbliche e celebrate accademie e scuole d’Italia», risultarono validi artisti e altri contribuirono col loro talento e la loro arte a riempire le città italiane «di teatri, di templi e di altri pubblici e privati edifici che ne fanno il più bel nobile ornamento». Ricordava in particolare che «i Fontana, i Maderno, i Cantoni, i Rusen, gli Albertolli sono pel Ticino una fonte di gloria immortale. Le più cospicue città d’Italia, Torino, Milano, Genova, Bologna, Roma, Napoli e più altre (…) van debitrici di insigni opere a valorosi artisti dell’Italia Svizzera».
C’era poi la questione degli esuli italiani che trovavano facilmente rifugio in Ticino, che costituì in più occasione un terreno di scontro tra il governo cantonale e il Consiglio federale. I ticinesi, memori anche di essere stati per secoli privi delle libertà politiche, non potevano chiudere le frontiere agli esuli che lottavano per la libertà e consideravano «sacro contrabbando» consentire sul proprio territorio le pubblicazioni clandestine e la raccolta di armi per i rivoluzionari.
Non c’è dubbio che l’intenso scambio tra il Ticino e l’Italia (soprattutto Lombardia), la questione degli esuli, insieme alla continuità territoriale e alla comunanza della lingua, della religione e dei costumi, messi a confronto con le perplessità che generavano la supremazia germanofona, la paura di una riduzione delle libertà conquistate, lo spettro del protestantesimo e altro ancora, contribuirono alla scoperta delle radici culturali «italiane» dei ticinesi e alla formazione di un’identità ticinese «italiana», che per affermarsi definitivamente dovrà tuttavia superare innumerevoli prove. (Continua)

Giovanni Longu
Berna, 17.10.2012