18 gennaio 2012

L’elezione di Motta in Consiglio federale e l’italianità

Cent’anni fa, il 14 dicembre 1911 veniva eletto consigliere federale Giuseppe Motta, uno dei politici più importanti del periodo che precedette la grande guerra fino alla seconda guerra mondiale. Cent’anni più tardi, ancora il 14 dicembre, è stato (ri)eletto a Berna il Consiglio federale. Molti italofoni avevano sperato invano che questo centenario fosse di buon auspicio per la Svizzera italiana, ma così non è stato. Sarà per questa delusione o per altri motivi, fatto sta che nell’opinione pubblica è passato in secondo piano il ricordo dell’elezione brillante (184 voti favorevoli su 199 voti validi e 206 votanti) di Giuseppe Motta tra i sette saggi.

Consigliere federale. Giuseppe Motta
Può essere illuminante, nell’ottica dei rapporti italo-svizzeri e della recente discussione sull’italianità in Svizzera, ricordare il momento storico di quell’elezione, perché avvenne al termine del risorgimento italiano (a cui parteciparono anche numerosi ticinesi) e alla vigilia dell’avvento del fascismo, che creerà non pochi problemi anche in Ticino. Per valutarne l’importanza è necessario anzitutto ricordare che la Svizzera italiana stava per precipitare in quel momento in una grave crisi sia per ragioni interne (lotte intestine tra partiti e correnti politiche) e internazionali. Basti pensare che da pochi anni era stato chiuso il più grave incidente diplomatico tra l’Italia e la Svizzera (il caso Silvestrelli), ma rigurgiti d’irredentismo giungevano ancora in un Ticino che si sentiva ben poco considerato a livello federale.

Il disagio dei ticinesi…
Profondamente intrisi di italianità e al tempo stesso convinti svizzeri, i ticinesi provavano un disagio crescente nei confronti dei «confederati», che in Ticino, pur essendo una esigua minoranza, si comportavano sempre più da padroni (conducevano aziende industriali e commerciali, esercitavano numerose attività turistiche, dirigevano gran parte dei servizi federali dislocati in Ticino; avevano le loro associazioni, le loro scuole, i loro giornali) e non mostravano alcun interesse a integrarsi. Gli intellettuali ticinesi lamentavano anche un imbastardimento linguistico e culturale del Ticino e accusavano la Confederazione di non aver alcun riguardo della terza lingua nemmeno nei servizi federali presenti in Ticino e nella corrispondenza con le autorità cantonali. La Svizzera italiana era inoltre sottorappresentata ai vertici dell’amministrazione federale e assente ormai dal 1864 dal Consiglio federale.
Come se ciò non bastasse, i ticinesi venivano accusati dai confederati di prestare il fianco con la loro arrendevolezza alla propaganda nazionalista e irredentista italiana e all’attivismo in questo senso della numerosa colonia italiana presente in Ticino.

… tra italianità e…
In effetti, in questa difficile situazione, molti ticinesi sentivano ancor più forti i vincoli che li legavano all’Italia e apprezzavano la solidarietà degli italiani. Quando nel settembre 1911 fu organizzata dagli italiani residenti nel Ticino una grande manifestazione a Lugano per ringraziare i ticinesi che combatterono per l’Italia il successo fu enorme. Scrisse al riguardo il Corriere del Ticino: «la popolazione luganese ha partecipato in massa al comune tripudio, sentendosi lusingata dalla prova di internazionale gratitudine tributata dai figli d’Italia a quei Ticinesi che hanno pugnato per la redenzione del grande Paese amico». E la Gazzetta Ticinese non esitava a qualificare la manifestazione «pro Ticinesi» come «un avvenimento storico!», che contribuiva a rafforzare l’amicizia e la fratellanza dei due popoli.
Come detto, non tutti, soprattutto nella Svizzera tedesca ma anche nel Ticino, apprezzavano questo atteggiamento dei ticinesi. Contro gli «italofobi», guidati in Ticino dal bisettimanale in lingua tedesca Tessiner Zeitung, la Gazzetta Ticinese ritenne utile ripubblicare un articolo apparso sul Corriere della Sera nel novembre 1911, «dovuto alla penna autorevole d'una fra le più eminenti personalità del mondo politico ed intellettuale, non pure d'Italia, ma del mondo: Luigi Luzzatti». Questi lamentava una sorta di insurrezione di tanti giornali soprattutto svizzero-tedeschi, che irridevano all’Italia, che si auguravano una «vittoria turca ai nostri danni e persino a nostra umiliazione» [il riferimento è alla guerra italo-turca per la conquista della Tripolitania], che raccoglievano «tutte le false notizie a nostro detrimento» e inventavano perfino«la fiaba che l’Italia con le sue presuntuose ambizioni militari voglia annettersi al Cantone Ticino…».
Com’è possibile, si domandava Luzzatti, «insorgere così contro un popolo vicino, che non ha mai usato né abusato della sua forza, e a cui la Svizzera seriamente non può rimproverare né un atto né un cenno di scortesia?». E affermava che gli italiani sono pieni di ammirazione per la Svizzera, per il suo patriottismo, per le sue istituzioni, per la sua economia, per il suo federalismo «che stringe e non allenta il vincolo comune», per le sue forme di democrazia (rappresentanza proporzionale, referendum e iniziativa popolare), ecc. E poi, «mai l’Italia ha pensato a offendere la sua indipendenza, a menomare la sua dignità, a oltraggiarla con parole ambigue, a sfidarla con disegni di annessione sul vicino Cantone ticinese».

… elvetismo
Tant’è che nel Ticino, mentre cresceva lo scoramento nei confronti della Confederazione, cresceva anche la consapevolezza del pericolo rappresentato dai rigurgiti del nazionalismo italiano post-risorgimentale e di un possibile irredentismo ticinese. E’ vero che il rappresentante della Svizzera a Roma, Giovanni Battista Pioda, riteneva ingiustificato parlare di «irredentismo nel Ticino» perché «noi siamo svizzeri e nessuno crede che si starebbe meglio altrimenti», ma i confederati e anche molti ticinesi non erano dello stesso avviso.
Lo storico Marcacci ha riassunto bene lo spirito di quei tempi con queste parole: «negli anni precedenti la prima guerra mondiale i ticinesi si sentivano come accerchiati e minacciati dal pangermanesimo a nord e dall'irredentismo a sud, con una popolazione autoctona in declino e con i confederati da una parte e gli italiani dall’altra che si arrogavano il diritto di dibattere dell’identità e degli interessi del Ticino».
Per attenuare il forte sentimento d’italianità e, soprattutto, stemperare le critiche dei confederati circa la fedeltà dei ticinesi alla Confederazione, in alcuni ambienti si cercò allora di mettere in luce l’«elvetismo» del Ticino. Il Pioda invitava i corregionali anche a non dubitare delle «buone intenzioni» del Consiglio federale rispetto al Ticino, sebbene in quel momento nessun consigliere federale conosce così bene la lingua italiana «da rendersi conto di ciò che è e desidera il Ticino». Ciononostante «nel nostro Cantone si dubita talvolta dei sentimenti dei confederati d’oltre Gottardo. E per questo è bene che il Ticino abbia un rappresentante nel supremo potere federale».

L’elezione di Giuseppe Motta e l’italianità
In questa situazione, la candidatura e la successiva elezione in Consiglio federale del ticinese Giuseppe Motta fu provvidenziale. Già la sua candidatura, subito dopo la morte (27.11.1911) del predecessore Josef Anton Schobinger, esponente della destra cattolica, fu sostenuta ampiamente non solo dall’opinione pubblica ticinese e confederata, ma dalla stragrande maggioranza della classe politica. Ma soprattutto la sua elezione fu interpretata unanimemente come un segno importante dell’attenzione della Confederazione alla Svizzera italiana e come una garanzia di fedeltà di quest’ultima alla patria comune.
I giornali confederati e ticinesi dell’epoca, oltre a riconoscere all’avvocato e consigliere nazionale di Airolo Giuseppe Motta le qualità tipiche di un ottimo uomo di Stato, vedevano in lui anche la personalità giusta in grado di stringere i legami tra il Ticino e la Confederazione.
Il 1° dicembre 1911, Popolo e Libertà, il quotidiano del Partito conservatore ticinese, nel proporre una specie di rassegna stampa dei principali quotidiani confederati riassumeva l’opinione generale in questo titolo: «La candidatura “ticinese” al Consiglio Federale si impone come atto di saggezza e di politica nazionale».
Oltre alle motivazioni di carattere personale e di politica interna, la candidatura di Motta assumeva in quel momento anche un significato di politica internazionale, sottolineato dal già ricordato Pioda a Roma: «Altro fattore militante a favore della candidatura Motta si è che ci troviamo alla vigilia dei trattati coll’Italia a proposito della linea del Gottardo. L’on. Giolitti convocherà probabilmente le Camere verso la fine del gennaio o al principio di febbraio, per discutere la convenzione. La presenza di uno svizzero italiano nel governo federale è di capitale importanza».
Quando il 14 dicembre 1911 Giuseppe Motta venne eletto brillantemente in Consiglio federale, soprattutto per la stampa ticinese si trattò non solo di «un fausto evento», ma di un «momento storico». Anche la stampa italiana salutò con soddisfazione l’elezione del ticinese. Il Corriere della Sera di Milano ricordò, che il Motta (uomo di profonda coltura, brillante intelligenza, energia eccezionale, attività indefessa ed eccellente oratore) «in questi ultimi tempi, in special modo ha condotto un'intensa campagna a difesa dell’italianità nel Ticino».
Anche il Secolo di Milano sottolineò come l’elezione del ticinese costituisse «un atto di saggezza politica nazionale, in quanto rende più saldi i vincoli che legano il Ticino alla madre patria, ed al tempo stesso salvaguarda il popolo ticinese - oltreché i suoi interessi – i diritti della sua lingua, l’italiana, e della sua schiatta italica».
Purtroppo un simile evento non si è ripetuto cento anni più tardi. Ma ripensare al contesto storico interno e internazionale dell’elezione di Motta, alla profonda convinzione e all’ampio sostegno che ebbe la sua candidatura per il Consiglio federale potrebbe essere utile perché si capisca finalmente quanto già sostenuto 100 anni fa, ossia che la rappresentanza nel Consiglio federale della Svizzera di cultura italiana è indispensabile per salvaguardare non solo i diritti della lingua e della cultura italiana ma anche la stessa coesione nazionale.

Giovanni Longu
Berna, 18.12.2012