11 luglio 2012

Esigenze di normalità e di chiarezza


Non si hanno informazioni precise sull’avanzamento delle trattative tra l’Italia e la Svizzera in merito all’accordo fiscale. Si sa però che la parte svizzera affronta il negoziato con l’esperienza degli accordi già conclusi con la Gran Bretagna, la Germania e l’Austria e ben sapendo che non potrà ignorare le pretese ticinesi, che mirano a una riduzione sostanziale dell’aliquota dei ristorni sulla tassazione dei frontalieri italiani.
Adottando, come sembra, anche nel negoziato con l’Italia il modello Rubik, la stampa ticinese avverte che, se venisse applicata nei confronti dei capitali italiani depositati in Svizzera e non dichiarati in Italia la tassa liberatoria del 30-40% concordata con i Paesi summenzionati, sarebbero messi a repentaglio numerosi posti di lavoro sulla piazza finanziaria ticinese. L’onorevole Quadri, sostenitore di un referendum contro gli accordi già sottoscritti dalla Svizzera, parla addirittura di «migliaia d’impieghi» a rischio, che la Confederazione avrebbe il dovere di difendere invece di cedere ad oltranza «davanti alle pretese di un’UE sull’orlo del baratro».
Il negoziato non sarà dunque facile, ma occorrerà non perdere di vista le tradizionali buone relazioni tra i due Paesi e l’imperativo di consolidarle e svilupparle. Da entrambe le parti si dovrà anche tener conto che in Svizzera vive una delle maggiori comunità italiane all’estero.

Impegni per l’ambasciatrice Carla Zuppetti
La trattativa fiscale in corso costituirà sicuramente uno dei principali impegni che attendono la nuova ambasciatrice d’Italia in Svizzera Carla Zuppetti, ma non sarà l’unico. C’è infatti molto disagio in seno alla collettività italiana per alcune spinose questioni aperte. Penso allo stato dell’italiano nelle scuole e nelle università, alla situazione dei corsi di lingua e cultura, alla mancanza di una politica culturale italiana sostenibile, allo stato dei servizi consolari, alla discussione sull’utilità o inutilità degli organismi di rappresentanza ecc. ecc. E’auspicabile che su questo fronte l’ambasciatrice sappia apportare elementi di chiarezza, dicendo quali sono i punti fermi, e stimoli alla riflessione e alla soluzione almeno di alcuni problemi facendo leva non da ultimo sul volontariato, sull’innovazione, sul coordinamento intelligente delle forze disponibili, sulla collaborazione italo-svizzera.

Carla Zuppetti, nuova ambasciatrice d’Italia in Svizzera e nel Liechtenstein.
Nata a Isola del Liri (Frosinone) nel 1954, sposata, laureata in scienze politiche, è entrata nella carriera diplomatica nel 1978. Per alcuni anni ha seguito particolari vicende riguardanti italiani all’estero dalla Direzione Generale Emigrazione e Affari Sociali del Ministero Affari Esteri. Successivamente ha potuto conoscere da vicino i problemi dell’emigrazione, dal 1981 come Primo vice console a Basilea, dal 1983 come reggente del Consolato Generale a Leningrado, dal 1986 come Console aggiunto a Francoforte, e due anni più tardi come Console fino al 1990.
Rientrata a Roma, alla Direzione Generale del Personale e dell’Amministrazione, nel 1995 è stata nominata Primo consigliere alla Rappresentanza permanente d'Italia presso l'ONU a Ginevra con l’incarico di seguire le tematiche relative ai Diritti Umani. Come Primo consigliere è stata pure all’Ambasciata d’Italia in Francia. Rientrata nuovamente a Roma alla Farnesina nel 2002, è stata alle dirette dipendenze del Direttore Generale per il Personale, dal 2004 Vice Direttore Generale per il Personale e dal 2008 Direttore Generale per gli Italiani all’estero e le Politiche Migratorie. Già nominata dal Consiglio dei Ministri al grado di Ambasciatore dal febbraio 2012, ha assunto dal 30 giugno scorso, dopo il gradimento del Consiglio federale, la funzione di Ambasciatore d’Italia in Svizzera e nel Liechtenstein.


All’Ambasciatrice Zuppetti i migliori auguri di buon lavoro.

Giovanni Longu
Berna 11.07.2012

La frontiera e la storia


Sulle frontiere si può riscrivere la storia dell’umanità. Non sfugge a questa possibilità anche la storia dei rapporti italo-svizzeri e dell’emigrazione italiana in Svizzera.

Per secoli la frontiera ha segnato il «limite» della sovranità di un Paese e l’inizio di quella di un altro. Il superamento di questo limite è sempre dipeso dai rapporti di forza o dal tipo di accordi esistenti. Nelle relazioni italo-svizzere ci sono stati periodi in cui la frontiera era difficilmente valicabile e altri in cui era molto «aperta» al passaggio delle persone e delle merci.
Mai tuttavia tra la Svizzera e l’Italia le frontiere sono state completamente aperte. Ci sono stati periodi in cui aleggiava persino il sospetto che il Paese confinante rappresentasse un potenziale nemico. Di qui quella serie di fortificazioni al di qua e al di là del confine di cui per fortuna oggi restano solo tracce ad uso turistico. Persino nei periodi più «liberali» per la libera circolazione delle persone (dopo il Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia del 1868) la frontiera poteva chiudersi in qualsiasi momento. Di fatto, dopo la prima guerra mondiale, la Svizzera introdusse numerosi ostacoli per bloccare l’«inforestierimento». Uno di essi rimane scolpito nella memoria di molti immigrati: la visita medica in entrata al confine di Chiasso e di Domodossola, dalla maggior parte di essi considerata umiliante.

Dalla «tratta delle bionde»…
Il traffico commerciale, regolato da accordi vantaggiosi per entrambi i Paesi, è sempre stato florido. Parallelamente lungo la frontiera si è svolto anche un traffico illecito: il contrabbando. Già dai tempi della costruzione della galleria ferroviaria del San Gottardo (1872-1882) molti minatori italiani lo praticavano per integrare il loro magro salario.

Le bricolle dei contrabbandieri potevano pesare fino a una trentina di chili Come noto, il contrabbando è continuato ininterrottamente, almeno fino agli anni ’60 e ’70, in quella forma che qualcuno ha chiamato «romantica», perché praticato da «spalloni» che si guadagnavano la vita rischiando il carico che portavano sulle spalle (le famose «bricolle» di 25-30 chili) e talvolta anche la vita, per la difficoltà dei sentieri che dovevano percorrere, per lo più di notte, e col rischio di essere sorpresi dalle guardie di finanza o dalle guardie di confine. Lo «spallone», lungi dall’essere considerato un delinquente, era una figura che godeva rispetto per la fatica e la funzione sociale che in certo senso svolgeva, quella di dare sollievo a una condizione economica ritenuta difficile, precaria e persino ingiusta.
Esiste una vasta letteratura e persino raccolte museali sui modi, gli strumenti e sulle storie legate al contrabbando, soprattutto dalla fine della guerra agli anni Settanta. Le storie più note sono legate alla "tratta delle bionde", le sigarette. Ma oltre alle sigarette e al tabacco si contrabbandava, verso l’Italia, tutto quello che in Svizzera si riusciva ad avere più a buon mercato: saccarina, caffè, orologi, ecc. Cent’anni fa, di questi tempi, raccontano le cronache di confine, venne arrestato a Ponte Chiasso un giovane che cercava di trafugare sotto i vestiti nientemeno che 102 orologi per signora divisi in 17 scatole di sei pezzi ognuna.

… alla «tratta di esseri umani»
Lo Stato italiano ha tentato di stroncare quel traffico illecito ricorrendo persino alla costruzione lungo il confine di una rete metallica (nota come «ramina» tra le popolazioni di frontiera). Il contrabbando è continuato e continua tutt’ora, ma col tempo sono cambiati anche gli oggetti, le forme e le maniere di contrastarlo. Cresce ad esempio il traffico di valuta, di oggetti preziosi, di droga e persino il passaggio illegale di clandestini e la moderna «tratta di esseri umani». Cresce però contemporaneamente anche la collaborazione internazionale nel contrasto al riciclaggio, al commercio di droghe e al traffico di clandestini. Qualche settimana fa il Corriere del Ticino titolava a tutta pagina: «In Ticino è arrivata la “sesta mafia”». Anche la Svizzera si sente ora minacciata.
Per evitare i problemi di frontiera, dicono alcuni, basterebbe abolirle e creare un vasto spazio di libera circolazione, costruendo ad esempio un unico spazio economico comprendente anche la Svizzera. Ma, se è facile dirlo è quasi impossibile realizzarlo, almeno per la Svizzera in questo momento. Un autorevole portavoce, anche se è stato spesso di parte, il consigliere federale Ueli Maurer si è lasciato scappare poche settimane fa che «oggi nessuno che abbia le rotelle a posto vuole ancora entrare nell’UE» e «se la Svizzera fosse entrata nello Spazio economico europeo il Paese vivrebbe una profonda depressione».
Altri dicono che, senza abolire le frontiere, basterebbe eliminare il divario tra economie così diverse, proprio a ridosso di una esigua linea di confine. Ma anche al riguardo le difficoltà da superare, proprio di questi tempi, sembrano insormontabili. Eppure forse non c’è altra via, diversamente la frontiera resterà una barriera e la libera circolazione quale elemento fondamentale della democrazia mondiale un’utopia.

Giovanni Longu
Berna, 11.07.2012

10 luglio 2012

Nuovo approccio per salvare i corsi di lingua e cultura



Da molte parti si teme la prossima fine dei corsi di lingua e cultura italiana in Svizzera e s’invoca il Governo Monti come fosse il taumaturgo che fra tagli a destra e a manca dovrebbe salvare proprio i corsi di lingua e cultura. Purtroppo sono molti coloro che non vogliono arrendersi alla realtà, quella di un’istituzione che non è stata in grado di adeguarsi all’evoluzione dell’emigrazione e quella della collettività italiana residente in Svizzera che ben poco ha in comune con quella di trenta-quarant’anni fa.

Invece di avviare una seria riflessione sul da farsi, anche alla luce della situazione politica e finanziaria dello Stato italiano, ci si perde ancora in sterili polemiche all’interno degli operatori scolastici tra insegnanti di ruolo, «abilitati» e stipendiati direttamente dallo Stato, e insegnanti «non abilitati» e quindi precari, assunti e stipendiati dagli Enti gestori di diritto privato svizzero e in forte crisi finanziaria. La gravità della situazione richiederebbe ben altro approccio e il coinvolgimento nel dibattito delle istituzioni svizzere.

Necessario un nuovo approccio
Anzitutto va preso atto che lo Stato italiano, sia pure contraddicendo le molte affermazioni ufficiali di facciata secondo cui le collettività italiane all’estero sono risorse umane e professionali da tutelare e valorizzare, non intende più sovvenzionare come fino a qualche anno fa i corsi di lingua e cultura per i figli di cittadini italiani all’estero. Poiché le finanze pubbliche italiane sono ormai ridottissime a causa dell’enorme debito pubblico e dell’elevato livello di evasione fiscale, mi pare inutile insistere sulle richieste di finanziamenti aggiuntivi o integrativi.
Occorre anche evitare di continuare a considerare i corsi di lingua e cultura com’erano impostati trenta-quarant’anni fa. Basti pensare che i figli d’italiani di prima generazione, ancora in età scolastica, sono ormai pochissimi. La maggior parte degli italiani in età scolastica sono figli di italiani di seconda e terza generazione, che spesso non hanno nemmeno più l’italiano come lingua principale e certamente non hanno in cima ai loro pensieri un prossimo rientro in Italia. Molti di essi hanno addirittura la doppia nazionalità. Se nei decenni passati i corsi di lingua e cultura erano finalizzati a facilitare l’inserimento degli allievi nelle scuole italiane in caso di rientro dei loro genitori, questa finalità non è più attuale.
La conoscenza della lingua e della cultura italiane rappresentano sempre più un arricchimento culturale individuale, indipendente dall’eventuale rientro in Italia. L’Italia avrebbe ancora buone ragioni per sostenerlo, ma non necessariamente nei termini registrati finora. Fanno bene, sotto questo profilo, gli Enti gestori a chiedere quantomeno un contribuito finanziario alle famiglie degli allievi, ma farebbe meglio lo Stato italiano ad aprire una trattativa con la Confederazione per risolvere insieme il problema dell’insegnamento della lingua e della cultura italiane al di fuori del Cantone Ticino.

Perché non «cantonalizzare» i corsi?
Ritengo che il ripensamento dei corsi di lingua e cultura vada fatto in questo Paese ormai alla luce del plurilinguismo elvetico, del federalismo e della legge federale sulle lingue. Non capisco perché da parte italiana – e intendo Ambasciata, Consolati, Enti gestori, organi di rappresentanza, sindacati, associazioni, organi di stampa – si continui a considerare la questione di competenza esclusivamente italiana e non anche svizzera. E’ infatti anche nell’interesse della Svizzera sostenere ovunque la lingua italiana perché è una della quattro lingua nazionali e ufficiali ed è funzionale alla «coesione interna del Paese».
La Confederazione si è addirittura impegnata per legge a «rafforzare il quadrilinguismo quale elemento essenziale della Svizzera», a «promuovere il plurilinguismo individuale e istituzionale nell’uso delle lingue nazionali» e, in modo specifico a «salvaguardare e promuovere il romancio e l’italiano in quanto lingue nazionali».
Non bisogna tuttavia dimenticare che la Svizzera è uno Stato federale e che la Confederazione interviene solitamente solo in via sussidiaria. In campo linguistico e scolastico la competenza è primariamente cantonale. Occorre pertanto insistere soprattutto sui Cantoni perché si facciano carico, nelle scuole primarie e secondarie, dell’esigenza degli allievi che desiderano apprendere l’italiano. La «cantonalizzazione» dei corsi, verosimilmente in forma diversa da quella tradizionale, e più in generale dell’insegnamento della lingua e cultura italiane mi sembra una via assolutamente da esplorare, con buona pace di chi ha l’orientamento fisso su Roma.
E’ evidente che in questa prospettiva tutte le polemiche riguardanti gli insegnanti verrebbero a cadere perché sarebbero le autorità scolastiche locali a garantire la competenza di ognuno e a valutare la validità dell’insegnamento impartito nel contesto di un Paese plurilingue. D’altra parte, in questo momento, il problema principale è la salvaguardia e la valorizzazione della lingua e della cultura italiana.

Giovanni Longu
Berna, 09.07.2012