20 aprile 2011

Disagio italiano, ma senza dimissioni!

Che si possa provare di tanto in tanto un certo disagio ad essere italiano è comprensibile! Di qui a farsi prendere dallo scoramento fino a lasciarsi conquistare dall’idea di «dimettersi da italiano» mi pare una conclusione né logica né responsabile. Un passo del genere supporrebbe da una parte l’inconciliabilità tra un modello di Italia eccessivamente ottimistico e una realtà vista come assolutamente negativa e, dall’altra, l’insopportabilità di una convivenza tra una coscienza di sé integralista e un presunto malcostume generalizzato e insanabile. Una tale visione è però talmente astratta da non poter essere giustificata nemmeno teoricamente.

Io capisco che ad un «italiano vero», soprattutto se vive all’estero, possa dare il voltastomaco il bombardamento quotidiano delle notizie negative provenienti dalla madrepatria. Mi rendo conto che non sia un motivo d’orgoglio appartenere allo stesso popolo che esprime alla grande mafia, 'ndrangheta, evasione fiscale, corruzione e numerose forme d’illegalità. Capisco anche che ogni cittadino italiano vorrebbe essere rappresentato solo da persone integerrime e governato da persone competenti e virtuose. Ma tutto questo è sufficiente per dimettersi da italiano? Non credo.

L’Italia non è ancora perduta!
Intanto va detto che ognuno è responsabile solo delle proprie azioni e non di quelle di altri e non esiste una responsabilità (penale) collettiva ma solo individuale. Diversamente, per un membro di un patronato ladro tutti i colleghi dovrebbero sentirsi ugualmente colpevoli, per un parlamentare che va in galera tutta la classe politica dovrebbe ritenersi delinquente e, massimo dei massimi, per un governante (presunto) corrotto tutti i governati dovrebbero vergognarsi delle cose che gli vengono attribuite e decidere magari di cambiare nazionalità. Una società sostanzialmente sana, come quella italiana, funziona diversamente: manda in galera i delinquenti, incarica i tribunali di verificare se gli indizi di reato sono veri reati o solo accuse infondate e cerca di farsi rappresentare e governare da persone che ritiene adeguate. Non ha senso, dunque, sotto questo profilo, vergognarsi di essere italiano, anche se, vivendo all’estero, non può che dispiacere la perdita di considerazione dell’Italia in Europa e nel mondo.
In secondo luogo, per quanto pessimisti si possa essere sull’Italia, non c’è dubbio che in un ipotetico bilancio il saldo anche morale ne risulterebbe nettamente positivo. Quel che funziona bene è sicuramente superiore a quel che funziona male, l’onestà sopraffà la disonestà, il bene supera il male. La stessa attività di governo, pur nelle sue manchevolezze e nei suoi ritardi, ha dimostrato di saper traghettare il Paese attraverso le tempeste finanziarie, economiche, migratorie, occupazionali, ecc. di questi ultimi anni. Sotto questo profilo, l’ottimismo non dovrebbe essere una forzatura. Del resto, un giornale serio e spesso critico nei confronti della politica italiana come la Neue Zürcher Zeitung proprio la settimana scorsa iniziava un lungo articolo a firma di Hans Woller con queste parole: «Nein, Italien ist noch nicht verloren», no, l’Italia non è ancora perduta!
In terzo luogo, credo che occorra stare attenti a non trasformare un disagio personale in un disagio universale e una coscienza integralista in un’accusa perenne degli altri. Prima di lanciare critiche o salire sulle barricate in nome di presunti principi violati ognuno dovrebbe avere il coraggio e l’onestà di esaminare da dove nasce il proprio disagio. Un italiano vero può sentirsi perfettamente a proprio agio o addirittura fiero di esserlo anche nella costatazione di molti difetti dello Stato, se alla base di questo stato d’animo c’è la consapevolezza della complessità e gravità oggettiva delle situazioni, la coscienza della problematicità delle soluzioni possibili (perché ogni soluzione è una scelta) e la disponibilità a fornire comunque il proprio contributo per migliorare la situazione. Chi è consapevolmente onesto e impegnato per il bene comune non può avere sensi di colpa e di vergogna.

Disagio o presunzione?
Si ha invece l’impressione che chi è sempre pronto all’indignazione, alla denuncia, alla colpevolizzazione e delegittimazione dell’avversario (politico), all’ostruzionismo parlamentare e alle manifestazioni di piazza abbia assunto come metro di paragone una presunta onestà morale, civile e politica posseduta pressoché in esclusiva. Purtroppo questa presunzione ha un difetto radicale: è unilaterale e non regge alla prova dei fatti. Si dà infatti il caso che il popolo sovrano, che in una democrazia matura anche se imperfetta è l’unico a dare patenti di legittimità e assegnare pagelle di efficienza, non si lascia governare solo da quella parte politica che si autocertifica come la più brava e la più onesta. Evidentemente qualcuno sbaglia, ma non può essere il popolo degli elettori.
Un po’ più di modestia, nella valutazione di sé stessi e degli altri, non nuocerebbe ad alcuno e sicuramente se ne avvantaggerebbe la democrazia e lo sviluppo del bene comune. In una barca, quando una parte pretende di sostituire l’equipaggio legittimamente insediato a governarla e per raggiungere l’obiettivo rema contro con tutte le sue forze, forse non riuscirà a farla affondare o a buttare a mare l’equipaggio, ma sicuramente ne rallenterà la corsa. Se, stando alla metafora, qualcuno dovesse provare disagio perché l’equipaggio resiste o dovesse addirittura provare vergogna di stare su quella barca, ebbene in tal caso, fuori metafora, costui farebbe bene a dimissionare da italiano.

Giovanni Longu
Berna, 20.4.2011

Frontalieri: risorsa o pericolo per il Ticino?

In Ticino, soprattutto durante la recente campagna elettorale e all’indomani del voto che ha premiato la destra ticinese, il «tema frontalieri» è tornato di grande attualità e con toni più aggressivi del solito. La Lega dei Ticinesi, vincitrice delle elezioni, sostenuta dall’Unione democratica di centro (un partito ancor più a destra della Lega) e non ostacolata dai partici di centro e di sinistra, non vede l’ora di rinegoziare l’accordo con l’Italia sui frontalieri risalente al 1974. Sembra insostenibile il ristorno da parte del Ticino ai Comuni italiani della zona di frontiera del 38,8% del prelievo fiscale alla fonte sui salari dei frontalieri.
Sui frontalieri si è inoltre innescata con una martellante pubblicità ingiusta e brutale la polemica circa il loro numero, ritenuto eccessivo, e la loro presunta funzione di sostituzione sistematica dei lavoratori indigeni facendo le sui bassi salari loro corrisposti. Come se non bastasse, a rinvigorire la polemica si è aggiunta dall’entrata in vigore degli accordi bilaterali Svizzera-Unione europea la contestazione dell’inosservanza degli accordi da parte dell’Italia sulla libera concorrenza delle imprese e addirittura la discriminazione delle ditte svizzere (ticinesi) in materia di appalti pubblici.
Queste polemiche, in aggiunta alla critica al ministro Tremonti di continuare a mantenere in vita una sorta di lista nera dei paradisi fiscali comprendente, almeno in parte anche la Svizzera, non fanno che contribuire al deterioramento dei rapporti italo-svizzeri almeno sul fronte sud. In queste ultime settimane, la politica ticinese si è spesso interessata al ministro dell’economia italiano, reputato dalla destra come il principale ostacolo alla normalizzazione dei rapporti italo-svizzeri. Ben poco risalto è stato dato, invece, all’unica notizia positiva di questo periodo, la prossima revoca delle discriminazioni nei confronti delle aziende svizzere negli appalti pubblici italiani. Si è addirittura letta questa decisione non tanto come un segnale di apertura del ministro, quanto piuttosto come una obbligata ottemperanza dell’Italia all’Unione europea (UE) a cui la Svizzera si era rivolta denunciando una procedura discriminatoria dell’Italia nei confronti delle ditte svizzere, contraria all’accordo del 1999 sugli appalti pubblici all’interno dell’UE.
Senza Tremonti, sembrerebbe, le relazioni italo-svizzere sarebbero migliori, viste anche le buone intenzioni di collaborazione manifestate dalla consigliera federale Doris Leuthard e dai ministri italiani Paolo Romano (sviluppo economico) e Altero Matteoli (infrastrutture e trasporti) nel loro incontro romano del 4 e 5 aprile scorso.
Per sbrogliare la situazione, la Lega dei Ticinesi, ora più forte di prima, fa appello alla Lega Nord di Umberto Bossi perché faccia anch’egli la sua parte. «Con Tremonti deve sciogliere il nodo dell’accordo sulla doppia imposizione, altrimenti con i frontalieri sarà guerra aperta e sospenderemo i ristorni ai Comuni italiani di confine». Giuliano Bignasca, padre padrone della Lega dei Ticinesi, sa bene che la questione è molto complicata e controversa e per di più è di competenza federale e non cantonale, ma col suo carattere scontroso e populista è capace di procurare danni e peggiorare la situazione. Tanto più che può contare su un alleato sicuro, Pierre Rusconi, presidente dell’Unione democratica di centro ticinese, l’ispiratore della campagna ingiuriosa contro i frontalieri, paragonati a ratti e ladri.

Appianare le divergenze
Per questo è necessario che l’Italia affronti urgentemente la questione e ristabilisca il tradizionale clima di collaborazione e amicizia tra i due Paesi. Non so cosa farà Bossi e cosa farà Tremonti, mi auguro solo che intervengano per chiarire la situazione e risolvere concordemente il contenzioso. Allo stesso tempo però mi auguro anche che il governo italiano intervenga con fermezza denunciando questa campagna ingiuriosa contro i frontalieri, che in queste vicende semmai sono solo vittime.
Trovo anche scandaloso che la politica ticinese, dove non c’è solo Bignasca e Rusconi che contano, non riesca ad affermare la verità sul contributo fondamentale dei frontalieri al benessere ticinese, sulla ininfluenza dei frontalieri sui livelli salariali, sulla grande utilità per il Ticino di avere una forza lavoro disponibile, capace e a basso costo per la cui preparazione non ha dovuto spendere nemmeno un franco, sull’importanza per le imprese ticinesi della libera circolazione non solo delle finanze e dei prodotti ma anche delle persone.
E’ stato dimostrato come due più due fa quattro che i frontalieri non portano via il lavoro ad alcun ticinese eppure li si continua a descrivere come ladri di posti di lavoro soprattutto nel terziario. Trovo particolarmente scandaloso che sotto sotto si considerino ancora i frontalieri come quegli immigrati del secolo scorso, soprattutto all’epoca della costruzione delle ferrovie e delle infrastrutture idroelettriche, che venivano chiamati a svolgere solo lavori snobbati dagli svizzeri perché particolarmente pesanti e pericolosi. La civiltà del lavoro, per fortuna, ne ha fatto di strada da un secolo a questa parte. Essa ha portato alla liberalizzazione del lavoro e alla libera circolazione delle persone, una risorsa più che un pericolo. Occorre tenerne conto oppure decidere di rinchiudersi in una sorta di ridotto ticinese, in cui però si rischierebbe di azzerare in poco tempo tutte le conquiste di un secolo di sviluppo.

Giovanni Longu
Berna, 20.04.2011