24 agosto 2011

Per misurare il benessere, il PIL basta?

La domanda appare provocatoria, per cui la risposta immediata dovrebbe essere chiaramente «no». Vengono infatti subito in mente espressioni come «la felicità non ha prezzo» o «il denaro non è tutto» e simili detti della saggezza popolare. Quando poi si affronta da vicino la questione, le risposte sono meno semplici e immediate. Il primo scoglio da superare è sicuramente definire il «benessere». Di fronte alle difficoltà di varia natura legate a una tale definizione, da tempi immemorabili si è pensato essenzialmente al benessere materiale, ossia quantificabile in termini di valore monetario. Per questo lo strumento tradizionale utilizzato per misurarlo è il prodotto interno lordo (PIL).
Senonché, da diversi decenni si continua a discutere sulle varie forme di benessere sociale e alcuni studiosi preferiscono addirittura l’espressione «qualità della vita». Ma ci si rende ben conto che è tutt’altro che semplice definire la qualità della vita e soprattutto trovare una sua misura, tale da poter essere utilizzata e generalizzata a livello non solo nazionale ma anche internazionale, analogamente al PIL. Probabilmente gli indicatori sono molteplici.

L’Ufficio federale di statistica in prima linea

La questione, soprattutto alla luce della crisi dell’economia mondiale, è stata discussa di recente nel primo numero di una rivista lanciata da poco dall’Ufficio federale di statistica (UST), dal nome molto significativo ValeurS. Nella sua prima edizione n. 1/2011 la rivista affronta appunto il tema «Come misurare il benessere e la qualità della vita?». Rispondono personalità di spicco quali Aymo Brunetti, capo della Direzione della politica economica alla Segreteria di Stato dell’economia (SECO), Walter Radermacher, Direttore generale di Eurostat (l’ufficio di statistica dell’UE), Jürg Marti, Direttore dell’UST e altri specialisti dell' UST.
Non è possibile qui riassumere il contenuto dei diversi contributi, ma vale la pena accennare alla problematica in discussione ormai da alcuni decenni: il benessere è solo quello misurabile dall’indicatore ancora più utilizzato al mondo, ossia il prodotto interno lordo (PIL)? Esistono altri indicatori in grado almeno di tener conto dei differenti valori legati all’aspetto sociale, all’economia, all’ecologia? Per il direttore dell’UST non c’è dubbio: «non crediamo in un unico mega-indicatore» e lo dimostra con un esempio provocatorio messo proprio all’inizio del suo editoriale: l’abbattimento della lussureggiante foresta pluviale del Borneo, egli dice, comporterebbe una perdita irrimediabile del patrimonio ambientale dell’isola ma genererebbe un aumento del PIL locale.
L’UST è pertanto in prima linea nello studio di altri indicatori anche non monetari, probabilmente non in grado di sostituire il «venerando» PIL, ma almeno utili ad attenuarne la rigidità e integrarne la significatività, in modo da tener maggiormente conto della qualità della vita, dei valori sociali e della situazione ambientale.

Occorrono nuovi indicatori per tener conto della complessità
C’è da augurarsi che l’UST riesca quanto prima a sviluppare indicatori aggiuntivi al vetusto PIL, che continuerà purtroppo a imperare e a condizionare la politica e l’economia, come la crisi attuale insegna. E’ in base al PIL che i Paesi si classificano non solo in ricchi e poveri, ma anche in forti e deboli e persino felici e infelici. Per questo, quando Paesi ricchi come la Germania o la Francia annunciano un PIL trimestrale che non cresce, già si comincia a parlare di recessione estesa, Eurolandia sull’orlo di una crisi strutturale, tramonto e persino morte dell’euro, ecc.
Purtroppo in ogni società il benessere espresso dal PIL, ossia la ricchezza prodotta, non è equamente distribuito. Il divario tra ricchi e poveri si allarga. La povertà nascosta è in aumento. Il PIL non può prendere in considerazione tutte le variabili del «benessere» e del «disagio» sociale perché si basa sul reddito globale, a prescindere ad esempio dal fatto che l’uno per cento della popolazione più ricca possieda più o meno il 20-25% del patrimonio complessivo e guadagni il 5-10 per cento del reddito totale (Mauro Baranzini).
Encomiabile, pertanto, l’iniziativa dell’Ufficio federale di statistica di affrontare con professionalità e tempestività un tema così attuale e così importante. Un solo appunto, e non me ne voglia il direttore Marti, quello di pubblicare la rivista in tedesco, francese e inglese, ma non in italiano, come se l’italofonia, quella del Ticino e quella del resto della Svizzera, non fosse interessata al tema o non avesse un potenziale di lettori interessante per giustificare un costo verosimilmente sostenibile!

Giovanni Longu
Berna 24.8.2011