12 gennaio 2011

2011 e il senso dello Stato

Per gli italiani il 2011 è un anno speciale, non solo per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ma anche perché è possibile che entro l’anno si torni a votare. I due eventi, l’uno certo e l’altro ancora incerto ma probabile, non hanno apparentemente nulla in comune. In realtà hanno un legame molto stretto e forte: un’idea dell’Italia che evolve. 150 anni fa si trattava di dare a tutti gli italiani divisi in tanti Stati un’unica Patria, oggi si tratta di ravvivare negli italiani quel senso di appartenenza a un’Italia che cambia.
Non è possibile, nel breve spazio di questa rubrica, riscrivere sia pure a puntate la storia d’Italia (anche se continuerà la serie dedicata ai suoi 150 anni), ma è giusto sapere che l’unificazione dei popoli della Penisola non avvenne ovunque pacificamente, ma costò anche molto sangue. Inoltre l’adesione alla nuova Patria, nella forma unitaria voluta dai Savoia, non fu affatto unanime. Vanno perciò compresi coloro che non si sentono particolarmente felici dell’anniversario e magari preferiscono non festeggiare. Del resto, è sotto gli occhi di tutti che molti problemi di allora non sono stati ancora risolti. Basti ricordare quelli del Mezzogiorno, sempre in via di soluzione e mai risolti, il problema dell’equità finanziaria e sociale, gli squilibri nel sistema formativo, amministrativo, sanitario, il degrado ambientale, ecc.

Un anniversario per riflettere
L’anniversario di quest’anno è di quelli che invitano più che a celebrare a riflettere sul passato e soprattutto a volgere lo sguardo al futuro. Il 150° può essere una buona occasione non tanto per ripercorrere 150 anni di storia, complessa e controversa, o per celebrare vittorie (dimenticando le sconfitte), personaggi e simboli del passato, quanto per domandarsi perché oggi in Italia ci sono ancora così tanti conflitti, alcuni dei quali esasperati, così tanti problemi istituzionali, sociali, generazionali, ambientali, tante speranze insoddisfatte.
Nei trattati di diritto costituzionale si parla della distinzione e separazione dei tre poteri fondamentali dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) come di una garanzia del funzionamento democratico di un Paese, a salvaguardia soprattutto degli interessi dei cittadini. In Italia, a seguire le cronache, è invece una continua disputa tra questi tre poteri e non è affatto vero che hanno pari dignità. Lo si nota chiaramente nel linguaggio di molti politici ma anche di qualche magistrato. Sembra di essere in presenza di una lotta fra caste. Altro che concorrere democraticamente al bene comune!
I conflitti interistituzionali hanno preso a tal punto il sopravvento che in certi momenti si ha l’impressione che nessuno dei tre poteri si occupi veramente dei problemi reali degli italiani. Lo Stato, che dovrebbe essere al servizio del popolo, sembra essersene dimenticato, salvo ad appellarsi a lui ogniqualvolta fa comodo: «in nome del popolo italiano» sentenziano i giudici (anche quando sbagliano), al popolo fa appello il governo per legittimare il suo esistere, magari stentato, e persino le opposizioni, anche le più scalmanate, pretendono di «far fuori il tiranno» in nome dello stesso popolo italiano… straccionato come si vede da ogni parte!

L’anno del cambiamento?
Non so se nel 2011 gli italiani torneranno a votare, ma quando prima o poi dovranno farlo, sarebbe auspicabile che il popolo si riprendesse i suoi diritti, facendo piazza pulita della casta, eleggendo persone in grado di rappresentarlo, per dignità e competenza, e non mestieranti di lungo corso della politica che scambiano una missione temporanea con una professione a tempo indeterminato. Stavolta non si dovrebbe esitare a rinnovare l’intera classe dirigente dei partiti, divenuti veri centri di potere conservatore, «rottamando» (per usare un’espressione colorita ma efficace del sindaco di Firenze Matteo Renzi) la vecchia nomenclatura politica italiana. Dovrebbe apparire a tutti molto strano che mentre la società civile si rinnova, il sistema politico italiano resta ingessato, perché forze contrapposte ne impediscono il cambiamento.
Per evitare che i politici si affezionino troppo al potere basterebbe che già l’attuale Parlamento introducesse limiti temporali vincolanti per ogni mandato: due o tre legislature al massimo. In ogni caso, le prossime elezioni potrebbero essere l’occasione di un radicale ringiovanimento della classe politica. E non deve apparire un’utopia pensarlo perché ci sono già molti giovani, uomini e donne, in grado di sostituire i vecchi e di mettere a disposizione della cosa pubblica (res publica) le loro fresche competenze e la volontà di rappresentare gli interessi comuni.

Avanti col federalismo!
Per riprendere il controllo della politica e, indirettamente, delle istituzioni, gli italiani hanno bisogno di una buon forma di federalismo. Le regioni, e in misura analoga gli altri enti territoriali, possono essere considerate veramente responsabili solo se hanno la necessaria autonomia (soprattutto finanziaria) per svolgere le loro funzioni. Lo Stato dovrà vigilare perché le regole fondamentali della gestione della cosa pubblica (salute, assistenza, ecc.) siano osservate da tutte le regioni, ma dovrà anche applicare e far applicare i principi del federalismo che sono la responsabilità e la solidarietà. I cittadini e lo Stato non dovrebbero più tollerare governi regionali spendaccioni e irresponsabili (le cronache dei giorni scorsi hanno ampiamente documentato la situazione in alcune regioni meridionali e insulari). Il principio della solidarietà (così bene espresso in Svizzera: «tutti per uno – uno per tutti») dovrebbe valere non per sanare i guai di una cattiva gestione, ma unicamente per aiutare i governi virtuosi.
Finora di federalismo si è solo discusso (spesso purtroppo molto confusamente), occorre che si passi alle applicazioni, in modo che tutti i governi regionali conoscano le loro possibilità e le loro responsabilità e i cittadini abbiano la possibilità di verificare e confermare gli amministratori virtuosi o mandarli a casa se ritenuti incapaci. Il federalismo è sicuramente una sfida ma non un azzardo. La paura della secessione strisciante delle regioni ricche dalle regioni povere è esagerata ad arte, perché il vero federalismo serve a rafforzare l’unità, non a romperla. Chi si ostina a contrapporre meridionalismo a nordismo non agevola l’unità, ma favorisce la disgregazione. E non è nemmeno vero che il federalismo favorisca l’egoismo: semmai favorisce il senso di responsabilità.

2011 l’anno della crescita?
Lo sperano tutti, ma non tutti si danno da fare perché si realizzi. Molti italiani vorrebbero che la crescita avvenisse a prescindere dalla situazione internazionale, ma anche dalla situazione interna caratterizzata da un enorme debito pubblico che pesa come un macigno sulle finanze dello Stato e da un continuo scaricamento di responsabilità. Molti attribuiscono eccessive responsabilità al Parlamento o al Governo, dimenticando che le leggi del mercato le fanno non i legislatori e i politici ma l’economia, produttori e consumatori. Molti cittadini ritengono inoltre di non aver proprio nulla da offrire e aspettano che lo Stato provveda. Come se nei confronti dello Stato i cittadini fossero tutti creditori e solo pochissimi debitori.
Credo che il disagio italiano di fronte alla mancata crescita come di fronte a molti altri problemi sia solo in parte comprensibile. Mi spiego con un esempio, ricordando le polemiche dei mesi scorsi sulla riforma universitaria. Molte critiche al governo erano giustificate, perché è suo compito ripartire intelligentemente le risorse disponibili e all’università e alla ricerca purtroppo ne vengono attribuite tradizionalmente troppo poche. Ma il disastro del sistema formativo italiano, messo a confronto con quello di altri Paesi comparabili, non può essere imputato solo agli scarsi finanziamenti.
Molti giovani non hanno capito che nel mondo globalizzato caratterizzato da economie concorrenti la spunta sempre più il merito e non la raccomandazione o il semplice titolo di studio. E il merito non è mai dato ma va conquistato col lavoro e con lo studio. Fanno dunque bene gli studenti a chiedere, ma senza dimenticare che la loro riuscita dipenderà soprattutto dalle loro capacità e dai loro sforzi. Il «diritto allo studio» non è una specie di anticipazione del «diritto al posto di lavoro», ma solo la possibilità, che dev’essere garantita a tutti, di potersi preparare per concorrere a un posto di lavoro. La preparazione è soprattutto un compito individuale. Il titolo di studio non è (più) la carta vincente per ottenere un posto di lavoro possibilmente sicuro, di prestigio sociale e ben retribuito.

Uscendo dal mondo della scuola e generalizzando, il 2011 potrebbe essere soprattutto per l’Italia l’anno in cui si dimentica un po’ lo Stato-istituzione e si riflette maggiormente sul senso dell’appartenenza di tutti allo Stato, sapendo che ogni individualità ne riflette in piccolo, il bene e il male. Sta alla responsabilità di ciascuno far sì che il bene cresca e si diffonda.

Giovanni Longu
Berna, 12.1.2010