24 ottobre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 4. Italianità fragile e divisa


Con la nascita dello Stato federale (1848) ogni Cantone era chiamato a fornire il proprio contributo per il benessere di tutti secondo la massima: «tutti per uno – uno per tutti». Il Ticino era disposto a dare il suo, ma senza rinunciare alla proprie caratteristiche peculiari e alla sua «missione». Così l’aveva indicata nell'agosto 1848 in Gran Consiglio il segretario di Stato Giovan Battista Pioda: «Italiani, abbiamo una missione da compiere nella Svizzera, quella di essere un punto intermedio di collegamento in una e di divisione delle europee potenze, di custodire intatte le alti vette delle alpi, di mantenere puri come le limpide sue fonti i sentimenti d’indipendenza, di libertà, di democrazia (…). Questa è la nostra missione, bella abbastanza per essere degna dell'Italia che rappresentiamo nella Confederazione». In altre parole, il rapporto con l’Italia, anche nella nuova Confederazione, era irrinunciabile.
La missione del Ticino «italiano» sembrava pienamente rispettata dalla nuova Costituzione federale, che considerava l’italiano come una delle tre lingue nazionali, e dall’Assemblea federale, che il 16 novembre 1848 eleggeva nel primo Consiglio federale anche il ticinese Stefano Franscini. E questi, quasi volesse sottolineare la parità linguistica e culturale delle principali etnie, il giorno del giuramento pronunciò davanti all’Assemblea federale un breve discorso in italiano, ringraziando per l’elezione in Consiglio anche di un rappresentante della Svizzera italiana. Qualche anno più tardi, all’inaugurazione (15 ottobre 1855) del Politecnico federale di Zurigo che aveva contribuito a fondare, pronuncerà ancora un discorso in italiano, «auspicando che anche la terza lingua nazionale trovi un adeguato riconoscimento in seno al nuovo istituto».

Parità più formale che sostanziale
In realtà la parità e i riconoscimenti erano più formali che sostanziali. L’italiano era stato inserito come lingua nazionale un po’ casualmente nella Costituzione, in uno degli ultimi articoli (109) sotto il titolo V «Disposizioni diverse». Franscini venne eletto al terzo turno di scrutinio con un solo voto oltre il minimo richiesto (68 voti su 132 votanti). Nella sua instancabile attività di governo incontrò non pochi ostacoli in seno al Consiglio federale (non solo a causa della sua scarsa padronanza del tedesco) e finì per essere poco a poco isolato. Deluso, pensava di ritirarsi dal governo per la fine del 1857 sperando di ottenere una cattedra di statistica al Politecnico federale di Zurigo, ma dalla Direzione dello stesso non venne nemmeno considerato proponibile. Morì a Berna prima del suo ritiro il 19 luglio 1857.
Il principale «difetto» di Franscini, almeno agli occhi di molti confederati e di alcuni colleghi di governo, era probabilmente quello di provenire da un Cantone ch’egli considerava una «particella d’Italia libera», che aveva votato contro la nuova Costituzione federale e visibilmente troppo filoitaliano nella questione dei rifugiati (che secondo molti confederati e consiglieri federali andavano espulsi e basta).
Non si trattava solo di divergenze d’opinione, ma di mentalità. In una lettera all’amico e confidente Giovan Battista Pioda del 6 novembre 1848, ossia pochi giorni prima della sua elezione in Consiglio federale, Franscini scriveva a proposito del contrasto tra il Ticino e gli svizzeri tedeschi sulla questione degli esuli italiani: «Facevo conto di scriverti un po’ a lungo (…) per non lasciar chiacchierar troppo da soli tanti chiacchieroni di tedeschi, che non finiscono di menar la lingua sul nostro conto, e di tagliarci i panni addosso».
Nella sua posizione di consigliere federale sapeva di svolgere una funzione delicata di mediatore al di sopra delle parti, ma i suoi tentativi di mediazione erano spesso fraintesi sia dai ticinesi che dai confederati. Per i primi, Franscini appariva talvolta come un «supino portavoce dell’indisponibilità bernese, se non quasi un traditore» e forse per questo non venne rieletto in Consiglio nazionale nel 1854 e dovette essere «ripescato» dal Cantone di Sciaffusa. Per molti confederati, e persino per qualche collega di governo, era ritenuto un interlocutore inaffidabile e partigiano. Eppure era assolutamente convinto della bontà del federalismo e della coesione nazionale, e non perdonava certo agli italiani il «difetto di liberalismo» o rinunciava a dire «semplici verità» ai corregionali perché «cosi reputo di amare la patria quanto più ardisco parlarle in ogni cosa la verità».

I successi di Giovan Battista Pioda, successore di Franscini
Giovan Battista Pioda (1808-1882)
Alla morte improvvisa di Franscini (19 luglio 1857) venne chiamato a succedergli per continuarne l’opera (censimenti, statistica, politecnico federale, ecc.) un altro ticinese, l’amico Giovan Battista Pioda, che resterà in Consiglio federale fino agli inizi del 1863. Fu indubbiamente più apprezzato e sostenuto del predecessore, ma resosi vacante il posto di rappresentante della Svizzera presso il Regno d’Italia, preferì dimissionare (gennaio 1863) da consigliere federale e trasferirsi in Italia come ministro plenipotenziario nelle varie capitali del Regno, dapprima a Torino (1864), poi a Firenze e a Roma. Del resto, come in molti intellettuali dell’epoca, anche in lui, uomo di legge e fine diplomatico, ma anche grande umanista, l’Italia delle grandi città d’arte esercitava una forte attrazione.
Nella nuova funzione di ministro plenipotenziario della Confederazione, Pioda sperava di mettere al servizio del suo Paese le sue doti diplomatiche e di contribuire a rafforzare i rapporti italo-svizzeri, in un periodo in cui si stavano gettando le basi di una grande collaborazione tra i due Paesi confinanti soprattutto in materia di collegamenti ferroviari transalpini. In effetti, sostenuto anche dall’illustre esule Carlo Cattaneo, Pioda riuscì non solo a convincere il governo italiano a scegliere la variante del San Gottardo, ma anche a far concludere tra la Svizzera e l’Italia la convenzione per la sua realizzazione (15 ottobre 1869).
Un altro importante accordo italo-svizzero venne stipulato in materia di emigrazione: il «Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia» del 22 luglio 1868, tuttora valido. Esso, oltre alla dichiarazione di «amicizia perpetua e libertà reciproca di domicilio e commercio» tra i due Paesi, prevedeva che in ogni Cantone della Confederazione Svizzera, «gli Italiani saranno ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come lo sono o potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni. E reciprocamente gli Svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali. Di conseguenza, i cittadini di ciascuno dei due stati, non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte dei territorio, senza che pei passaporti e pei permessi di dimora e per l’esercizio di loro professione siano sottoposti a tassa alcuna, onere o condizione fuor di quelle cui sottostanno i nazionali».

Ticinesi e italiani: storie parallele
La facilità dell’ingresso e del soggiorno degli italiani in Svizzera e degli svizzeri in Italia segnava l’avvio di una collaborazione tra i due Paesi che non si sarebbe mai più interrotta. Per la Svizzera, l’afflusso di tanti italiani, soprattutto a partire dalla costruzione della ferrovia del San Gottardo, avrebbe potuto significare anche il rafforzamento della sua componente «italiana», ma non lo è stato, se non in misura molto modesta. Ticinesi e italiani, fuori del Ticino, seguirono di fatto storie parallele e come espressioni separate dell’italianità non riuscirono mai a sommarsi e a raggiungere insieme una massa critica sufficiente per ottenere la piena parificazione delle tre lingue e culture a tutti i livelli di rappresentanza nella politica e nella società.
E’ pur vero che nonostante queste storie parallele, i legami del Ticino con la sua madre «naturale», l’Italia, non sono mai stati interrotti, nemmeno quando, «dagli anni sessanta dell’Ottocento (…) il solo parlare dell’italianità del Ticino veniva interpretato dagli svizzeri come un segno della volontà del Cantone di tornare a far parte politicamente delle terre italiane» (Crespi Reghizzo). A questa insinuazione i ticinesi rispondevano sdegnati chiamando «matrigna» la madre «adottiva», la Confederazione, che non si occupava dei loro problemi, ma si guardavano bene dall’accettare le profferte di aiuto provenienti dalla madre «naturale». Nei suoi confronti erano divenuti sempre più diffidenti e verso gli italiani si consideravano «svizzeri».
«Italia e Svizzera», scultura alla stazione ferroviaria di
Chiasso, dell’artista Margherita Osswald Toppi (1933)
In realtà i ticinesi si sentivano fortemente penalizzati sia come «italiani» e sia come «svizzeri», ossia «figli di due madri». Ciononostante, con tenacia, specialmente quando i rapporti con Berna erano più tesi, il Ticino continuava a rivendicare con vigore il suo diritto all’italianità. Purtroppo inutilmente. Tanto è vero, ad esempio, che dopo le dimissioni di Pioda, la rappresentanza ticinese in Consiglio federale s’interruppe per quasi mezzo secolo, dal 1864 al 1911.
Pioda morì a Roma il 3 novembre 1882, lo stesso anno dell’inaugurazione della ferrovia del San Gottardo, la prima grandiosa impresa della collaborazione italo-svizzera. Molto malato, non poté partecipare al viaggio inaugurale, ma solo al pranzo ufficiale organizzato a Milano. Narrano le cronache che nei discorsi ufficiali furono elogiati un po’ tutti, ma non lui, che pure era stato uno dei principali sostenitori del progetto.
Giovanni Longu
Berna 24.10.2012

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