29 giugno 2011

Intervista all’on. Oskar Freysinger (UDC)

Con questa intervista all’on. Oskar Freysinger termina il primo ciclo d’interviste a personalità politiche svizzere. Anche questa, come le altre già pubblicate, vuol essere un contributo alla presentazione delle varie opinioni esistenti nel panorama politico svizzero su temi d’attualità e specialmente su problematiche che riguardano la politica migratoria svizzera e l’italianità nella Confederazione.
L’on. Freysinger, consigliere nazionale vallesano dell’Unione democratica di centro (UDC), durante una pausa tra una seduta e l’altra del Consiglio nazionale ha accettato volentieri di rispondere ad alcune domande.


L’on. Oskar Freysinger, 51 anni, vallesano, figlio di un immigrato austriaco degli anni ’50 (dunque appartenente alla cosiddetta «seconda generazione») è sicuramente uno dei politici più brillanti e combattivi non solo del suo Cantone (Vallese) e del suo partito (Unione democratica di centro UDC), ma anche dell’intera classe politica nazionale.
Le sue posizioni, molto contrastate, gli attirano forse in ugual misura amore e odio. Fa politica con passione e determinazione, battendosi specialmente per alcuni valori che ritiene irrinunciabili per la Svizzera quali il federalismo, l’identità nazionale, la democrazia diretta, i valori «cristiani» tradizionali. Per lui è quindi naturale difendere a spada tratta l’identità svizzera dagli assalti dell’islamismo radicale, dai pericoli degli stranieri criminali e dallo straripamento della libera circolazione europea.
Sposato con tre figli, poliglotta, insegnante liceale, scrittore e poeta ma soprattutto politico. Nel tempo libero ama la natura e la convivialità, scrive e recita canzoni, canta e suona la chitarra. In famiglia non si parla di politica.

Lei è uno dei politici non ticinesi più presente nei media di lingua italiana. Come mai parla così bene l’italiano?
Trent’anni fa, subito dopo il viaggio di nozze di tre settimane in Sardegna, che abbiamo girato in bicicletta, sono andato a Roma per un mese. Mezza giornata andavo a scuola per imparare l’italiano e il pomeriggio andavo in giro per conoscere la città. In seguito ho letto molti libri in italiano, soprattutto i classici, Verga, Calvino, Eco e altri. La lingua italiana mi piace molto.

Eppure nella discussione della legge sulle lingue nazionali, adottata nel 2009, Lei era spesso in minoranza, specialmente per questioni di costi. Secondo Lei il plurilinguismo non merita un adeguato intervento finanziario della Confederazione?
Vede, io sono favorevolissimo al plurilinguismo, tanto è vero che io stesso parlo cinque lingue e insegno tedesco in un liceo, ma il problema della conoscenza delle lingue nazionali non è di competenza della Confederazione ma dei Cantoni. Dunque non si può chiedere alla Confederazione di farsi carico di questo problema, se non nell’ambito dell’amministrazione federale, dove si deve garantire un’equa rappresentanza di tutte le componenti linguistiche. Nell’insegnamento delle lingue per essere efficace andrebbero sviluppati soprattutto gli scambi tra regioni linguistiche, ma questi sono di competenza dei Cantoni e delle singole scuole. La Confederazione può solo intervenire in forma sussidiaria.

Lei milita in un partito, l’UDC, che si distingue soprattutto per le sue posizioni restrittive in materia di politica degli stranieri. Lei stesso è stato uno dei protagonisti delle iniziative anti-minareti e per il rinvio degli stranieri criminali. Non le sembra che sia venuto il tempo di parlare degli stranieri in termini più positivi?
Sono d’accordo, gli stranieri sono una ricchezza e me ne rendo ben conto anche per la mia personale esperienza di figlio di padre straniero immigrato in Svizzera dall’Austria negli anni Cinquanta. Si tratta di una ricchezza evidentemente non solo culturale ma anche economica. Su questo punto tutti i partiti sono, a parole, d’accordo, ma nessuno salvo il mio ha il coraggio di dire che non ci sono solo stranieri buoni, ma anche stranieri criminali. Perché negarlo? Il mio partito, l’UDC, non ce l’ha con gli stranieri, ma con i criminali stranieri. Noi non vogliamo rimandare a casa gli immigrati entrati legittimamente, ma i criminali, perché non è normale che nelle nostre carceri il 70% dei detenuti siano stranieri.

Non le dà fastidio essere spesso definito «anti-stranieri», «anti-musulmani», «intollerante»?
No, perché la xenofobia non c’entra, come non c’entra l’anti-islam. Non sono né contro i musulmani né contro l’islam, ma contro il radicalismo islamico, la «sharìa», questo dogma intollerante, che fa le prime vittime proprio tra i musulmani che intendono integrarsi e soprattutto tra le donne, i bambini, gli omosessuali, ecc. Non possiamo permettere che i musulmani che rispettano le nostre leggi e vogliono integrarsi diventino ostaggio della minoranza radicale, che preferisce creare dei ghetti culturali, monoculturali, dove la legge dello Stato ha persino difficoltà ad imporsi, come avviene in altri paesi anche a noi vicini. Del resto, la stessa Corte dei diritti umani di Strasburgo ha detto che la «sharia» non è compatibile con lo Stato di diritto. Non possiamo essere «tolleranti» nei confronti della sharia. Noi abbiamo il diritto di difenderci. È normale che ogni società cerchi di proteggersi, di proteggere non solo i propri beni ma anche la propria identità.
La frontiera sotto questo punto di vista è una necessità. Quando si parla di «intolleranza» non ci si rende conto che è proprio la frontiera che rende possibile la tolleranza, perché presuppone una diversità. Anche tra me e Lei c’è una frontiera invisibile perché siamo diversi. Senza frontiere saremmo tutti uguali, mentre la frontiera garantisce la diversità, la ricchezza della diversità culturale, il multiculturalismo.

Sulla scia della vecchia destra nazionalista dell’inizio del secolo scorso e poi dell’Azione Nazionale di J. Schwarzenbach degli anni ’70, il suo partito intende lanciare una nuova iniziativa popolare volta a limitare l’afflusso di lavoratori dall’estero e rinegoziare l’accordo sulla libera circolazione. Perché è contrario alla libera circolazione? Non le dà fastidio di essere considerato «antieuropeo»?
Non mi dà alcun fastidio, perché quel che è giusto va detto e fatto anche se si incorre nelle critiche della stampa e delle opposizioni. Gli elettori del mio partito, ad esempio, non ci avrebbero mai perdonato se nel 1992 l’UDC e specialmente il signor Blocher non avessero impedito alla Svizzera di aderire allo Spazio economico europeo (SEE) e di aver impedito con ciò di diventare membro dell’UE. Senza il signor Blocher saremmo ora membri dell’UE e sarebbe per noi una catastrofe come per quei Paesi che si lamentano ora dei problemi che incontrano. Noi vogliamo mantenere la sovranità del nostro Paese, la sua indipendenza e la sua neutralità. Poiché su questo punto i nostri avversari non possono screditarci allora si servono della nostra politica un po’ più prudente in materia di stranieri per dire che noi siamo un partito xenofobo, razzista, antieuropeo. Ma non ci discreditano affatto, perché questo non è vero.
Il fatto che in Europa con l’apertura delle frontiere, lo Spazio Schengen e la libera circolazione delle persone si possa entrare e uscire praticamente senza controlli crea non pochi problemi al mercato del lavoro e sta provocando la distruzione della classe media e una insopportabile pressione sui salari che fa perdere il potere d’acquisto (basti pensare alla pressione esercitata in Ticino). Se trent’anni fa in una famiglia un salario bastava, ora ce ne vogliono due e talvolta non bastano nemmeno. In città come Ginevra o Losanna, una famiglia con un solo salario anche elevato si può considerare povera e questa non è un’evoluzione positiva, dovuta a una combinazione malsana tra socialismo e grande capitalismo neoliberale. Per evitare che la situazione peggiori, per mantenere un mercato sano, conservare il potere d’acquisto dei salari e salvaguardare la classe media ritengo, da conservatore, che le frontiere servano, anche da questo punto di vista, perché rappresentano piuttosto una protezione non un ostacolo agli scambi e alla circolazione.

Lei proviene da un Cantone, il Vallese, diventato prospero grazie anche all’immigrazione italiana degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del secolo scorso. Gli italiani nel Vallese ora sono molto integrati e praticamente non si distinguono dalla popolazione autoctona. Perché Lei e il suo partito non vi battete affinché il processo di integrazione sia intensificato ovunque in Svizzera?
L’esempio del Vallese è emblematico. Quando uno si vuole integrare lo può fare senza problemi; la Svizzera è in questo senso una società veramente aperta. Siamo rinomati per avere in Svizzera molti cittadini stranieri (21% della popolazione), senza contare tutti quelli che sono stati naturalizzati nei decenni passati. Se contiamo anche questi, oltre il 30% della popolazione svizzera ha origini migratorie. Il che significa che la maggior parte degli stranieri riesce a integrarsi benissimo. Del resto proprio gli italiani immigrati nel Vallese negli anni ’70 e ’80 lo dimostrano. Sono tutti integrati e specialmente la seconda generazione è assolutamente integrata. Sono sicuramente più svizzeri di molti svizzeri nativi. Io stesso che sono figlio di un austriaco venuto in Svizzera negli anni ‘50 sono, come si vede, perfettamente integrato. E’ soprattutto una questione d’interesse e di volontà individuale, ricordando che l’integrazione avviene principalmente nei club di sport, nella scuola, nelle associazioni ecc. Anche in questo campo lo Stato può fare ben poco, deve solo garantire un quadro generale entro cui i rapporti possano svolgersi liberamente.

La consigliera nazionale Ada Marra ha depositato a suo tempo un’iniziativa parlamentare per agevolare la naturalizzazione della terza generazione di stranieri. L’iniziativa è al momento bloccata in commissione a causa soprattutto dell’UDC. Non Le sembra che almeno la terza generazione debba poter essere naturalizzata fin dalla nascita? In fondo questi «stranieri sulla carta» non hanno altra patria che la Svizzera. Perché insistere a volerli considerare ciononostante ancora «non-svizzeri»?
Da tempo la sinistra sostiene l’idea che si debba concedere molto facilmente il passaporto svizzero agli stranieri della terza generazione, come vorrebbe anche Ada Marra. Sono d’accordo, ma solo dopo averne fatto la domanda, non automaticamente. Mi sembra normale fare la domanda per esprimere l’interesse a diventare svizzeri. Non si può infatti costringere uno straniero a diventare svizzero, anche se di terza generazione. La naturalizzazione va vista come l’ultimo passo di un’integrazione riuscita e non come il primo passo. Non ha senso dire «adesso diventi svizzero e poi eventualmente ti integrerai». Bisogna prima avere la certezza che uno sia integrato e poi è normale che diventi svizzero. Per la verità, tuttavia, già oggi l’accesso alla cittadinanza svizzera è estremamente facilitato per la terza generazione. Per coloro che hanno meno di dodici anni e ne hanno trascorso sei in Svizzera è molto facile avere il passaporto svizzero.

In Svizzera ci sono molti italofoni e la cultura italiana è la terza più importante. Perché non si riesce ad eleggere un consigliere federale italofono? E’ un problema di persone o, come dice l’on. Cassis, di mancanza di rispetto della terza Svizzera perché la parola «italianità» talvolta disturba svizzeri tedeschi e francesi? Lei è favorevole all’allargamento del Consiglio federale a 9 in modo che sia riservato almeno un posto alla Svizzera italiana?
Non credo che si tratti di mancanza di rispetto. E’ piuttosto un problema di numeri e di persone. Con 7 Consiglieri federali è difficile riservare un seggio a un italofono. Se però si trova una personalità ticinese di grande valore, la sua elezione non potrebbe essere esclusa. Certo sarebbe più facile con un allargamento del governo a 9 membri, ma Lei sa bene quanto sia difficile in Svizzera cambiare le istituzioni e poi si ha molta fiducia nella concentrazione del potere. Per questo si preferisce continuare a rimanere in 7.

La maggior parte degli stranieri presenti in Svizzera è costituita da domiciliati da molti anni. In alcuni Cantoni e Comuni, soprattutto della Svizzera romanda, hanno il diritto di voto. Non sarebbe auspicabile che il diritto di voto e di eleggibilità degli stranieri fosse generalizzato in tutta la Svizzera?
E’ vero, soprattutto nella Svizzera romanda in alcuni Comuni gli stranieri domiciliati possono votare; questo dipende dai singoli Cantoni. Ma se uno si sente così interessato alle questioni comunali tanto varrebbe che si naturalizzasse. In tal modo potrebbe votare anche a livello cantonale e federale.

Grazie, onorevole Freysinger e buon proseguimento di seduta.

L’on. Oscar Freysinger (d) intervistato da Giovanni Longu (foto gl)