09 giugno 2011

Voto amministrativo sull’onda dell’indignazione

In Italia si è spenta l’eco delle analisi a caldo delle recenti votazioni amministrative. I giochi son fatti. C’è chi si è esaltato per la vittoria (inattesa) e chi ha dovuto ammettere a denti stretti la sconfitta. Se è tuttavia facile indicare con nome e cognome i candidati risultati vincitori e perdenti, mi pare più difficile individuare l’appartenenza partitica e ideologica dei loro sostenitori. Gli esempi clamorosi di Milano e Napoli indicano chiaramente che le espressioni ormai da troppo tempo abusate di centrosinistra e centrodestra sono insufficienti e inadeguate per definire l’area di appartenenza degli elettori. Chi ha vinto e chi ha perso in realtà?

Per rispondere a questa domanda occorre anzitutto ricordare che in un periodo di crisi, anche se in via di superamento, gli elettori «puniscono» generalmente il governo di non aver fatto abbastanza per evitare o superare velocemente la crisi. Questa reazione antigovernativa c’è stata praticamente in tutti i Paesi europei dove in questi ultimi anni e mesi si sono svolte elezioni parziali. Poteva fare eccezione l’Italia? Certamente no. Il segnale inviato dagli elettori al governo non poteva non esprimersi che «punendo» nelle varie realtà locali le componenti di quella che a livello nazionale è la coalizione parlamentare più omogenea che lo sostiene, senza per altro voler significare che «premiava» i partiti dell’opposizione, quanto mai eterogenea sul piano nazionale e senza una leadership comune. Gli elettori che hanno eletto sindaco di Milano Giuliano Pisapia al posto di Letizia Moratti, voterebbero alla stessa maniera anche nel caso di elezioni politiche nazionali? E i sostenitori del nuovo sindaco di Napoli Luigi De Magistris voterebbero in massa per il partito di Di Pietro? C’è da dubitarne, visto che Pisapia non è l’espressione del partito che guida l’opposizione e De Magistris ha vinto sia contro l’esponente del centro-destra che contro la coalizione di sinistra che aveva governato finora Napoli.
Liberazione da chi o da che cosa?
Le attuali opposizioni hanno voluto vedere nella sconfitta dei candidati espressi dalla maggioranza di governo una conferma del tramonto della coalizione Lega-PdL, a tal punto che quasi all’unanimità i principali leader delle opposizioni hanno chiesto le dimissioni del governo. Mi sembra una lettura esagerata dei risultati elettorali. Non c’è nessun nesso tra le sconfitte elettorali di Milano e Napoli e la legittimità di continuare a governare di Berlusconi. Un governo nazionale cade se non ha la maggioranza in Parlamento o alla scadenza del mandato, non perché il sindaco Pisapia ha dichiarato di aver «liberato» Milano (da chi o da che cosa, da quale dittatura?) e un De Magistris ex-magistrato forcaiolo ha dichiarato lo stesso a Napoli, prima ancora di aver risolto alcuno dei problemi di queste due grandi città.
Non c’è dubbio che anche il voto amministrativo ha una valenza politica nazionale, ma ritengo che la sconfitta elettorale dei partiti di governo sia un ammonimento, non una definitiva condanna. Ma l’ammonimento vale anche, almeno in una certa misura per le opposizioni, troppo eterogenee per poter governare. Tuttavia, più che voler leggere i risultati elettorali come un voto a favore o contro gli attuali schieramenti sul piano nazionale, mi pare che essi diano a tutte le forze politiche un forte segnale di condanna dell’attuale sistema di far politica, imperniato sulla contrapposizione e l’ostilità tra schieramenti che tentano di delegittimarsi a vicenda, e a favore di un modo nuovo di far politica più vicino ai problemi della gente, meno litigioso e più collaborativo. Bene han fatto, perciò, Fassino, Pisapia, De Magistris e altri, subito dopo l’euforia della vittoria, a dichiararsi sindaci dell’intera collettività amministrata, intenzionati a governare al di fuori della contrapposizione sterile degli schieramenti. Naturalmente non bastano le buone intenzioni, ma occorrono i fatti.
Gli «indignados» e la rivoluzione etica
Il voto delle amministrative italiane rassomiglia molto al voto delle amministrative spagnole, che ha penalizzato fortemente i socialisti del governo Zappatero dando un vantaggio persino insperato all’opposizione di centro-destra. Parlando recentemente in Spagna con alcuni esponenti degli «indignados» mi è parso tuttavia chiaro ch’essi non sono tanto interessati a una politica di centro-destra o di centro-sinistra ma a una politica che risolva i problemi della gente in materia di giustizia sociale, uguaglianza, progresso, solidarietà, diritto alla casa, al lavoro, alla cultura, alla salute, alla partecipazione politica, ecc. Confesso che nell’ascoltarli parlare con tanta passione ma anche con molta lucidità provavo la loro stessa indignazione, perché mi sembrano inaccettabili, nelle nostre società, livelli di disoccupazione giovanile superiori al 40%, sistemi di potere che accentuano le disuguaglianze sociali, l’accumulazione del denaro in mano di pochi e la crescita della povertà, la partitocrazia fine a sé stessa, la corruzione, ecc. ecc.
«Occorre una Rivoluzione Etica» vanno dicendo gli «indignados». Credo che anche in Italia, col loro voto, gli elettori di tutti gli schieramenti hanno inteso gridare la stessa indignazione e rivendicazione. Sta ora soprattutto ai politici, ma anche a tutti i cittadini, fare la loro parte perché questa rivoluzione, con meno parole e più fatti, si realizzi.
Giovanni Longu
Berna, 8.6.2011.

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