12 ottobre 2011

Cercavamo braccia e sono venuti…

In questo periodo preelettorale svizzero è inevitabile che anche il tema dell’immigrazione sia oggetto di discussione, anche se questa volta in tono minore, ad eccezione dell’Unione democratica di centro (UDC), la destra radicale svizzera, che ne ha fatto un argomento centrale. Per gli altri partiti l’argomento interessa solo marginalmente, preferendo affrontare singoli aspetti quali il tipo di immigrati da preferire, l’integrazione, la libera circolazione e, nel caso di tutti i partiti ticinesi, il numero, l’attività e il salario dei frontalieri.
Il tema dell’immigrazione è comunque sempre d’attualità. Qualche giorno fa mi ha colpito un titolo: «Sie kommen, um zu gehen – und bleiben», ossia vengono di passaggio e invece restano. A prescindere dal contenuto, riferito a uno studio su un campione di stranieri di recente immigrazione, mi ha colpito la formulazione del titolo, che rispecchia ampiamente un modo diffusissimo di interpretare l’immigrazione in questo Paese, anche quella italiana. L’idea è essenzialmente questa: gli stranieri chiedono, la Svizzera risponde; gli stranieri cercano, la Svizzera dà. Non è un’impostazione storicamente corretta.

Max Frisch e gli stranieri
Correttamente, nel 1965, scriveva Max Frisch ai suoi concittadini: «Abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini». Il grande scrittore vedeva bene la dinamica dell’immigrazione, soprattutto quella italiana: la Svizzera chiama, l’Italia risponde. Storicamente, infatti, non furono gli italiani che si precipitarono ai valichi di frontiera con la Svizzera per chiedere un lavoro, ma fu sempre questo Paese ricco di progetti e d’iniziative ma povero di manodopera indigena a «chiamare» lavoratori stranieri.
Purtroppo Frisch ha avuto pochi seguaci perché la lettura che si dà abitualmente del fenomeno migratorio è esattamente inversa. Sembrerebbe quasi che gli stranieri (italiani) non solo non abbiano bussato alla porta prima di entrare ma abbiano addirittura forzato la serratura. Eppure non andrebbe dimenticato che persino nell’epoca più liberale della storia svizzera, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, le frontiere erano aperte perché la Svizzera le lasciava intenzionalmente aperte. Tanto è vero che allo scoppio della guerra le ha chiuse in maniera praticamente ermetica e da allora ha sempre posto condizioni molto rigide soprattutto per il soggiornare.
Eppure, per citare solo qualche esempio su una letteratura molto vasta, nel 1981, in un opuscolo della Commissione federale per i problemi degli stranieri intitolato «Giovani stranieri e associazioni giovanili: un problema?» si poteva leggere proprio all’inizio del primo capitoletto: «Cercavano lavoro…» con questa spiegazione: «I coabitanti stranieri, provenienti in gran parte dai paesi mediterranei, sono qui perché vogliono lavorare. Queste donne e questi uomini non sono venuti, il più delle volte, di loro spontanea volontà. Hanno dovuto farlo per assicurarsi un’esistenza. A casa, nella loro patria, non avevano trovato lavoro e le loro piccole aziende agricole rendevano troppo poco per nutrire un’intera famiglia». Così era visto in generale il fenomeno migratorio.
Ad onor del vero, forse avvertendo la fragilità di una tale ricostruzione, gli autori di quell’opuscolo aggiungevano: «Non pochi tra loro furono chiamati da noi, perché i paesi industriali del nord avevano bisogno di manodopera…».

Calmy-Rey e l’immigrazione italiana
Nel 2011, anche la Presidente della Confederazione Micheline Calmy-Rey sembra avere qualche difficoltà a ripercorrere la vera storia dell’immigrazione italiana. Nel suo saluto agli italiani in occasione del 150° dell’unità d’Italia, ne ricostruisce così a grandi tratti l’evoluzione:
«Negli anni a cavallo delle rivoluzioni del 1848/49, molti rifugiati italiani e grandi personalità del Risorgimento (…) trovarono accoglienza in Svizzera. La seconda metà del XIX secolo segnò poi l’inizio della prima ondata immigratoria nel nostro Paese. Si passò dai circa 10.000 immigrati italiani nel 1860 ai 117.000 nel 1900 e agli oltre 200.000 nel 1910. (…) Alla fine della seconda guerra mondiale, allo scopo di allentare la situazione politica interna e sociale, l’Italia favorì l’emigrazione; oltre 100.000 italiani raggiunsero la Svizzera nel 1947 e altrettanti l’anno successivo. La comunità italiana continuò a crescere fino al 1975, quando con 573.085 persone registrate rappresentava più dei due terzi della popolazione straniera residente in Svizzera».

E’ vero che a questo punto la Presidente della Confederazione sente il bisogno di ringraziare gli italiani, che «hanno contribuito sensibilmente al rapido aumento del benessere nel nostro Paese», ma la sua ricostruzione storica di questo contributo è imprecisa e lacunosa.

Qual è stata la vera dinamica migratoria?
La dinamica dell’immigrazione italiana nella seconda metà dell’Ottocento è dovuta soprattutto alla volontà della Svizzera di sviluppare la propria rete ferroviaria, per esigenze interne e internazionali. Per realizzare tutti i grandi progetti la Svizzera, non disponendo della manodopera indigena necessaria, dovette cercarla all’estero, soprattutto in Italia. E a decine di migliaia vennero chiamati minatori, sterratori, carpentieri, manovali… per realizzare non solo le grandi gallerie ma anche le rampe di accesso, i ponti e tutte le altre infrastrutture della rete ferroviaria e stradale.
Quando tra la prima e la seconda guerra mondiale l’economia svizzera tirava poco e non aveva bisogno di molta manodopera, pochissimi italiani vennero in Svizzera semplicemente perché non ne erano richiesti di più!
La Presidente della Confederazione ha giustamente ricordato che la seconda ondata importante dell’immigrazione italiana in Svizzera è stata registrata nel secondo dopoguerra. Ma la sua analisi è purtroppo parziale, perché si limita a registrare che la situazione politica e sociale dell’Italia favoriva l’emigrazione, ma sorvola completamente sull’urgente bisogno della Svizzera di manodopera italiana. Uscita indenne dalla guerra e con un apparato produttivo messo sotto pressione per poter soddisfare le richieste di beni provenienti da mezzo mondo, la Svizzera aveva urgente bisogno di manodopera. Non potendola ottenere dalla Germania e dall’Austria (perché le potenze occupanti non concedevano permessi di emigrazione) e nemmeno dalla Francia (perché non aveva esuberi da collocare all’estero), la Svizzera si rivolse all’Italia, dove la manodopera abbondava.
Già verso la fine del 1945, la Svizzera si rivolse all’Italia e subito dopo che il governo italiano ebbe dato il proprio assenso (inizio di febbraio 1946) la Svizzera presentò il 14 febbraio alla Legazione italiana di Berna (non ancora Ambasciata) una prima richiesta di manodopera da impiegare nell’agricoltura, nel ramo alberghiero e della ristorazione, negli ospedali e istituti, nell’industria tessile e nei servizi domestici. Per gli italiani erano già pronte per il 1946 non meno di 20.000 autorizzazioni, che sarebbero state oltre 90.000 per il 1947. Nella richiesta, che specificava il fabbisogno per ciascun ramo, si esprimeva anche il desiderio che si procedesse celermente (ossia nel giro di 3-4 settimane) al reclutamento.

Perché il boom di arrivi «stagionali»
Negli anni e decenni successivi le richieste di manodopera italiana si moltiplicarono. Per questo ci fu per oltre un trentennio un vero e proprio boom di arrivi, che favorì enormemente anche la nascita di nuove imprese, tra cui, per citare solo un nome, la Monteforno di Giornico, Ticino. Uno storico, Matteo Pelli, ricordava qualche anno fa che «il fattore decisivo [per la creazione dell’acciaieria] fu senz’altro la possibilità di importare dall’Italia manodopera già formata e con grande esperienza nel settore». In questa acciaieria, nel 1947 lavoravano 42 operai, ma saliranno a 990 nel 1974, per una produzione annua che passò da 20.000 tonnellate a 334.000 tonnellate nel 1974.
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono contrassegnati in Svizzera da una lunga fase di crescita economica (creazione di imponenti infrastrutture idroelettriche, stradali e autostradali, edilizia commerciale e residenziale, urbanistica, ecc.). Tra il 1947 e il 1970 la Svizzera mise a disposizione ben tre milioni di permessi stagionali. Ne vennero utilizzati oltre due milioni e mezzo: le esigenze dell’economia prevalevano persino sui sentimenti antistranieri che minacciavano tensioni sociali e fino alla crisi della metà degli anni Settanta nemmeno i contingenti di manodopera introdotti dalla Confederazione riuscivano a limitare le richieste dell’economia e l’afflusso di immigrati.
La domanda di manodopera estera, soprattutto «stagionale» (per impedire che potessero domiciliarsi in Svizzera!) era talmente consistente che le grandi imprese di costruzione avevano una vera e propria rete di reclutamento in Italia, con funzionari che percorrevano l’Italia in lungo e in largo per ingaggiare personale da adoperare nei grandi cantieri, dove la manodopera svizzera scarseggiava. Solo quando la crisi si fece sentire, dopo il 1974, in pochi anni circa 300.000 lavoratori stranieri dovettero lasciare la Svizzera: non erano più richiesti!

Bilancio positivo, ma per chi?
Col tempo la collettività italiana immigrata ha messo radici in questo Paese e oggi anche la Svizzera ufficiale la riconosce come la comunità «straniera» più integrata. Del resto, numerosi svizzeri di origine italiana siedono ora nel parlamento federale e in quelli cantonali e comunali, nei consigli di amministrazione di banche e grandi imprese, nelle università, nel giornalismo, ecc.
Ciononostante sono ancora molti coloro che trattano questo capitolo della storia svizzera come di un periodo di grande magnanimità della Svizzera nei confronti di decine di migliaia di persone bisognose in cerca di lavoro. Si dimentica facilmente la vera ragione per cui sono venute e soprattutto quanto hanno dato in cambio. In un ipotetico bilancio tra dare e avere, gli immigrati sono quelli che hanno dato più di quanto hanno ricevuto. Lo diceva nel 1972 l’allora presidente della Confederazione Nello Celio.

Giovanni Longu
Berna 12.10.2011