12 settembre 2012

Emigrazione sedotta e abbandonata


A chi osserva con una certa attenzione la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera salta facilmente all’occhio una costante: essa è sempre stata prima sedotta e poi abbandonata. L’emigrazione di massa non è mai stata, fino agli ultimi decenni, frutto di una libera scelta individuale, ma il risultato di una sorta di attrazione fatale del facile guadagno e persino della benevola accoglienza di datori di lavoro generosi. Solo successivamente la maggior parte degli emigrati si rendeva conto dell’inganno, delle difficoltà, della durezza e pericolosità del lavoro da svolgere, della sua precarietà, delle discriminazioni, dello sradicamento.

Pur essendo stata costituzionalmente «libera», l’emigrazione italiana è sempre stata, soprattutto nell’Ottocento, attratta da datori di lavoro generosi di promesse vane e manipolata da intermediari senza scrupoli. I vari governi succedutisi fino agli anni Settanta del secolo scorso sapevano della drammaticità dell’emigrazione e del danno provocato a intere regioni (soprattutto nel Mezzogiorno), ma non fecero (quasi) nulla per eliminarne le cause alla radice. Preferivano accusare chi sull’emigrazione intendeva a loro avviso lucrare, come gli «ingaggiatori», agenti d’emigrazione che reclutavano operai e contadini per conto di imprese e compagnie di navigazione e vendevano i biglietti di viaggio. Raramente osavano protestare con i governi dei Paesi d’immigrazione, Svizzera compresa, per paura di conseguenze negative sui flussi migratori.
Molti governi italiani, sia in epoca monarchica che in epoca repubblicana, si dichiaravano spesso contrari all’emigrazione, e per questo magari introducevano misure amministrative come la tassa sul passaporto o, sotto il Fascismo, la sorveglianza dei prefetti «su tutti gli organismi esistenti nelle loro giurisdizioni, aventi attinenza con l'emigrazione». In realtà quasi tutti i governi l’hanno favorita sia per ragioni di ordine pubblico (paura che il disagio sociale degenerasse) e sia per precisi calcoli economico-finanziari (l’interesse dei bilanci dello Stato alle rimesse degli emigrati).

Emigrazione problema nazionale
Solo dopo gli anni Cinquanta l’Italia e le forze politiche cominciarono a rendersi conto dell’emigrazione quale problema nazionale. Sono illuminanti al riguardo i resoconti parlamentari di accesi dibattiti (provocati quasi sempre da esponenti della sinistra) negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Non seguirono però politiche adeguate, ma solo un diffuso assistenzialismo (individui, associazioni, scuole, giornali, ecc.). Dagli anni Ottanta, quando l’Italia finì per divenire da Paese d’emigrazione Paese d’immigrazione, l’impegno dello Stato verso i propri cittadini all’estero andò via via riducendosi. E sull’emigrazione cominciò a calare il silenzio e la perdita del ricordo.
Un giudizio sulla politica migratoria italiana a mio avviso non può che essere molto critico. Per quasi 150 anni dall’unità d’Italia, i vari governi di qualunque colore hanno mal gestito i flussi in uscita e si sono poi disinteressati, salvo in certi periodi, della vita e dei problemi reali degli emigrati. Le varie rappresentanze diplomatiche e consolari si sono per lo più limitate a curare i rapporti istituzionali con i Paesi d’immigrazione e a gestire gli aspetti più burocratici degli emigrati (passaporti, visti, obblighi di leva, atti notarili, ecc.). E’ sempre stata assente o molto carente una vera politica migratoria, che privilegiasse i settori chiave della tutela dei diritti, dell’integrazione, della cultura e della formazione (salvo pochi interventi mirati nel campo della formazione).

Carenze delle istituzioni e crisi d’identità
Nell’intento di sollecitare una maggiore attenzione dello Stato ai problemi concreti degli emigrati, dagli anni Settanta (approfittando del diffuso assistenzialismo) sono sorte innumerevoli forme associative e di rappresentanza fino all’elezione diretta di alcuni rappresentanti nel Parlamento italiano. E’ innegabile, tuttavia, che almeno stando alla cronologia, quanto più si moltiplicavano queste organizzazioni (alibi) tanto meno lo Stato si preoccupava dei problemi reali degli emigrati e dei loro figli e nipoti.
Oggi è legittimo chiedersi se almeno gli organismi di rappresentanza e i parlamentari eletti all’estero sono in grado di esibire un resoconto di quanti e quali problemi hanno risolto. Tanto varrebbe, forse, dire chiaramente che l’emigrazione è finita e con essa il tempo dell’assistenzialismo. Forse ne guadagnerebbe anche la collettività italiana in Svizzera, oggi più che mai alle prese con una crisi d’identità.

Giovanni Longu
Berna, 12.09.2012

Plurilinguismo da salvare. Ma come?



E’ difficile seguire i vari interventi mediatici sulla situazione linguistica (plurilinguismo) in Svizzera e dell’italiano in particolare. Il fatto che siano tanti, anche solo negli ultimi mesi, denota che l’interesse e vivo, almeno in Ticino. Non è detto, tuttavia, che il fatto che se ne scriva e se ne discuta (anche in quest’ultimo fine settimana a Lugano) sia un indice positivo dello stato di salute del plurilinguismo e della lingua italiana. Si direbbe anzi il contrario. Se ne parla tanto perché l’uno e l’altra sono in pericolo.

Del resto, per rendersene conto, basterebbe leggere sul Corriere del Ticino di quest’estate alcuni interventi di Moreno Bernasconi (Stavolta è minacciato il francese, Cosa direbbe il grande Burckhardt?) o di Mauro Guindani (Il lento ma sicuro declino del plurilinguismo elvetico) o l’intervista al dimissionario delegato federale al plurilinguismo Vasco Dumartheray. Per non parlare del settimanale Beobachter (Molto rumor um nichts), che ironizza sull’iniziativa del Consigliere di Stato Manuele Bertoli di creare in Ticino un Forum per la salvaguardia dell’italiano in Svizzera.
Di fronte alla situazione con tendenza peggiorativa dell’italiano che è facile riscontrare nella Svizzera tedesca e francese, non mi sembra affatto confortante l’affermazione del Consigliere federale Alain Berset, secondo cui oggi «la pluralità culturale è più protetta». Sono anche scettico sulle iniziative dell’Università della Svizzera Italiana (USI) per favorire i soggiorni linguistici in Ticino di studenti romandi e svizzero tedeschi o per avviare una discussione a livello nazionale sulla lingua italiana «per trovare soluzioni». Mi domando anche se la sede più adeguata per sensibilizzare l’opinione pubblica svizzera e le autorità competenti (soprattutto cantonali e federali) sia il Ticino piuttosto che Berna, Zurigo, Basilea, Ginevra o altre città direttamente coinvolte.

Coinvolgere maggiormente le istituzioni italiane
I grandi dibattiti, soprattutto quelli organizzati da istituzioni serie e prestigiose come le università, possono essere utili se provocano conseguenze pratiche, ma diventano sterili se si limitano alle analisi e al rimpallo delle responsabilità (spetta ai cittadini, spetta ai Comuni, spetta piuttosto ai Cantoni anzi alla Confederazione…!). Forse andrebbe anche interpellata la popolazione per conoscere se davvero ha così bisogno della lingua italiana e perché la studia sempre meno.
Un altro interrogativo che mi preoccupa è dove sta lo Stato italiano in questa discussione. E’ mai possibile che l’Ambasciata e i Consolati non abbiano nulla da dire, da offrire, da rivendicare? Come si fa a immaginare un futuro per la lingua italiana nella Svizzera tedesca e francese senza garantire in regime bipartisan l’avvenire dei corsi di lingua e cultura italiana fin dal livello elementare? Perché i Cantoni maggiormente interessati non prendono iniziative al riguardo, se è vero com’è vero che il plurilinguismo è un privilegio della Confederazione?
Proprio sul plurilinguismo nell’amministrazione federale si è focalizzata per qualche giorno l’attenzione dei media in seguito alle dimissioni del delegato federale al plurilinguismo perché si sentiva «con le mani legate».

Maggiori poteri al delegato al plurilinguismo
Conoscendo Vasco Demartheray, la notizia non mi ha sorpreso. Gli era stato affidato un compito importante senza mettergli a disposizione i mezzi e soprattutto le competenze. Mi aveva invece sorpreso due anni fa l’atteggiamento di grande soddisfazione della Deputazione ticinese alle Camere federali, dopo che il Consiglio degli Stati aveva accolto una mozione di Filippo Lombardi che chiedeva una specie di mediatore per promuovere l’italiano e il francese e vigilare sull’adeguata rappresentanza di queste componenti nell’amministrazione federale.
Avevo scritto (L’ECO 24.03.2010) al riguardo: «Prima di fare salti di gioia aspetterei i risultati. Non è infatti chiaro che «statuto» avrà questo «mediatore» e di quale autorità disporrà. Sembrerebbe anzi che sarà una persona «nominata» e non «eletta» (com’è invece il caso dei mediatori parlamentari). Soprattutto non si sa come potrebbe «promuovere» l’italiano e il francese senza mezzi finanziari a disposizione e se, oltre a «vigilare» sull’adeguata rappresentanza di italofoni e francofoni nell’amministrazione federale, potrà anche «intervenire» (con quali poteri?) in caso di inosservanza della legge e delle ordinanze sulle lingue».
La domanda che mi pongo ora è se il successore del delegato dimissionario avrà lo stesso «statuto» e se la Deputazione avrà la forza di rivendicare per lui maggiori competenze, nella consapevolezza che il pieno rispetto della legge e dell’ordinanza sulle lingue rappresenta nell’amministrazione federale il principale baluardo del plurilinguismo elvetico.

Giovanni Longu
Berna, 12.09.2012