05 ottobre 2011

La Svizzera di cultura italiana e la rete

Il 28 settembre scorso si è tenuta a Berna una serata informativa sul tema «La Svizzera di cultura italiana ‘si mette in rete’». Un tema di indubbio interesse, soprattutto per uno come il sottoscritto da sempre critico sulla dispersione incongruente della cultura italiana in Svizzera e sostenitore di ogni tentativo di valorizzarla in forme coerenti e rispettose delle diversità.

Ho partecipato alla serata attratto anche dalla bella presentazione del tema nella lettera d’invito a firma della presidente della Deputazione ticinese alle Camere federali Marina Carobbio Guscetti. Mi ha colpito in essa soprattutto il secondo paragrafo che merita di essere riportato integralmente:
«La "Svizzera di cultura italiana", nella sua dimensione (inter)nazionale e non soltanto di "Svizzera italiana" nel senso geografico e territoriale (Ticino e Grigioni), è parte integrante e connotativa di questa dinamica e vi partecipa attivamente, anche perché il suo futuro dipende dalla sua capacità di affermarsi e rigenerarsi. Vi è pertanto la necessità di conoscere e "mettere in rete" le cerchie interessate, di farle comunicare tra loro e di studiare gli strumenti più efficaci per impostare un'azione comune».

Finalmente, mi sono detto, un po’ di chiarezza e di ragionevolezza nel considerare la dimensione obiettivamente nazionale e addirittura «(inter)nazionale» della cultura italiana e la necessità di «mettere in rete» tutte le cerchie interessate. Tanto più che questo elemento pregiudiziale di chiarezza mi sembrava avere l’avallo dell’intera Deputazione ticinese alle Camere federali e quindi, ritenevo, del Cantone Ticino, quale unico Cantone svizzero di lingua e cultura italiana.

Ticino protagonista?
Da parecchi anni e da molte voci si reclamava la «discesa in campo» del Ticino per la difesa dell’italiano e della cultura italiana a livello nazionale. La serata del 28 settembre mi sembrava una conferma dell’interesse del Ticino, soprattutto attraverso la sua Deputazione alle Camere federali e il suo Delegato per i rapporti con la Confederazione, a giocare un ruolo determinante nella difesa e nella valorizzazione dell’italianità in Svizzera.
Mi sembrava anche ragionevole e necessario che una strategia d’intervento e di coordinamento cominciasse con la presentazione di ciò che esiste o è in via di realizzazione per «mettere in rete le cerchie interessate, farle comunicare tra loro e studiare gli strumenti più efficaci per impostare un’azione comune». Ero curioso di conoscere i progetti esistenti e la loro capacità di integrare tutte le cerchie interessate.

E gli altri?
Con questo spirito ho partecipato all’incontro di studio del 28 settembre, ma devo subito confessare che le mie attese sono andate in gran parte deluse, probabilmente perché le mie attese erano esagerate, ma sicuramente anche perché tutti i progetti presentati mi sono apparsi carenti sotto un aspetto fondamentale, quello di coinvolgere tutte le cerchie interessate. Nessun progetto tra quelli presentati (Deputazione Cantone Ticino, Forum Helveticum, Coscienza Svizzera, Pro Grigioni) sembra infatti prevedere il coinvolgimento di organizzazioni culturali non di emanazione istituzionale svizzera. Durante tutta la serata non è stata mai evocata esplicitamente la vasta rete di operatori culturali italiani (associazioni, scuole, ecc.), che pure interessano almeno la metà dei «consumatori» della cultura italiana in Svizzera. Solo un cenno a un presunto ma forse non esistente 7 per cento di italofoni ha ricordato indirettamente che i fruitori della cultura italiana in Svizzera non sono solo i ticinesi e i grigionesi italiani.

Nonostante la delusione per le mie attese forse eccessive, la serata organizzata dalla Deputazione ticinese alle Camere federali può segnare un punto di partenza fondamentale per l’organizzazione dell’italofonia e soprattutto per la valorizzazione della cultura italiana in Svizzera. Mi auguro che a questo primo incontro ne seguano altri, anzitutto per la scelta definitiva della piattaforma più idonea, ma anche per coinvolgere maggiormente i vari operatori culturali in seno all’italofonia.
Allo stato attuale, se mi è consentito un parere non professionale, la scelta dovrebbe ispirarsi ai modelli del Forum Helveticum e di Coscienza Svizzera, magari trovando una denominazione più appropriata all’oggetto in questione e agli obiettivi di favorire scambi e sostenere ogni utile iniziativa alla valorizzazione della cultura italiana in Svizzera, quale elemento fondamentale della comprensione e della coesione nazionale.

Si continui!
Mi auguro ovviamente che le istituzioni e organizzazioni varie di matrice «italiana» non siano escluse dalle discussioni e dalla scelta finale e non si autoescludano dall’opportunità della messa in rete di tutte le cerchie interessate alla cultura italiana. Unire le forze mi sembra un imperativo che convenga a tutti, mentre separarle equivarrebbe a un impoverimento irresponsabile.
Infine, nonostante le mie personali riserve sull’esito della recente serata bernese, devo dare atto agli organizzatori dell’impegno dimostrato non solo nell’organizzazione della serata e nella scelta dei relatori, ma anche del forte segnale dato a tutte le organizzazione che hanno a cuore la vita e lo sviluppo della Svizzera di cultura italiana. Dunque si continui!

Giovanni Longu
Berna 5 ottobre 2011

L’Italia tra secessione e utopia

In Italia, nonostante le difficoltà economico-finanziarie che dovrebbero mettere d’accordo tutte le forze responsabili del Paese almeno sulla necessità di tentare di arginare la crisi, il clima politico tra opposizioni e governo, ma anche all’interno della maggioranza diventa ogni giorno più rovente. Più che il bene comune sembra prevalere l’interesse di parte.

Il continuo litigio tra opposizioni e governo, che si avvale ormai di qualunque mezzo lecito o al limite della legalità, compresi l’uso di un linguaggio spregevole e il linciaggio mediatico, non sembra attenuarsi. Sembra anzi avviarsi a scontri ben più duri, almeno a sentire certe voci provenienti della sinistra più minacciosa. Evidentemente nei principali leader politici sembra venuto meno non solo il senso dello Stato, ma anche il buon senso. Inutile cercare nei loro discorsi proposte serie e sostenibili per la crescita e l’avvio di una stagione di riforme. Il loro vero obiettivo sembra la distruzione dell’avversario, sfruttando tutte le sue fragilità.
Di fronte a questa situazione, molti cittadini cominciano a preoccuparsi seriamente e l’antipolitica è ormai come un fiume in piena. La delusione nei confronti di buona parte della classe politica è palpabile. Gli elettori non intendevano certo dare agli eletti carta bianca per usare i privilegi della casta come spranghe per colpire gli avversari. Volevano che, stando nella maggioranza o all’opposizione, concorressero democraticamente al bene del Paese. Purtroppo molti di essi si stanno invece rivelando indegni del mandato ricevuto, perché in un momento in cui sarebbe auspicabile coesione e impegno comune sembrano preferire le divisioni, lo scontro e possibilmente l’annientamento dell’avversario.

Tre tendenze dell’antipolitica
In questo momento drammatico della vita politica italiana sembrano farsi strada tre tendenze dell’antipolitica. Una è quella di cercare di alzare la voce più degli altri persino in tono minaccioso, la seconda è quella un po’ credulona nella buona sorte che ha sempre assistito l’Italia, la terza si affida all’utopia.

La prima tendenza è riemersa clamorosamente in questi ultimi mesi con l’invocazione della «secessione» da parte del «popolo padano». Apriti cielo! Tutte le opposizioni e persino qualche voce della maggioranza ha additato la Lega Nord come antitaliana e secessionista. Persino il Capo dello Stato si è sentito in dovere di ribadire che «il popolo padano non esiste» e che la secessione si scontrerebbe inevitabilmente con l’articolo 5 della Costituzione secondo cui «la Repubblica è una e indivisibile», anche se «riconosce e promuove le autonomie locali».
Lungi da me sottovalutare la gravità di quell’invocazione, ma non mi scandalizzo. Trovo più scandaloso che le forze politiche non si trovino d’accordo nel promuovere le giuste «autonomie locali» e continuino a tollerare per interessi elettorali che tra le regioni italiane ci siano troppe disparità nello sviluppo, nell’impiego delle risorse e nelle prestazioni fornite ai cittadini. Ci sarebbe in Italia meno lotta politica e più equità sociale se anche tra le regioni vigessero i principi della produttività e della meritocrazia, con interventi sanzionatori per quelle meno virtuose. Una buona forma di federalismo, che sappia coniugare le autonomie locali e la coesione nazionale (la Svizzera è un esempio che funziona), risolverebbe tanti problemi, in particolare la contrapposizione spesso strumentale tra Nord e Sud.

La seconda tendenza è quella, a mio parere un po’ semplicistica, di sperare nella buona sorte che in qualche modo ha sempre aiutato l’Italia a venir fuori dai guai. Del resto, si fa osservare, non è vero che tutto va male, anche se questo benedetto PIL (prodotto interno lordo) apparentemente cresce poco (ma cresce il sommerso). Certo il sommerso indebolisce lo Stato perché lo priva di risorse, ma è pur sempre una ricchezza che resta nel Paese. E poi non va dimenticato che gli italiani sono un popolo di proprietari di case per l’85% (un lusso che nemmeno gli svizzeri si possono concedere) e di risparmiatori (con un capitale pro capite – incredibile ma vero! - superiore persino a quello dei tedeschi).

La terza tendenza, utopistica perché fondata su un accentuato pessimismo e una prospettiva illusoria, non ripone più alcuna fiducia nella classe dirigente (non solo politica) italiana, decisamente da decapitare, ma spera in una sorta di nuovo Risorgimento o di rigenerazione morale. In questo periodo di celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia è risuonata più volte la musa ispiratrice di Mazzini, apostolo e profeta del Risorgimento italiano. Ma dove sono i profeti e gli apostoli oggi?

Meglio stare coi piedi per terra e nell’attesa che torni un po’ di sereno, tutto sarebbe più facile se ognuno facesse la sua parte nel proprio ambito, modestamente ma seriamente, a cominciare dal Governo, dal Parlamento (maggioranza e opposizioni), dalla Magistratura, dalla Confindustria, dai sindacati, dai giornalisti e da ciascun italiano. E’ chiedere troppo?

Giovanni Longu
Berna 5.10.2011