26 ottobre 2011

Le suore, angeli custodi degli emigrati italiani



La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera è stata ampiamente studiata e ancora si continua a scrivere sulla sua origine e il suo sviluppo. Queste ricerche e questi studi mettono anche in luce numerosi personaggi che hanno influito sull’evoluzione della collettività immigrata. Tra questi personaggi, nelle ricerche più approfondite, si trovano anche alcuni missionari soprattutto bonomelliani e scalabriniani. Raramente capita di leggere pagine che ricordano le suore che da oltre cent’anni affiancano i missionari nella loro attività pastorale e sociale.

Eppure, le suore meriterebbero un ricordo e una menzione più accurata. Pur non essendo forse mai state protagoniste, perché la storia (scritta soprattutto da uomini) ha assegnato loro un rango subalterno, hanno svolto in seno all’immigrazione un ruolo di primo piano. Basti pensare all’istruzione dei figli degli immigrati, alla cura degli infortunati e dei malati, all’assistenza ai carcerati, alle ragazze, agli anziani, agli orfani, all’attività pastorale a fianco dei missionari.

Le Suore di San Giuseppe in Svizzera
L’occasione per parlarne è il recente 180° anniversario di fondazione (15 ottobre 1831) della Congregazione delle Suore di San Giuseppe di Cuneo. La loro origine, a dire il vero, risale addirittura alla metà del Seicento in Francia per iniziativa del gesuita Jean Pierre Médaille. Sarebbe troppo lungo rievocarne qui anche sommariamente la storia e la loro ramificazione in numerose congregazioni. Merita invece soffermarci sulla Congregazione di Cuneo, perché le prime suore che giunsero in Svizzera per affiancare i missionari nell’opera di assistenza religiosa degli immigrati italiani provenivano proprio da questa Congregazione. Da allora hanno accompagnato fino ad oggi, a piccoli gruppi, la vita della collettività italiana immigrata.

Fu il vescovo di Cremona monsignor Geremia Bonomelli a richiedere la loro opera nel periodo più frenetico della costruzione della rete ferroviaria svizzera. Le loro prime destinazioni, nel 1900, furono il Cantone dei Grigioni, durante la costruzione della linea ferroviaria dell’Albula (a Surava-Preda e Bergun), e Basilea, importante crocevia di immigrati. La loro presenza è attestata poi nel 1903 anche nel Cantone di San Gallo durante il traforo del Ricken (a Kaltbrunn) e dal 1906 nel Vallese e nei Cantoni di Berna e Soletta per tutta la durata dei grandi cantieri per la costruzione delle ferrovie del Sempione, del Lötschberg (a Kandersteg, Goppenstein, Naters-Brig) e della linea Grenchen-Moutier (a Grenchen, nella famosa baraccopoli chiamata Tripoli). A Berna, quale ultima sede, giunsero molto più tardi, nel 1960.

Suore di San Giuseppe di Cuneo a Goppenstein
 Senza esagerazione si deve dire che l’epoca delle grandi infrastrutture ferroviarie fu un periodo eroico non solo per i minatori italiani ma anche per le Suore di San Giuseppe. La prima richiesta alla Superiora generale non lasciava dubbi: doveva trattarsi di «tre suore di buono spirito, disposte al lavoro e al sacrificio, per fare un po’ di bene presso gli operai italiani».

Ambiente spesso aspro e anticlericale
Ben presto le prime arrivate si resero conto di quanto l’ambiente naturale fosse «inospitale e selvatico, Siberia dei Grigioni». Non era meglio nelle alture del Vallese, soprattutto a Goppenstein, dove «un nemico insidioso minaccia il Paese da novembre a maggio e lo tiene in apprensione continua: la valanga». I cantieri erano situati in alta montagna e le baracche per gli operai, ma anche gli ambulatori, gli ospedali, gli asili e le scuole, non potevano essere molto distanti. Anche le suore partecipavano a tutti i disagi ambientali.
A creare difficoltà al lavoro dei missionari e delle suore era tuttavia spesso l’ambiente umano, soprattutto al di fuori delle zone a prevalenza cattolica e quando sul posto erano presenti molti socialisti e anarchici, generalmente molto critici nei confronti della Chiesa e della religione. Le suore in particolare erano spesso oggetto di lazzi e insulti.
Un episodio drammatico legato all’anticlericalismo di immigrati socialisti si manifestò a Kandersteg in occasione della cerimonia funebre delle vittime della tragedia del Lötschberg del 1908. Racconta una fonte: «Non si voleva che l’acqua santa bagnasse la bara, non volevano il drappo nero, non la croce, non il crocifisso e tantomeno il sacerdote (…). Il missionario fu minacciato durante la messa, dovette ritirarsi e chiudersi in casa senza accompagnare il feretro al camposanto. Anche le suore dovettero tornare indietro per la situazione pericolosa e drammatica in cui si trovarono».

Attività sociali e pastorali delle suore
Le Suore di San Giuseppe si adattavano con coraggio e senza tentennamenti alla difficile situazione. Sapevano di essere missionarie in prima linea e con grande fede e spirito di carità seppero far fronte ai loro molteplici compiti nonostante le difficoltà. Oltre all’assistenza ai feriti e ammalati negli ospedali, gestivano asili per i più piccoli, vere e proprie scuole per i bambini più grandi (talvolta con centinaia di allievi) e laboratori per le ragazze e, soprattutto, riuscivano a curare l’assistenza religiosa di molti lavoratori. Non va dimenticato che le baraccopoli dei grandi cantieri ferroviari ospitano per diversi anni talvolta oltre tremila persone.
Grazie alle suore, proprio a Kandersteg nel 1910 il vescovo di Novara riuscì ad amministrare la cresima a circa 200 ragazzi e adulti. Le difficoltà che dovettero superare, vista l’opposizione non solo dei socialisti e degli anarchici ma anche dei protestanti furono enormi, «tanto da scoraggiare del tutto – scrisse una suora nel suo diario – se non avessimo avuto piena fiducia nell’aiuto di Dio».

Come angeli custodi
Le Missioni di montagna avevano di solito la stessa durata dei grandi cantieri. Terminati i lavori in un posto si apriva ben presto un altro cantiere altrove e questo per tutta la durata della costruzione della rete ferroviaria svizzera, ossia fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Con la chiusura di un cantiere e la smobilitazione della Missione degli italiani anche le suore dovevano partire. Scrisse la stessa suora: «Al servizio dei lavoratori emigrati, nomadi con o senza famiglia, le suore fissavano o levavano le loro tende man mano che sorgevano o si muovevano le baracche». Durante l’intero periodo delle costruzioni ferroviarie seguirono praticamente tutte le vicende umane, quelle drammatiche ma anche quelle gioiose, degli immigrati italiani in Svizzera. Erano come angeli custodi che li seguivano ovunque, soprattutto là dove maggiore era il bisogno.


Le ultime due Suore di San Giuseppe di Cuneo in Svizzera,
presso la MCI di Berna: Suor Albina M. Migliore e suor
Barbara Maccagno, oggi impegnate soprattutto nella pastorale.
  Negli acquartieramenti in prossimità dei grandi cantieri ferroviari le suore erano adibite soprattutto all’assistenza negli ospedali e all’educazione dei più piccoli, ma non trascuravano affatto l’assistenza spirituale perché grandi erano «le miserie morali dell’ambiente, l’ignoranza supina in fatto di religione» che incontravano visitando le case degli immigrati. Di fronte a tanta miseria e sofferenza, si legge in alcune cronache, ciò che stava maggiormente a cuore delle suore era il conforto spirituale da dare ai più sofferenti. Grazie a questa loro dedizione, frutto di fede e carità, riuscirono spesso a far avvicinare alla fede e alla religione anche adulti sani. Tant’è che furono regolarizzati molti matrimoni e amministrati molti battesimi e cresime.
La delicatezza del loro compito si manifestava soprattutto nelle Missioni di città, specialmente in quella di Basilea. Le suore, racconta una fonte, cercavano il contatto con gli italiani «nei sobborghi più poveri, più luridi: purtroppo gli italiani non potevano trovarsi che in quelli. Eccole a contatto di gente che in patria avrebbero schivato per motivi di prudenza, in mezzo a famiglie irregolari e disordinate».

Contributo fondamentale
Le cronache del primo decennio della permanenza delle Suore di San Giuseppe svelano non solo alcuni aspetti noti ma poco circostanziati dell’immigrazione italiana di quel periodo, ma anche la grandezza spirituale e morale dei missionari e delle suore che fornirono con ogni mezzo la massima assistenza possibile a quegli immigrati, il più delle volte abbandonati a sé stessi. A parte gli ambienti anticlericali menzionati, che rimasero ostili all’opera dei missionari e delle suore, numerose fonti attestano l’apprezzamento e la riconoscenza nei loro confronti da parte di tutti i beneficiari più diretti della loro assistenza.
Non ha senso chiedersi come sarebbe evoluta l’immigrazione italiana in Svizzera senza le Missioni e senza le suore, ma è innegabile che le une e le altre abbiano contribuito probabilmente più di quel che appare allo sviluppo di una comunità spirituale, culturale e sociale che ha influito notevolmente sullo sviluppo dell’intera società svizzera.

Giovanni Longu
Berna 26.10.2011