27 giugno 2012

Corsi di lingua e cultura: evitare polemiche inutili!



Sono continui i bollettini sullo stato comatoso dei corsi di lingua e cultura italiana in Svizzera. Da ogni parte si annuncia la prossima fine di questa gloriosa istituzione che non è stata in grado di adeguarsi alle nuove esigenze di una collettività che non è più quella di trenta-quarant’anni fa e di uno Stato che non è più in grado e intenzionato a sostenerla.

All’analisi delle cause si è aggiunta recentemente anche la polemica all’interno degli operatori scolastici tra insegnanti di ruolo, «abilitati» e stipendiati direttamente dallo Stato, e insegnanti «non abilitati» e quindi precari, assunti e stipendiati dagli Enti gestori di diritto privato svizzero e in forte crisi finanziaria. Non entro nel merito della polemica, che trovo francamente marginale e inutile ai fini della ricerca di una soluzione praticabile degli attuali problemi e soprattutto dell’insegnamento della lingua e della cultura italiane. Desidero invece ritornare su una proposta già presentata altre volte in questa rubrica.
Anzitutto va preso atto che lo Stato italiano, sia pure contraddicendo le molte affermazioni ufficiali di facciata secondo cui le collettività italiane all’estero sono risorse umane e professionali da tutelare e valorizzare, non intende più sovvenzionare come fino a qualche anno fa i corsi di lingua e cultura per i figli di cittadini italiani all’estero. Poiché le finanze pubbliche italiane sono ormai ridottissime a causa dell’enorme debito pubblico e dell’elevato livello di evasione fiscale, mi pare inutile insistere sulle richieste di finanziamenti aggiuntivi o integrativi.
Occorre anche evitare di continuare a considerare i corsi di lingua e cultura com’erano impostati trenta-quarant’anni fa. Basti pensare che i figli d’italiani di prima generazione, ancora in età scolastica, sono ormai pochissimi. La maggior parte degli italiani in età scolastica sono figli di italiani di seconda e terza generazione, che spesso non hanno nemmeno più l’italiano come lingua principale e certamente non hanno in cima ai loro pensieri un prossimo rientro in Italia. Molti di essi hanno addirittura la doppia nazionalità. Se nei decenni passati i corsi di lingua e cultura erano finalizzati a facilitare l’inserimento degli allievi nelle scuole italiane in caso di rientro dei loro genitori, questa finalità non è più attuale.
La conoscenza della lingua e della cultura italiane rappresentano sempre più un arricchimento culturale individuale, indipendente dall’eventuale rientro in Italia. L’Italia avrebbe ancora buone ragioni per sostenerlo, ma non necessariamente nei termini registrati finora. Fanno bene, sotto questo profilo, gli Enti gestori a chiedere quantomeno un contribuito finanziario alle famiglie degli allievi, ma farebbe meglio lo Stato italiano ad aprire una trattativa con la Confederazione per risolvere insieme il problema dell’insegnamento della lingua e della cultura italiane al di fuori del Cantone Ticino.

Perché non «cantonalizzare» i corsi?
Ritengo che il ripensamento dei corsi di lingua e cultura vada fatto in questo Paese ormai alla luce del plurilinguismo elvetico, del federalismo e della legge federale sulle lingue. Non capisco perché da parte italiana – e intendo Ambasciata, Consolati, Enti gestori, organi di rappresentanza, associazioni, organi di stampa – si continui a considerare la questione di competenza esclusivamente italiana e non anche svizzera. E’ anche nell’interesse della Svizzera sostenere ovunque la lingua italiana perché è una della quattro lingua nazionali e ufficiali ed è funzionale alla «coesione interna del Paese».
La Confederazione si è addirittura impegnata per legge a «rafforzare il quadrilinguismo quale elemento essenziale della Svizzera», a «promuovere il plurilinguismo individuale e istituzionale nell’uso delle lingue nazionali» e, in modo specifico a «salvaguardare e promuovere il romancio e l’italiano in quanto lingue nazionali».
Non bisogna tuttavia dimenticare che essendo la Svizzera uno Stato federale, la Confederazione interviene solitamente solo in via sussidiaria. Nel caso specifico, poiché la politica linguistica e scolastica è di competenza cantonale, occorre insistere soprattutto sui Cantoni perché si facciano carico, nelle scuole primarie e secondarie, dell’esigenza degli allievi che desiderano apprendere l’italiano. La «cantonalizzazione» dei corsi, verosimilmente in forma diversa da quella tradizionale, e più in generale dell’insegnamento della lingua e cultura italiane mi sembra una via assolutamente da esplorare, con buona pace di chi ha l’orientamento fisso su Roma.
E’ evidente che in questa prospettiva tutte le polemiche riguardanti gli insegnanti verrebbero a cadere perché saranno le autorità scolastiche locali a garantire la competenza di ognuno e a valutare la validità dell’insegnamento impartito nel contesto di un Paese plurilingue. D’altra parte, in questo momento, il problema principale è la salvaguardia e la valorizzazione della lingua e della cultura italiana.

Giovanni Longu
Berna, 27.06.2012

Il 1912 e la «febbre ferroviaria» svizzera



Nel 1900 c’erano in Svizzera 117.059 italiani, nel 1910 oltre 200.000. Il perché di questo straordinario incremento è dovuto soprattutto alla «febbre ferroviaria» che da qualche decennio aveva contagiato l’intero Paese. Non solo la Confederazione, ma anche i Cantoni e molte Città erano interessati alle loro ferrovie grandi, medie o piccole (funicolari, tranvie) che fossero. Le reclamavano il progresso, interessi nazionali e internazionali, i commerci, le comunicazioni, il turismo e persino il prestigio.

I principali artefici materiali delle ferrovie svizzere furono soprattutto gli italiani (minatori, muratori e manovali). In alcuni cantieri costituivano quasi il 100% della manodopera. Nel 1910 delle migliaia di lavoratori addetti alla costruzione delle ferrovie solo 101 erano svizzeri. Gli italiani provenivano inizialmente soprattutto dalle regioni del Nord (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), poi anche dal centro e dal sud dell’Italia. 
Il 1912, cent’anni fa, fu un anno «ferroviario» straordinario. Le principali linee ferroviarie erano già in esercizio (si pensi alle ferrovie del San Gottardo e del Sempione) o stavano per essere ultimate. Era appena terminata l’importante galleria dell’Hauenstein per il collegamento tra Olten e Basilea e la galleria del Lötschberg sarà inaugurata nel 1913. Alcune ferrovie minori erano da poco entrate in esercizio, ad esempio la Bodensee-Toggenburg, la Biasca-Acquarossa, la Lugano-Cadro-Dino, la celebre funicolare Cassarate–Monte Brè, la Mittelthurgau- Bahn, numerose altre erano ancora in costruzione e altre ancora, poche, stavano per essere iniziate.

Ferrovie centenarie
Tra le ferrovie che quest’anno festeggiano il centenario, almeno tre meritano un ricordo particolare, la ferrovia della Jungfrau già ricordata in questa rubrica (cfr. L’ECO del 29.2.2012), la ferrovia Lugano-Ponte Tresa, fortemente voluta soprattutto dai luganesi e la ferrovia Zweisimmen-Lenk (nel Cantone di Berna), una tratta della rinomata linea Montreux-Berner Oberland, passando per Interlaken e Lucerna.
In realtà furono diverse le ferrovie o le tratte minori che vennero inaugurate nel 1912, ad esempio la Berna-Zollikofen, la Sursee-Triengen (nel Cantone di Lucerna), la Forchbahn (nel Cantone di Zurigo), la tratta Chur-Disentis/Mustér della ferrovia retica, la prima tratta della Säntisbahn da Appenzello a Wasserauen, ecc.

La rete ferroviaria svizzera non era ancora terminata, ma era già una delle più dense del mondo e la «febbre ferroviaria» non dava segni di stemperarsi. Durerà per almeno un ventennio nonostante il rallentamento dovuto alla prima guerra mondiale. Nel complesso la rete ferroviaria svizzera negli ultimi cent’anni non è cresciuta di molto rispetto al 1912, sebbene alcune delle ferrovie minori di allora non siano più in esercizio.

La «febbre ferroviaria»
Per avere un’idea della «febbre ferroviaria» dell’epoca, basti pensare che spesso il tracciato originale di una ferrovia veniva più volte modificato in seguito alle richieste di deviazioni o prolungamenti da parte di Cantoni e Città che temevano di essere lasciati fuori dalla corrente dei traffici e del turismo. E ancora, è vero che la rete ferroviaria svizzera doveva tener conto soprattutto delle esigenze interne, ma non trascurava affatto gli aspetti internazionali. Al riguardo è significativo quanto scriveva nel 1912 Gazzetta Ticinese (che riferiva un articolo della Gazette de Lausanne) in merito all’interesse della Svizzera a una ferrovia che gli italiani progettavano di costruire in Africa dal porto di Tripoli (da poco conquistata) al centro e al sud dell’Africa.
Un tale interesse era giustificato, scriveva il quotidiano ticinese, in quanto, «com’è noto, la Svizzera è la piattaforma girevole del sistema ferroviario dell’Europa centrale», ma soprattutto per la considerazione seguente: «Il traffico africano che metterà capo a Tripoli a destinazione dell'Europa centrale e settentrionale prenderà naturalmente la direzione dei porti italiani, sopratutto di Genova e di là passerà per le linee internazionali che attraversano la Svizzera.
La costruzione della grande linea Tripoli-Tschad avrà dunque un’influenza favorevolissima sullo sviluppo del traffico internazionale svizzero, e la conquista della Tripolitania eviterà alla Confederazione la perdita d'un traffico destinato a prendere rapidamente una considerevole importanza».
Va infine ricordato che per esaltare il progresso registrato in tutti i campi dalla Svizzera, nel 1912 iniziavano a Berna i lavori per la grande esposizione nazionale del 1914.

Giovanni Longu
Berna, 27.6.2012