21 settembre 2011

RSI (S)VISTA DA BERNA

Mercoledì scorso era in programma al Kulturcasino di Berna un evento organizzato dalla Corsi (Società cooperativa per radiotelevisione svizzera di lingua italiana) pubblicizzato col titolo: «La RSI vista da Berna».
Un evento importante, anche solo osservando la lista di alcune personalità di vertice presenti: Roger de Weck, direttore generale della SRG SSR, Claudio Generali, presidente della Corsi, Dino Balestra, direttore della Rsi, Marina Carobbio Guscetti, presidente della deputazione ticinese alle Camere federali, Jörg De Bernardi, delegato del Cantone Ticino per i rapporti confederali, Giordano Elmer, presidente della Pro Ticino, Paola Ceresetti, corrispondente da Berna della Rsi, Giuseppe Deodato, ambasciatore d’Italia in Svizzera.

Per dovere di cronaca devo precisare che tra le personalità menzionate, l’unica a cui non è stata data la parola è l’ambasciatore Deodato, mentre tutte le altre sono intervenute, moderate dalla giornalista Rsi Camilla Mainardi, per esprimere i rispettivi punti di vista sulla Corsi, sul Ticino e naturalmente anche sulla Rsi.

Clamorosa svista
Niente da osservare, ovviamente, su quanto detto da ciascuno degli intervenuti al tavolo della presidenza, salvo obiettare che nessuno, tranne Giordano Elmer, ha veramente espresso il punto di vista degli utenti di oltre Gottardo, contraddicendo le attese della vigilia. Non va infatti dimenticato che proprio la Corsi, in un comunicato stampa, aveva precisato in questi termini lo scopo principale dell’incontro bernese: «incontrare il pubblico italofono d’oltre Gottardo e raccogliere opinioni, suggerimenti e attese in merito al servizio pubblico radiotelevisivo e alla programmazione Rsi». Sotto questo profilo l’incontro di Berna è stato una clamorosa svista.
Nei vari interventi in cui si è parlato di canone, di costi di produzione, di mezzi a disposizione limitati ma di alta qualità del servizio pubblico in lingua italiana, della rivoluzione tecnologica imminente, ecc. Non è stata invece affrontata la questione di fondo della natura stessa della Rsi: è un servizio pubblico che concerne e interessa tutta l’italofonia o solo la Svizzera italiana (Ticino e Grigioni italiani)?
Benché proprio alle prime battute sia stato sottolineato che almeno la metà degli italofoni della Svizzera si trova a nord del Gottardo, per tutta la serata è sembrato a chi scrive e a molti altri che l’orizzonte si fermasse alla linea del Gottardo. In effetti più che della radiotelevisione di lingua italiana si è parlato di radiotelevisione della Svizzera italiana e logicamente, data la proporzione territoriale, del Ticino. Un concetto sinteticamente espresso dal presidente della Pro Ticino quando ha affermato di vedere nella Rsi «un sostegno per la difesa della nostra cultura ticinese fuori del Cantone».

Rsi e i valori dell’italianità
Per rendersi conto che la questione del rapporto tra la Rsi e l’italianità non è affatto chiara basterebbe rileggersi l’articolo 2 degli Statuti della Corsi in cui si dice espressamente che «essa interpreta l’identità del Paese e promuove la specificità della Svizzera italiana nel contesto nazionale; vigila affinché attraverso detti programmi [radiofonici e televisivi della Rsi] siano tutelate ed affermate le caratteristiche linguistiche e culturali della Svizzera italiana e i valori dell’italianità in Svizzera».
Di fatto la Rsi è vista oltre Gottardo prevalentemente come espressione ticinese. Di più, si ha l’impressione che la Rsi sia totalmente disinteressata a quanto di italiano, non solo in termini linguistici ma anche e soprattutto culturali, si produce e si verifica nella Svizzera tedesca e francese. Questo disinteresse della Rsi è sicuramente legato a un cronico difetto di comunicazione, ma probabilmente anche a un pregiudizio sempre più diffuso, quello secondo cui le seconde e terze generazioni di italiani (ma potrei dire anche di ticinesi) siano talmente bene integrate (vero) da rendere inutile un loro coinvolgimento dal punto di vista dell’italianità (falso).
Credo che la Rsi, se vuole davvero rappresentare un servizio pubblico nazionale in lingua italiana deve assolutamente annoverare tra i contenuti delle emissioni informative e d’approfondimento anche quel che accade fuori del Ticino nell’ambito dell’intera Svizzera di lingua e cultura italiana, soprattutto nei grandi centri di Zurigo, Berna, Basilea, Ginevra e dovunque si producono eventi di un certo interesse per la collettività italofona. Questo all’interno delle emissioni esistenti o finestre speciali da ideare e concordare.

Giovanni Longu
Berna, 21.9.2011

Stranieri benvenuti quando servono e basta?

Qualche giorno fa su un quotidiano ticinese si poteva leggere su quattro colonne questo titolo: «Patrimoni: Svizzeri primi al mondo». Una bella notizia, ovviamente soprattutto per chi ne ha, ma anche per tutti gli altri in generale. Sembra infatti che gli svizzeri posseggano in media un patrimonio calcolato nella moneta europea di oltre 207.000 euro a testa. I diretti inseguitori (ma a che distanza!) risultano americani e giapponesi con 112.000 euro. Gli italiani si devono accontentare di 61.000 euro, ma possono consolarsi sapendo di essere più ricchi dei tedeschi che dispongono di appena 60.000 euro a testa.
Certo, non va dimenticato che con le statistiche bisogna essere molto prudenti per non incorrere nell’errore denunciato da Trilussa nella celebre poesia sulla statistica, per cui se uno ha mangiato due polli e un altro è restato senza perché non poteva permetterselo, per la statistica è come se ognuno ne avesse mangiato uno. Errori del genere a parte, per chi vive in Svizzera fa senz’altro piacere appartenere al club più ricco del mondo, soprattutto se sa di aver contribuito magari in prima persona alla formazione di tanto patrimonio.

Quale politica di naturalizzazione?
Nello stesso giornale, poche pagine più avanti si poteva leggere una presa di posizione del deputato candidato della Lega dei Ticinesi al Consiglio nazionale Lorenzo Quadri sugli stranieri. Titolo: «Il passaporto svizzero non si svende con i saldi». Conoscendo l’ideologia del leghista, non mi sono affatto meravigliato né del tono né del contenuto. In fondo è dai tempi di Schwarzenbach che la destra nazionalista va ripetendo che il passaporto svizzero è un premio per i più assimilati e non si svende.
Mi sorprende invece che il Quadri e quanti condividono le sue opinioni sugli stranieri non si rendano conto che una parte del problema degli stranieri nasce proprio dalla politica troppo restrittiva delle naturalizzazioni praticata fin dalla prima metà del secolo scorso. Forse è utile ricordare che le restrizioni introdotte con la legge sugli stranieri del 1931 non miravano a ridurre il numero dei lavoratori stranieri in Svizzera, ma a ridurre il numero dei «residenti» stranieri soprattutto come «domiciliati» e di conseguenza anche il numero dei naturalizzati. Tanto è vero che le naturalizzazioni sono rimaste per decenni ridotte a poche migliaia l’anno.
Allora e anche oggi - a quanto sembra dalla periodica campagna antistranieri dei partiti della destra nazionalista – si volevano non cittadini da integrare, ma lavoratori da utilizzare secondo la congiuntura. Il modello dello straniero era lo «stagionale», al quale rinnovare eventualmente il permesso di lavoro e di soggiorno in Svizzera di stagione in stagione. In base a questa politica per molti decenni sono entrati e usciti dalla Svizzera milioni di lavoratori, soprattutto italiani, lasciando sul posto un’infrastruttura ferroviaria e stradale estremamente ramificata, un’industria efficientissima, un’urbanistica moderna, un’economia d’esportazione fiorente, un patrimonio che guida le classifiche mondiali della ricchezza.

Per una nuova politica degli stranieri
Da alcuni decenni, in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, soprattutto a livello europeo, la circolazione delle persone è cresciuta rispetto al passato. Oggi sono stati aboliti termini come stagionale, Gastarbeiter o Fremdarbeiter e si parla sempre più di cittadini, di libera circolazione, d’integrazione, di naturalizzazione facilitata o da facilitare per gli stranieri di seconda e terza generazione, di partecipazione.
E’ mai possibile che ci siano ancora persone con grandi responsabilità che non si rendono conto che l’immigrazione è soprattutto una ricchezza, che in un ipotetico bilancio ciò che i lavoratori stranieri danno è ben più di quanto ricevono? Lo diceva già nel 1972 il presidente della Confederazione Nello Celio.
E’ mai possibile che a certuni quando si parla di stranieri vengano in mente solo problemi, costi, casi di criminalità e una voglia matta di selezionare ancora gli stranieri separando quelli utili da quelli meno utili? Eppure anche i politici dell’estrema destra dovrebbero sapere che senza gli stranieri il benessere acquisito finora non potrebbe essere mantenuto a lungo e il futuro delle prestazioni sociali sarebbe meno certo.
Perché non introdurre anche nel vocabolari di certi politici termini come rispetto, comprensione, solidarietà, umanità?

Giovanni Longu
Berna, 21.09.2011