13 luglio 2011

Strage di emigrati sardi cent’anni fa a Itri!

Spesso, rievocando alcuni grandi eccidi o disgrazie che ebbero come protagonisti loro malgrado operai italiani emigrati in America o in Europa, si parla di «razzismo» nei loro confronti. Non solo, molti emigrati italiani ritengono ancora oggi che nel Paese d’immigrazione ci sia tuttora molto razzismo, specialmente nei confronti di alcune nazionalità d’immigrati. Raramente si pensa che anche gli italiani, in Italia, sono affetti talvolta dalla stessa malattia, che discrimina e tende ad annientare l’altro, il diverso, lo straniero. Nessuno parla più delle violenze subite dagli immigrati irregolari e regolari a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, un anno e mezzo fa. E chi ricorda le innumerevoli discriminazioni che hanno subito milioni di meridionali, «terroni», emigrati nel nord d’Italia in cerca di lavoro negli anni del «boom economico» (anni ’50 e ’60 del secolo scorso)?
Spesso, per evitare questa parola grossa, perché il «razzismo» è un reato punito ormai da tutte le legislazioni civili, si preferisce parlare di «guerra tra poveri» quando ad affrontarsi sono lavoratori di nazionalità diversa. In effetti, i casi più clamorosi che hanno riguardato emigrati italiani, come vittime, hanno avuto come aggressori altri lavoratori, soprattutto indigeni, i quali ben poco sapevano di ideologie razziste o xenofobe. Credevano che gli stranieri venissero a portar via a loro, i padroni di casa, il lavoro, un salario onesto, l’abitazione e persino le loro donne. Ritenevano pertanto di essere nel giusto quando reagivano anche violentemente contro questi stranieri invasori e usurpatori. Le vere responsabilità di questa «guerra tra poveri» non vengono alla luce quasi mai.
In questo clima nefasto, attraversato da una vena di razzismo e connotato da astio, intolleranza e spirito di vendetta, gli emigrati italiani dovettero subire spesso e ovunque atti di violenza di gruppo. Alcuni episodi sono emblematici. Limitandoci all’area europea, si possono ricordare, in particolare, quello della dura repressione degli scioperi durante la costruzione della galleria del San Gottardo (1875), l’eccidio alle Aigues-Mortes in Francia (1893), i tumulti di Berna e Losanna (1893), la furia distruttrice e la «caccia all’italiano» di Zurigo (1896).

Responsabilità diffuse
Leggendo i giornali e le cronache giudiziarie dell’epoca si ha spesso l’impressione che nella ricerca delle responsabilità i primi indiziati fossero proprio le vittime, ossia gli italiani. Spesso essi avevano contro buona parte dell’opinione pubblica per cui riusciva difficile ai tribunali individuare i veri colpevoli e punirli giustamente. Del resto non è un mistero, almeno tra gli studiosi, che molto spesso in quell’epoca gli emigrati italiani fossero ovunque malvisti per i loro comportamenti ritenuti «primitivi», violenti e irrispettosi degli altri, ma anche per la loro (presunta) facilità ad accettare salari più bassi di quelli usuali e condizioni di lavoro pesanti, danneggiando così l’intera classe operaia. L’ingordigia di molti padroni, la debolezza dei sindacati, l’assenza di una vera solidarietà operaia e una diffusa ignoranza contribuivano a indicare negli italiani immigrati una costante minaccia per il lavoro e la vita tranquilla degli indigeni e farne facilmente il capro espiatorio in momenti particolari di crisi.
Questa situazione, purtroppo, ha riguardato non solo moltissimi italiani emigrati nel resto del mondo, ma anche italiani emigrati internamente in Italia. Proprio in questi giorni viene rievocato uno degli episodi più tristi della migrazione interna italiana, capitato esattamente cent’anni fa. Mi sembra utile rievocarlo in queste colonne perché dimostra quanto i problemi di razzismo, d’intolleranza e di violenza tra etnie diverse fossero simili, in quell’epoca, in ambienti di lavoro analoghi, anche in luoghi molto distanti tra loro come possono essere il Mezzogiorno d’Italia, la Provenza e la Svizzera.
La caccia all’italiano che si verificò alle Aigues-Mortes e durante i tumulti di Berna e Zurigo sul finire dell’Ottocento si ripeté con modalità analoghe proprio nel Mezzogiorno d’Italia, da cui partivano per l’estero moltissimi emigrati, meno di due decenni più tardi, con la differenza che la parte delle vittime toccò in questo caso ad emigrati sardi. L’episodio successe a Itri, un comune tra Gaeta e Formia, oggi in provincia di Latina (allora in provincia di Caserta), esattamente cent’anni fa il 12 e 13 luglio 1911.

«Morte ai Sardegnoli»!
In quegli anni si stava costruendo la Direttissima Roma-Napoli, alla cui realizzazione lavoravano anche molti emigrati sardi, reclutati tra gli esperti minatori del Sulcis-Iglesiente e forse attratti dalla prospettiva di migliori salari, ma incuranti dei pregiudizi che accompagnavano i sardi un po’ ovunque, anche nel resto d’Italia, ormai unita da una cinquantina d’anni. Spesso erano considerati alla stregua dei «selvaggi», grossolani, violenti e prepotenti, insomma gentaglia da cui stare alla larga.

Nel 1911, circa cinquecento di essi erano acquartierati a Itri e sembra che anche lì, stando ai racconti tramandati, tra loro e la popolazione locale non corresse buon sangue. Sul lavoro, invece, erano ritenuti bravi e nessuno osava criticarli. Ciononostante gli emigrati sardi, chiamati «sardegnoli», percepivano salari più bassi rispetto agli altri lavoratori e, forse proprio per questo, così è stato detto, si rifiutavano di pagare il «pizzo» preteso dalla camorra (a quanto sembra fin d’allora presente in questo genere di appalti!) coalizzandosi tra loro in una specie di lega operaia di autodifesa.
In questo clima di forti contrapposizioni, il 12 e 13 luglio 1911 contro i sardi vennero organizzate (probabilmente dalla camorra) due imboscate successive a cui parteciparono centinaia di itrani compresi molti notabili, inizialmente nell’indifferenza delle forze dell’ordine. Le aggressioni, durate due giorni al grido di «morte ai Sardegnoli», furono così violente che fecero non meno di 8 morti e 60 feriti, tutti sardi.

L’opinione pubblica
E’ interessante notare che insieme a numerosi aggressori vennero arrestati anche alcuni operai sardi perché rissosi. In sede processuale in Corte d’Assise di Napoli, gran parte degli imputati furono assolti dai giudici popolari e solo nove condannati in contumacia a trent’anni di carcere. L’opinione pubblica aveva fatto propria la tesi della difesa dei presunti aggressori ritenendo che la rivolta della popolazione era una sorta di «legittima difesa» contro i sardi accusati di commettere «violazioni e prepotenze […] soprusi d’ogni genere». E’ probabile invece che i sardi fossero mal sopportati anche perché associati psicologicamente ai conquistatori piemontesi (entrambi appartenenti al Regno di Sardegna), che nel 1861 si erano annessi il Regno delle due Sicilie (a cui allora apparteneva Itri) e da allora si erano praticamente disinteressati del Meridione.
Sta di fatto che a lungo, nell’opinione pubblica i sardi vennero ritenuti i veri provocatori. Persino in Svizzera giunse l’eco di quei fatti e la notizia venne data in questi termini: «A Itri, provincia di Caserta, avendo un centinaio di operai sardi commesso violenze contro gli abitanti, un certo numero di questi ultimi, armati di fucili, li inseguirono [dando luogo] a scontri terribili, in cui tre operai vennero uccisi e molti furono feriti» (Journal de Genève del 16.7.1911). In realtà, come detto, i morti furono almeno otto e i feriti, alcuni gravi, almeno una sessantina.
Una certa retorica ha voluto e continua a vedere nell’ingiustizia subita dai sardi anche una vittoria morale di quei «selvaggi» ma onesti, che non abbassarono il capo, come gli itrani, alla prepotenza della camorra rifiutando di pagare qualsiasi pizzo. Quei sardi, considerati talvolta «martiri antesignani della lotta sindacale […] pagarono caro il prezzo della loro provenienza e cultura, ma la camorra, da quei fieri sardi, non vide neppure un soldo».

Un insegnamento? Intolleranza zero!
Probabilmente le vere ragioni dello scontro erano più complesse e non addossabili a una sola parte. Tanto è vero che durante il processo anche il Procuratore Generale non esitò a ripartire le responsabilità affermando anzitutto che secondo lui «i più prepotenti e arroganti erano i sardi e tra loro riuniti, per quello spirito di solidarietà che saldamente fuori la patria di origine avvince gli isolani, si davano all’orgia, disturbando la quiete pubblica e trascorrendo talora a private contese ed a reati contro la quiete pubblica». Quanto agli itrani egli affermò che «c’era da restarne offeso il sentimento d’italianità» (cit. da Pino Pecchia nel libro rievocativo «I Sardi a Itri»). In realtà anche le istituzioni dell’epoca (amministrazione, sindacati, forze dell’ordine) non furono all’altezza delle loro responsabilità e soprattutto non seppero né prevenire né intervenire in tempo.
Ben presto, tuttavia l’episodio venne completamente dimenticato e solo di recente riesaminato e ricondotto a quel clima di intolleranza e di razzismo, spesso mascherato ma altrettanto vero, che caratterizzava la società dell’epoca e in cui le vittime predestinate erano soprattutto gli immigrati, in Italia come nei grandi Paesi d’immigrazione.
Se si volesse trarre un insegnamento, visto che gli immigrati ci sono ancora, potrebbe essere quello della «intolleranza zero», nel senso che la violenza, soprattutto di gruppo, non può avere giustificazione alcuna nemmeno di fronte ai cosiddetti clandestini, extracomunitari, illegali, e a maggior ragione di fronte ai comunitari e ai regolari.

Giovanni Longu
Berna 13.07.2011