27 luglio 2011

Frontalieri: negoziato urgente!

Da troppo tempo ormai la questione dell’apertura di un negoziato tra l’Italia e la Svizzera sui problemi fiscali sul tappeto sta incrinando i tradizionali buoni rapporti tra i due Paesi.
Soprattutto per il Ticino si tratta evidentemente di una priorità, perché la presenza della Svizzera in una specie di «lista nera» di un Paese confinante è oltremodo sgradevole e nociva. L’Italia, al contrario, sembra avere altre urgenze, che le fa dimenticare le numerose buone ragioni per accelerare i tempi dell’apertura del negoziato. Probabilmente il governo italiano non si rende nemmeno conto del danno d’immagine e del diffuso sentimento anti italiano che sta generando con questo suo comportamento, creando fra l’altro non poche difficoltà anche all’interno della numerosa comunità italiana.
L’Italia non dovrebbe ritenere secondario il mantenimento di buone relazioni con un Paese confinante, con cui è legato fra l’altro da un trattato di amicizia ultracentenario e da rapporti molto intensi di ogni genere. La riapertura del dialogo con la Svizzera, promessa in diversi incontri anche ai massimi livelli non può essere più procrastinata. Se per stipulare l’accordo in vigore sulla doppia imposizione del 9 marzo 1976 la Svizzera ha dovuto aspettare mezzo secolo, oggi diventa intollerabile un rinvio anche solo di pochi anni. E se il Consigliere federale Georges-André Chevallaz nel 1976 riteneva che, viste «altre priorità» che il governo italiano già allora aveva da sbrigare, «un délai de patience peut et doit lui être accordé», oggi la riserva di pazienza nella controparte svizzera è esaurita, soprattutto nel Cantone Ticino, come dimostrano le recenti prese di posizione e decisioni anche di natura finanziaria.
È pertanto auspicabile che il negoziato richiesto dalla Svizzera si apra con urgenza e ponga fine a questa diatriba che comporta solo danni per entrambe la parti.
Detto questo, però, non credo che sia stata una buona reazione quella adottata a maggioranza dal Consiglio di Stato ticinese di congelare la metà del ristorno dovuto all’Italia sulla trattenuta fiscale dei salari dei frontalieri. Non entro nel merito, lasciando ai giuristi la qualificazione del fatto, anche se mi sembra uno dei principi fondamentali del diritto internazionale che i patti vadano osservati, pacta sund servanda, come insegnavano già gli antichi romani. Se i patti non convengono più si possono denunciare, ma finché sono validi vanno rispettati.

L’Accordo sui frontalieri va rispettato
È noto che il Ticino e soprattutto la Lega dei Ticinesi vorrebbe includere nella trattativa con l’Italia anche il riesame dell’Accordo del 1974 sui frontalieri. Richiesta assolutamente legittima, tanto è vero che è stata accolta dal Consiglio federale.
In questa richiesta, tuttavia, mi ha colpito in particolare un argomento proposto dal consigliere nazionale Lorenzo Quadri della Lega. Egli dice: «Al momento della stipulazione di tale accordo (1974), era fatto l’obbligo ai frontalieri di rientrare quotidianamente al proprio domicilio. A seguito della libera circolazione delle persone, tale obbligo è venuto a cadere e i frontalieri sono tenuti a rientrare solo una volta alla settimana». Ne consegue, secondo Quadri, che «il tasso di ristorno è legato al rientro quotidiano dei frontalieri italiani in patria».
Francamente non mi sembra un buon argomento e non so dove Quadri abbia attinto le sue informazioni. A me risulta che l’Accordo del 1974, facilmente consultabile in Internet, non prevede alcun obbligo di rientro quotidiano e non fornisce alcuna definizione del «frontaliere». Aggiungo che non si trattò di una dimenticanza perché anche da parte svizzera si volle evitare una definizione precisa «perché avrebbe potuto portare pregiudizio ad altri accordi». Quanto alla frequenza dei rientri va ricordato che «la norma» del rientro quotidiano già allora non era sempre rispettata in alcuna parte della Svizzera, tant’è che la Commissione federale degli stranieri annotava nel 1973 che «da qualche tempo ci sono frontalieri che lavorano praticamente tutta la settimana in Svizzera», cioè rientrano al proprio domicilio solo al fine settimana. Questa pratica veniva tollerata non solo verso i frontalieri italiani , ma anche verso quelli tedeschi e francesi. Essa era ben nota ai negoziatori italiani e svizzeri (compresi i rappresentanti del Cantone Ticino) e ciononostante l’Accordo che prevedeva originariamente un tasso di ristorno del 40% (ridotto nel 1984 al 38,8%) venne ratificato senza tante discussioni dalle Camere federali all’unanimità.

Giovanni Longu
(L'ECO del 27.07.2011)

“Svizzera italiana” in che senso?

Il 14 maggio 2010, Coscienza Svizzera ha organizzato un convegno sul tema: «Esiste la Svizzera italiana? E oltre?». Recentemente ne sono stati pubblicati gli atti e dalla loro lettura è nata la riflessione seguente, per altro non nuova visto che da alcuni decenni mi interesso delle sorti della lingua e della cultura italiane in Svizzera.

Anzitutto, leggendo gli Atti (sia le due relazioni preliminari dello storico Marco Marcacci e dell’ordinario di letteratura italiana all’Università di San Gallo Renato Martinoni e sia gli interventi alla successiva Tavola rotonda) emerge chiaramente che il concetto tradizionale di «Svizzera italiana» legato al territorio (Ticino e alcune vallate grigionesi) è da diverso tempo in discussione. Tanto è vero che Coscienza Svizzera ha ritenuto utile dedicarvi un Convegno.

La Svizzera italiana dai tempi di Franscini a oggi
A mio parere, l’aspetto più problematico del concetto tradizionale di «Svizzera italiana» è che non tiene sufficientemente conto della realtà più ampia e più complessa dell’«italianità» o «italicità» (come alcuni oggi preferiscono) presente in tutta la Svizzera. Questa estensione dell’italianità non esisteva ai tempi della pubblicazione de «La Svizzera italiana» di Stefano Franscini fra il 1837 e il 1840, ma è avvenuta lentamente soprattutto nella seconda metà del secolo scorso. Ritengo pertanto utile proseguire la riflessione proposta da Coscienza Svizzera nel tentativo di ridefinire il concetto di «Svizzera italiana» o quanto meno arricchirlo di contenuti.

La Svizzera italiana tradizionale

Occorre, in altre parole, tener conto di quella «Svizzera italiana», per dirla con le parole usate dal prof. Martinoni, «che sta al di fuori dalla Svizzera italiana [tradizionale]. C’è la Svizzera di lingua italiana, o italofona, spesso impegnata a difendere con i denti (…) le proprie peculiarità e i propri diritti. Ma ci sono anche, in territorio elvetico, gli italiani che sono oramai soltanto parzialmente italofoni: pur sentendo di appartenere, almeno con una parte dei loro sentimenti, alla cultura antropologica italiana […] E ci sono anche gli “italici”».
Secondo questa analisi, condivisibile, il prof. Martinoni si chiede «se il criterio politico-linguistico (quello degli svizzeri italofoni che vivono nel Ticino o nei Grigioni) debba sempre essere l’unico a dover valere: o se non ce ne siano altri non meno importanti da mettere sul tavolo di ogni riflessione che sia veramente degna di questo nome». Per lo studioso evidentemente questi altri criteri esistono ed egli sembra preferire quello «linguistico-culturale» proponendo invece di «Svizzera italiana» l’espressione «Svizzera di lingua italiana», per poter comprendere tutta la popolazione italofona della Svizzera.
Questa proposta incentrata essenzialmente sul criterio linguistico andrebbe tuttavia superata, a mio parere, perché l’italofonia è un elemento fluido e da alcuni decenni in forte crisi nella Svizzera tedesca e francese. Del resto, proprio nell’ambito di questa discussione, anche lo storico Marco Marcacci ha sollevato la questione se «la lingua è davvero il principale, se non unico, criterio per stabilire che cos’è o che cosa deve essere la Svizzera italiana? Altrimenti detto, tenuto conto della storia, dei costumi e della cultura politica elvetica, è realistico pensare alla Svizzera italiana come pura comunità dei parlanti o degli “italici”?».
Ma, se vanno superati i criteri geografico-territoriale e linguistico, come definire la «Svizzera italiana»? Credo che questa espressione, fin quando non se ne troverà una migliore, vada oggi reinterpretata, come lascia intendere lo stesso Marcacci, alla luce «della storia, dei costumi e della cultura politica elvetica» e soprattutto, aggiungo io, di quella realtà nazionale storico-culturale che si è venuta a formare nella seconda metà del secolo scorso.

L’italianità della Svizzera
Alla formazione di questa realtà hanno contribuito indubbiamente i ticinesi e i grigionesi con il loro ruolo guida e la loro presenza nelle istituzioni, ma anche i milioni di italiani di prima, seconda e successive generazioni. Né vanno sottovalutate la disponibilità e l’apertura all’innovazione e alla trasformazione che nei fatti ha sempre dimostrato la maggioranza degli svizzeri tedeschi e francesi. Insieme, ticinesi e italiani, svizzeri e stranieri, hanno creato in decenni di convivenza e di collaborazione un patrimonio culturale che fa parte dell’identità nazionale e contribuisce a fare della Svizzera un unicum nella storia europea. Questa componente è profondamente intrisa di «italianità» o «italicità», come alcuni studiosi propongono.

Distribuzione della lingua italiana in Svizzera (UST, 2000)

La «Svizzera italiana» dovrebbe esprimere l’essenzialità e la ricchezza di questa componente identitaria della Svizzera moderna. In questa direzione, mi sembra, si stanno muovendo alcuni esponenti politici ticinesi (mentre altri restano arroccati nella difesa ad oltranza della territorialità della Svizzera italiana). Lo stesso tentativo di Ignazio Cassis di proporsi candidato per il Consiglio federale in rappresentanza dell’intera «Svizzera italiana» può essere letto in questa ottica. Del resto anche il Consiglio federale, proprio su istanza della Deputazione ticinese alle Camere federali, ha recepito che la percentuale di riferimento per gli italofoni dell’amministrazione federale debba essere il 7%, ossia una percentuale che non corrisponde né ai ticinesi e grigionesi italiani né agli italofoni censiti come tali. Lo stesso orientamento si può notare nella chiave di ripartizione delle risorse della Radiotelevisione svizzera. [La Svizzera italiana limitata all’area Ticino-Grigioni italiani, che conta demograficamente parlando non più del 4,3%, contribuisce al gettito del canone radiotelevisivo con poco più del 4%, ma riceve oltre il 20% dei proventi].

Reazioni dal Ticino e dai Grigioni italiani
Una lettera in cui sintetizzavo quando detto sopra, pubblicata ai primi di luglio nei tre quotidiani ticinesi, ha suscitato numerose condivisioni (soprattutto da parte di politici e italofoni dell’amministrazione federale) e, a mia conoscenza, due critiche. Sulle prime è inutile riferire, mentre sulle seconde desidero prendere posizione.
La prima (La Regione Ticino del 9.7.2011) porta la firma di Franco Celio, membro del Gran Consiglio ticinese, il quale con tono arrogante respinge «senza mezzi termini» la mia proposta, lasciandosi andare a divagazioni sulla «pace linguistica», sugli italofoni di oltre-Gottardo (a suo dire «difficili da identificare con esattezza»), su «eventuali richieste nel senso citato» di slavi, turchi, spagnoli, ecc.) che nulla hanno a che fare con quanto da me sostenuto. Ovviamente il signor Celio è libero di respingere ciò che vuole. Peccato che non entri - non so se per pregiudizi antitaliani o per la fretta con cui deve aver letto il mio scritto - nel merito delle questioni da me sollevate.

La seconda critica (La Regione Ticino del 19.7.2011) porta la firma di Nicoletta Noi-Togni, membro del Gran Consiglio grigionese, che dissente «fermamente da quanto proposto o suggerito da Longu che vorrebbe si ridefinisse il concetto di Svizzera italiana che dovrebbe essere allargato e comprendere oltre al Ticino e al Grigioni italiano anche gli italofoni residenti nella Confederazione». Anch’essa probabilmente non ha letto bene la mia proposta, certamente non l’ha capita, altrimenti non si spiegherebbe quell’insistere anch’essa sugli italofoni d’oltre Gottardo, quando io nel mio scritto ho indicato chiaramente che per ridefinire eventualmente la «Svizzera italiana» andrebbe superato oltre al criterio territoriale anche il criterio linguistico per adottare invece prevalentemente un criterio culturale ampio. Probabilmente non ha capito nemmeno altre proposte di riflessione che vanno nella stessa direzione, altrimenti non scriverebbe che «il tentativo dei diversi Longu (tra di loro si contano esimi politici dal dire e dal fare nebuloso e studiosi con forse buone intenzioni) di far apparire appetibile una proposta del tutto incoerente è da rigettare».

Pesi e guadagni
Ho voluto riferire di queste due critiche per mettere in evidenza che sul concetto di «Svizzera italiana» non c’è affatto unanimità. Aggiungo, per chiarezza, che è ben lungi dalle mie intenzioni il tentativo subdolo di far accreditare in qualche modo sotto il cappello della «Svizzera italiana» la dignità linguistica e culturale degli italofoni d’oltre Gottardo e ancor meno di quanti pur non essendo (più) italofoni hanno radici culturali italiane. Il problema infatti non esiste. Semmai la mia preoccupazione è che se non si porta avanti la riflessione suggerita da Coscienza Svizzera si rischia che l’italianità della Svizzera venga sempre più marginalizzata. Se non si riesce a dare alla «Svizzera italiana» una dimensione culturale (quindi non solo linguistica!) veramente nazionale potrebbe risultare assai difficile qualunque atto rivendicativo del Ticino e dei Grigioni italiani in nome della «Svizzera italiana» intesa territorialmente, perché il suo peso specifico in termini demografici non va oltre il 4,3%. Un domani potrebbe risultare incomprensibile, ad esempio, pretendere dalla Confederazione il 7% di posti federali riservati a «italofoni» invece del 4,3%. Ancor più problematico potrebbe risultare ogni tentativo di avere in Consiglio federale un rappresentante della «Svizzera italiana» intesa come Ticino e Grigioni italiani, come del resto hanno dimostrato gli ultimi tentativi falliti. Potrebbe anche risultare sproporzionata l’attuale ripartizione delle risorse radiotelevisive nazionali e la CORSI potrebbe non avere più il sostegno che ha se venisse meno la sua valenza nazionale.

Come si può ben vedere, in termini di guadagni, da un ampliamento del concetto di Svizzera italiana, sarebbero proprio il Ticino e i Grigioni italiani a beneficiarne maggiormente. Ma sarebbe preferibile che a beneficiarne fosse l’intera Svizzera. O non è così?

Giovanni Longu
(L'ECO, 27.7.2011)