06 aprile 2011

Migranti albanesi, nordafricani e italiani: equazioni strampalate

Gli esodi degli ultimi mesi dal Nord Africa rievocano facilmente quelli degli anni Novanta dall’Albania. Le analogie in effetti sono molte. In entrambi i casi si tratta di fughe in massa dopo il crollo di regimi autoritari e corrotti da Paesi schiacciati dalla miseria o dalla povertà, accentuata dal contrasto con un apparente benessere del mondo cosiddetto libero. Nell’epoca della comunicazione (quasi) assoluta, le immagini dell’occidente opulento giungono ormai facilmente anche nei mondi tenuti rigidamente chiusi dai regimi dittatoriali ed è inevitabile che alimentino sentimenti d’insoddisfazione e l’aspirazione irrinunciabile alla libertà e al benessere. In queste condizioni, le difficoltà e i rischi non sono presi in considerazione e l’unico imperativo diventa fuggire, tentare.

Migranti albanesi e nordafricani
La prima nave albanese giunse in Italia vent’anni fa nel 1991 e portava un carico di umanità mai visto prima di allora. In pochi mesi sbarcarono nei vari porti delle Puglie oltre 25.000 persone. Erano giovani tra i 10 e i 35 anni che cercavano in Italia la libertà che non avevano mai conosciuto e l’affrancamento dalla miseria che avevano invece sempre conosciuto. Il flusso delle partenze continuò per mesi e per anni, sebbene in proporzioni molto inferiori a quello del 1991 e oggi non meno di 400 mila albanesi vivono in Italia, in condizioni generalmente regolari.
Ciò che è accaduto agli albanesi si sta ripetendo in questi mesi con i fuggitivi dal Nord Africa. Fino a pochi mesi fa non si registravano importanti flussi dalla sponda meridionale del Mediterraneo perché gli Stati rivieraschi, grazie ad accordi internazionali con i Paesi europei dell’altra sponda, si erano impegnati a impedirli. Si sapeva che prima o poi quelle valvole sarebbero saltate, perché in quell’area si stava agitando da tempo un vento di ribellione contro i vari regimi oppressori e corrotti. L’Europa non ha saputo (o voluto) interpretare correttamente e per tempo i molti segnali che giungevano da tutta la fascia settentrionale del continente africano e ha preferito rafforzare, soprattutto l’Italia, le buone relazioni (d’affari) con quei regimi perché quelle valvole in funzione antimigratoria tenessero.
Quando le rivolte sono scoppiate, le grandi potenze sono state colte impreparate. Le reazioni sono state inizialmente nulle, come se la sorpresa avesse paralizzato qualsiasi capacità d’intervento. Fortunatamente i vari regimi, tranne quello libico, sono caduti senza interventi esterni. Contro quello libico, invece, dopo vari tentennamenti, si è deciso a mio parere avventatamente d’intervenire militarmente senza nemmeno tentare soluzioni diplomatiche o mediazioni interafricane o interarabe. Non so se sarà risolutivo per la caduta del regime di Gheddafi, ma non credo che possa bastare per pacificare la regione e ancor meno per evitare i flussi migratori verso l’Europa.

I doveri dell’accoglienza e della solidarietà
Sta di fatto che, una volta saltate quelle valvole di contenimento della spinta migratoria dalla Tunisia, dall’Egitto e dall’Africa subsahariana, i flussi hanno ripreso forza creando non pochi problemi di accoglienza e di ordine pubblico soprattutto all’Italia, colta ancora una volta impreparata come ai tempi degli sbarchi degli albanesi. Invece di affrontare il problema nella sua tragica realtà, soprattutto i politici si sono lasciati andare nella disputa quasi surreale se le persone sbarcate a Lampedusa siano rifugiati, profughi, migranti normali o immigrati clandestini. Come se non fosse evidente che a queste persone si deve comunque e prima di ogni altra cosa prestare soccorso e assistenza trattandosi di esseri umani bisognosi di tutto, persino di una identità. E’ scandaloso sentire certi dibattiti in cui la provenienza e lo statuto di soggiorno sono anteposti alla stessa dignità propria della persona umana.
Purtroppo, nel disorientamento generale circa la linea di comportamento da tenere da parte dello Stato e della popolazione nei confronti di una massa spinta a migrare dal bisogno (comunque si voglia definire questo bisogno), anche da parte di persone benpensanti e favorevoli all’accoglienza degli sbarcati non tutti gli argomenti a sostegno del dovere dell’assistenza sono stati pertinenti. Mi riferisco in particolare al tentativo di alcune alte personalità della politica e del giornalismo di rafforzare la tesi della dovuta accoglienza e solidarietà richiamando l’epoca in cui anche gli italiani emigravano «clandestinamente». Come se non bastasse un generico dovere umanitario nei confronti di chi sta peggio di noi, queste personalità hanno creduto bene di invocare una sorta di dovere morale collettivo nel senso biblico di non fare agli altri quel che è stato fatto a noi, quando appunto ad emigrare «clandestinamente» eravamo noi.

Equazioni strampalate
Mi sembra un errore storico e politico paragonare i flussi migratori dall’Albania e dal Nord Africa con quelli italiani dell’Ottocento e del Novecento. Intanto non è corretto anche solo lasciar immaginare che ci possa essere un’equazione tra l’immigrazione clandestina moderna e l’emigrazione italiana. Quella attuale è concentrata nel breve periodo, quella italiana nel lungo periodo. Inoltre, l’accoglienza spesso contrastata e negativa nei confronti degli immigrati italiani non era affatto dovuta alla loro (inesistente) clandestinità, quanto piuttosto al loro numero e ai loro comportamenti. L’errore e la confusione mi sembrano tuttavia ancora maggiori proprio sotto il profilo della clandestinità.
Ho già affermato in altre occasioni che non si può qualificare l’emigrazione italiana come «clandestina» perché essa è sempre stata in larghissima misura legittima e regolare. Come non è sostenibile la tesi di una società «delinquenziale» perché ci sono in essa alcuni delinquenti, così non si può generalizzare l’emigrazione italiana sulla base di alcuni emigrati clandestini. Mentre l’immigrazione di questi giorni (come quella degli anni Novanta) è quasi interamente irregolare o clandestina, in tutta la storia ultracentenaria dell’emigrazione italiana i clandestini sono stati una minima parte, eccezioni e non la regola.
Gli italiani non potevano infatti imbarcarsi senza passaporto, neppure quando partivano «clandestinamente» dai porti francesi. In questi casi la «clandestinità» consisteva unicamente nel sottrarsi ad alcune limitazioni di carattere burocratico voluto da alcuni governi italiani per scoraggiare l’emigrazione. Basti pensare alla circolare Lanza del 1873 che imponeva ai prefetti un’attenta vigilanza sulle partenze con regolare passaporto e introduceva una cauzione di quattrocento lire in contanti o di una garanzia da parte di terzi per poter pagare le spese di rimpatrio di chi non fosse in grado di pagarle direttamente. Ma quanti potevano disporre di una tale somma, visto che i salari dell’epoca erano bassissimi? Per questo molti, ma sempre eccezioni, piuttosto che imbarcarsi nei porti italiani, preferivano partire «clandestinamente» dai porti francesi. Ma erano soprattutto clandestini dal punto di vista dell’Italia, non dei Paesi di arrivo.

Inesistente o limitata l’emigrazione «clandestina» verso la Svizzera
Inoltre non va dimenticato che ai tempi della grande emigrazione italiana i Paesi di destinazione erano generalmente carenti di manodopera, per cui soprattutto i giovani erano benvenuti, soprattutto se già pratici di qualche attività professionale. Oggi invece, purtroppo, i Paesi occidentali devono ancora superare la crisi e devono far fronte a una disoccupazione giovanile spesso a due cifre, come in Italia. Per di più l’Italia ha sempre avuto accordi d’emigrazione con quasi tutti i Paesi dov’erano diretti i flussi migratori italiani sia in America (Argentina, Uruguay, Brasile, Canada, ecc.) che in Australia e soprattutto in Europa (Francia, Belgio, Svizzera, Germania, Svezia, Olanda, ecc.). Con la Svizzera, poi, fin dal 1868 vigeva tra l’Italia e la Svizzera una sorta di accordo d’emigrazione che garantiva in sostanza la libera circolazione dei cittadini di entrambi gli Stati.
Durante una riunione italo-svizzera in cui la delegazione italiana si lamentava che la Svizzera lasciasse entrare troppi italiani «clandestini», la delegazione svizzera rispose che era solo una questione italiana se gli espatriati dovevano avere particolari autorizzazioni e timbri perché alla Svizzera era sufficiente un documento di riconoscimento (anche un passaporto turistico) e un contratto di lavoro.

L’immagine distorta di G.A. Stella
L’idea diffusa anche recentemente da Gian Antonio Stella con la sua brutta immagine dell’emigrazione italiana fatta di straccioni e delinquenti, «quando gli albanesi eravamo noi», non aiuta certo a capire quel che è stato il fenomeno migratorio italiano nel suo complesso. Non è pertanto condivisibile l’idea che dà dell’emigrazione italiana sottotitolando un capitolo del suo celebre saggio «L’orda»: «i nostri clandestini: via in massa oltre le Alpi e gli oceani».
L’emigrazione italiana fu ben altra cosa. Basti pensare alle sue realizzazioni anche solo in Svizzera. Proprio qualche giorno fa è stato ricordato il centenario della caduta del diaframma della galleria del Lötschberg. Ma i lavoratori italiani furono i veri protagonisti di tutte le altre grandi gallerie svizzere, a cominciare da quella San Gottardo, delle grandi infrastrutture idroelettriche, della rete autostradale, della grande urbanistica svizzera, della grande industria, ecc. Altro che clandestini!

Giovanni Longu
Berna 6.4.2011