16 febbraio 2011

Difesa d’ufficio dell’italiano

Periodicamente, a cadenza grossomodo quinquennale, i media in lingua italiana ripropongono all’opinione pubblica la problematica delle lingue minoritarie e specialmente dell’italiano. Così è stato attorno del 2000-2001 quando i primi dati provvisori del censimento davano l’italiano in forte calo rispetto al decennio precedente. Nel 2005-2006 l’occasione fu offerta dalla soppressione della cattedra d’italiano all’università di Neuchâtel. A cavallo tra il 2010 e il 2011 ad attivare i media è stata la prevista abolizione dell’italiano come materia specifica nei licei del Cantone di San Gallo.
Tra le prese di posizione degli anni passati e quelle attuali non ci sono grandi differenze. Tutte in generale invocano la pace linguistica, il rispetto delle minoranze linguistiche, la coesione nazionale, il plurilinguismo e persino «il principio fondamentale del federalismo». Si è trattato e si tratta per lo più di difese d’ufficio, spesso molto generiche e ideologiche, che in genere non producono alcun effetto pratico. Tanto è vero che al di fuori del Ticino e dei Grigioni l’italiano come lingua principale e come lingua parlata prosegue la caduta iniziata negli anni Settanta del secolo scorso. Nel frattempo si sono spesi fior di milioni per studiare il malato, a beneficio quasi esclusivo degli studiosi, ma non del malato stesso, che sta sempre peggio ad eccezione, forse, dell’amministrazione federale, dove la Confederazione cerca di imporre faticosamente e apparentemente senza risultati vistosi, il plurilinguismo.

Cause della diminuzione di italofoni
Tra le cause della diminuzione di italofoni vengono ricordate specialmente il venir meno del flusso migratorio dall’Italia e la progressiva integrazione delle seconde generazioni. Per completezza del quadro andrebbe forse ricordato anche che dalla seconda metà degli anni Settanta le autorità svizzere hanno imposto la chiusura progressiva di quasi tutte le scuole italiane nate a decine negli anni precedenti e che ai figli dei lavoratori italiani è stata praticamente imposta l’integrazione forzata nella scuola svizzera.
Non si è potuto negare loro l’apprendimento dell’italiano e di un’infarinatura di cultura italiana, ma da farsi per lo più al di fuori dell’orario scolastico quando i coetanei svizzeri potevano godersi il tempo libero o praticare ginnastica e sport. E’ mancata per almeno due decenni una strategia d’integrazione capace di valorizzare la lingua e la cultura italiane come valori fondanti della Svizzera moderna plurilingue e multiculturale. Il risultato è che già nel 2000 oltre il 64 per cento degli italiani dai 7 ai 24 anni non aveva più l’italiano come lingua principale. La situazione è sicuramente peggiorata nell’ultimo decennio, nel senso che oltre alla diminuzione degli italofoni è diminuita anche la qualità della lingua parlata.
Un altro elemento di cui in queste settimane si parla poco è che la difesa dell’italiano fuori del Ticino è stata lasciata praticamente alla sola Italia, come se l’italiano riguardasse solo i cittadini italiani destinati, come si riteneva fino agli anni Ottanta, ad un rientro in patria al termine dell’età lavorativa. L’Italia ha fatto sicuramente molto finché ha potuto e voluto, ma da alcuni anni sembra aver tirato i remi in barca soprattutto per ragioni finanziarie (e mancanza di visioni). La collaborazione Italia-Svizzera in questo campo non ha funzionato o ha funzionato molto poco e in maniera sporadica.

Responsabilità del Cantone Ticino
Il Cantone Ticino, che dovrebbe essere il difensore per eccellenza dell’italianità (e non solo dell’italiano) della Svizzera è stato sistematicamente assente o comunque pochissimo presente, forse in nome del principio di territorialità delle lingue (v. riquadro), che è servito fra l’altro a molti Cantoni per esercitare nei confronti delle minoranze alloglotte (per esempio quella italiana) una forte politica di assimilazione. Del resto è anche grazie a questo principio che il Ticino ha potuto «assimilare i figli e i nipoti degli svizzero-tedeschi che nel corso del Novecento si erano trasferiti nella Svizzera italiana» (N. Stojanović).
In questa occasione, in difesa dell’italiano a San Gallo è intervenuto anche il Consiglio di Stato ticinese. Vorrei che fosse di buon auspicio, visto che a mia memoria non è mai intervenuto fuori del Cantone probabilmente per non interferire nelle competenze esclusive o preminenti di altri Cantoni, in questo sostenuto anche da un «parere giuridico» che aveva commissionato nel 2000 e che sembrava escludere la possibilità per un Cantone di adottare misure d’incoraggiamento delle lingue (soprattutto nel campo dell’insegnamento) fuori del proprio territorio.
All’epoca avevo obiettato che esistevano anche altri pareri secondo cui il Ticino (e i Grigioni) potrebbero senz’altro attivarsi maggiormente fuori del Cantone, anche perché il capoverso 5 dell’articolo 70 della Costituzione non lo esclude: «La Confederazione sostiene i provvedimenti dei Cantoni dei Grigioni e del Ticino volti a conservare e promuovere le lingue romancia e italiana». Che il Ticino potesse utilizzare una parte dei finanziamenti federali fuori del Ticino me lo confermò la stessa Consigliera federale Ruth Dreifuss, secondo cui quel contributo non dev’essere speso esclusivamente nel Cantone.

Sostegno finanziario e non solo politico
Inutile chiedere quanti franchi il Cantone Ticino ha finora speso nella Svizzera tedesca e francese per la salvaguardia dell’italiano. E’ importante semmai che lo faccia d’ora in avanti, visto che un suo intervento anche finanziario è apparentemente rivendicato pure da un alto funzionario cantonale, il responsabile della Divisione scuola prof. Diego Erba. Già nel 2003 egli sosteneva che «agli sforzi in atto in Ticino per rafforzare l’italiano si deve affiancare un corrispondente impegno esterno: è un dovere che ci spetta perché regione e cultura di minoranza in Svizzera». E l’ha ripetuto anche recentemente (TSI, Contesto del 10.2.2011) sostenendo che «come Ticino ma anche come Cantone Grigioni dovremmo impegnarci a promuovere la lingua e la cultura Oltralpe non solo in ambito scolastico ma anche nell’ambito della società». A meno che il prof. Erba intenda che l’intervento ticinese debba limitarsi a qualche intervento formale.
Va aggiunto che l’ostacolo della territorialità oggi potrebbe essere facilmente superato alla luce della nuova ordinanza sulle lingue che prevede espressamente all’art. 23 che la Confederazione concede «aiuti finanziari al Cantone Ticino per sostenere attività sovraregionali di organizzazioni e istituzioni, segnatamente per: a) progetti di salvaguardia e promozione del patrimonio culturale; b) misure di promozione della creazione letteraria; c) l’organizzazione e lo svolgimento di manifestazioni linguistiche e culturali». Chiaro?
A questo punto la domanda è semplice: il Cantone Ticino intende spendere fuori del Ticino qualche franco del contributo federale che riceve annualmente per la promozione dell’italiano oppure ritiene di esaurire i suoi compiti con qualche lettera di «dissenso e rammarico» e qualche intervento politico? Non si tratta di interferire nella sovranità di altri Cantoni, ma di sostenere iniziative private di enti, organizzazioni e persone volte a promuovere e valorizzare il ricco patrimonio linguistico e culturale italiano.

Soprattutto esempi
Pur ritenendo utili la protesta e il richiamo ai valori del plurilinguismo e della coesione nazionale per mantenere alto il livello di attenzione sulle sorti dell’italiano nella Svizzera tedesca e francese, non credo che siano risolutivi e nemmeno molto efficaci né a San Gallo né a Berna né a Zurigo o altrove dove si registra da anni una flessione continua di allievi che alla maturità scelgono l’italiano. In molti licei svizzeri ormai persino lo spagnolo sopravanza l’italiano.
Non credo nemmeno che, al punto in cui si è giunti, potrebbe invertire la tendenza un forte intervento delle politiche linguistiche federale e cantonali. A che servirebbe, infatti, tenere aperti «politicamente» certi corsi di italiano se la domanda scarseggia o è ridotta a livelli insostenibili finanziariamente? Tanto varrebbe concentrare gli sforzi su interventi più mirati e più concreti. Gli italofoni dovrebbero, almeno in questo, imitare i francofoni, che cercano di usare il francese ogniqualvolta ne hanno l’opportunità, e spesso ci riescono.
Sta soprattutto agli italofoni salvare l’italiano servendosene il più possibile. Evidentemente l’esempio come al solito dovrebbe venire dall’alto. E non lo danno certo quei consiglieri nazionali ticinesi che rinunciano all’italiano «quando vogliono farsi capire e ascoltare» in Consiglio nazionale. Non danno nemmeno un buon esempio rappresentanti di associazioni italofone ticinesi e grigionesi quando rinunciano a partecipare all’organizzazione di manifestazioni «italiane» o «italofone» magari perché l’iniziativa non è partita da loro. E giusto per restare agli esempi concreti, trovo che non sarebbe inutile se nelle associazioni degli italiani, nei partiti politici, nei media in lingua italiana si prendesse l’impegno di far capire ai loro membri e alle loro famiglie che imparare l’italiano o perfezionarlo è utile. Che la conoscenza anche dell’italiano arricchisce non solo culturalmente ma può arricchire anche economicamente. Dopodiché può senz’altro giovare alla causa anche la pressione sugli enti pubblici, sui Cantoni, sui Comuni, sulle direzioni dei musei, della posta, dell’ufficio delle imposte, degli ospedali, delle case per anziani, ecc. perché favoriscano l’uso e la comprensione di tutte le lingue nazionali, italiano compreso.

Giovanni Longu
Berna 16.2.2011


Principio di territorialità
Il principio di territorialità delle lingue si basa sull’articolo 70 capoverso 2 della Costituzione federale che recita: «I Cantoni designano le loro lingue ufficiali. Per garantire la pace linguistica rispettano la composizione linguistica tradizionale delle regioni e considerano le minoranze linguistiche autoctone». In base a queste affermazioni sono i Cantoni che designano la lingua o le lingue ufficiali nel loro territorio. Per quanto concerne le altre lingue nazionali la Costituzione impone ai Cantoni unicamente di «rispettare la composizione linguistica tradizionale delle regioni» (nei Cantoni bilingui o plurilingui) e li invita, senza alcuna imposizione vincolante, a «considerare le minoranze linguistiche autoctone».