15 dicembre 2010

L’integrazione, questa sconosciuta!

Se ne parla da oltre un secolo, è stata analizzata da molti punti di vista, su di essa sono stati pubblicati un’infinità di studi, il legislatore è intervenuto molte volte al riguardo, ma il problema dell’integrazione resta sempre attuale e di difficile soluzione.
Cos’è davvero l’integrazione? La difficoltà a formulare una risposta chiara con un minimo di concretezza è dovuta alla complessità del fenomeno e all’impossibilità di ridurre l’integrazione a una sorta di formula chimica perché non se ne conoscono a sufficienza tutte le componenti. Anche a questa difficoltà e impossibilità è dovuta la politica per nulla lineare e coerente delle autorità svizzere nei confronti degli stranieri durante buona parte del secolo scorso. Solo in questi ultimi decenni si è tentato un approccio più realistico e meno ideologico degli stranieri sotto il profilo della loro integrazione.

E’ misurabile l’integrazione?
Semplificando la questione, due sono soprattutto le domande che ci si pone attualmente: Quali sono gli indicatori dell’integrazione? Sono misurabili? In effetti solo alla luce di una serie di indicatori e attribuendo a ognuno di essi una particolare ponderazione è possibile «misurare» l’integrazione degli stranieri in una società ospite.
Ancora oggi si sentono spesso, in riferimento a individui o gruppi, giudizi del tipo: è integrato, non integrato, poco integrato, non ancora ben integrato, perfettamente integrato, ecc. Tutti questi giudizi, tuttavia, sono molto generici perché fanno riferimento, implicitamente, a una «misura» che in realtà ha ben poco di oggettivo, essendo il frutto per lo più di una percezione soggettiva. Se si andasse a cercare qual è questa «misura» si scoprirebbe facilmente che per ognuno è diversa, se non altro nella sua modalità. Probabilmente tutti i partecipanti all’ipotetico sondaggio risponderebbero che questa misura (o una misura fra altre) sarebbe la «conoscenza della lingua locale». Se però si analizzassero il grado, il tipo, l’ampiezza di questa conoscenza, è facile immaginare che le divergenze sarebbero enormi.
In realtà, chi in quest’ultimo secolo di immigrazione in Svizzera si è posta seriamente la domanda in modo più articolato, si è reso facilmente conto che l’integrazione non è misurabile col riferimento a un unico indicatore, ma solo prendendone in considerazione più d’uno, a cui spesso poco si pensa. Basti pensare all’informazione, all’abitazione, alla durata del soggiorno, ecc. ecc.

Un corso sull’integrazione all’UNITRE di Soletta

All’UNITRE di Soletta sta per iniziare un corso articolato in sei lezioni che intende dare risposte convincenti alle domande indicate innanzi. Si farà partendo non da una teoria sociologica, ma da un’analisi storica che per gli italiani è ricchissima d’insegnamenti. La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera può infatti essere definita come un percorso lungo e spesso difficile d’integrazione. Partendo da dati e fatti verrà analizzato dapprima (seguendo il filo della storia) uno stato di non integrazione e successivamente uno stato di vera o presunta integrazione allo scopo di evidenziare alcuni indicatori oggettivi e misurabili.
Lungo questo percorso verranno messe in evidenza via via caratteristiche che hanno rappresentato elementi favorevoli o sfavorevoli all’integrazione. Basti pensare all’atteggiamento individuale e collettivo degli italiani nei confronti del lavoro, del vitto, dell’alloggio, della società indigena, delle relazioni sociali, delle istituzioni pubbliche, della vita di quartiere, ecc. Ma si pensi anche alla legislazione favorevole o sfavorevole all’integrazione, all’atteggiamento di apertura o chiusura della popolazione locale nei confronti degli stranieri, alla presenza o assenza di strutture d’integrazione (centri di contatto, gruppi sportivi, ritrovi aperti o chiusi, ecc.), all’atteggiamento dell’opinione pubblica, ecc.
Alla fine del corso ogni partecipante avrà sicuramente una visione più ampia e più approfondita di quella caratteristica individuale e di gruppo che abitualmente chiamiamo senza troppi aggettivi «integrazione», ma che in realtà è una somma di caratteristiche e di numerose modalità. Sarà anche un’opportunità per misurare la propria «integrazione» e la propria capacità «integrativa».

Giovanni Longu
15.12.2010

Plurilinguismo e italiano nella Svizzera tedesca

A tirar le somme sul plurilinguismo elvetico si sarebbe tentati di affermare che il 2010 si sta per chiudere molto positivamente. Da anni si aspettava una legge e la relativa ordinanza sul plurilinguismo elvetico ed entrambi gli strumenti sono stati perfezionati e messi in vigore. La Deputazione ticinese alle Camere federali può andare fiera di aver visto coronati dal successo i propri sforzi in due direzioni: dapprima nel vedere accresciuto il finanziamento della Confederazione al Cantone Ticino per il promovimento dell’italiano e poi anche nel seguito dato dal Governo e dal Parlamento alle mozioni dell’accoppiata del senatore Filippo Lombardi e del deputato Ignazio Cassis che rivendicavano una sorta di ombudsman del plurilinguismo con la nomina del «delegato al plurilinguismo». Persino lo studio molto complesso ed elaborato del Fondo nazionale svizzero ha finito per concludere, dopo cinque anni di ricerca, che «in Svizzera il plurilinguismo funziona bene, ma il potenziale linguistico presente nel Paese potrebbe essere sfruttato meglio» (Swissinfo) e che «il plurilinguismo rappresenta più una risorsa che un problema» (prof. Sandro Cattacin).

Con tono vistosamente ottimistico, rafforzato da un ricco buffet accompagnato dai migliori vivi ticinesi, il 6 dicembre scorso la Deputazione ticinese alle Camere federali ha salutato il numeroso pubblico italofono convenuto al Kursaal di Berna, per ricordare che il 2010 è stato un anno importante per la diversità culturale e linguistica della Svizzera e pieno di successi per la Deputazione ticinese. A sottolineare il carattere fausto dell’anno che sta per concludersi, all’incontro era presente non solo la Deputazione quasi in corpore, ma anche una delegazione di alto rango del Cantone Ticino e il nuovo delegato federale al plurilinguismo, che ha presentato il suo piano di lavoro.

Ma l’italiano ne esce rafforzato?
Col rischio di apparire pessimista, la mia risposta è purtroppo negativa. Rispetto alle aspettative e rispetto anche a quel che ragionevolmente sarebbe possibile realizzare nel campo della valorizzazione dell’italiano, i segnali anche nel 2010 non sono affatto positivi. Ovviamente il quadro di riferimento non è il Ticino, ma il resto della Svizzera. L’italiano perde conoscitori e parlanti e l’offerta culturale in italiano diminuisce a vista d’occhio, anche a causa di un progressivo disimpegno dello Stato italiano.
Sul fronte dell’analisi è facile costatare la diminuzione dei migranti italofoni, la sensibile perdita d’italianità nelle seconde e terze generazioni, l’avanzamento dell’inglese, l’accentuazione germanofona dell’amministrazione federale, la mancanza di un Consigliere federale italofono da oltre un decennio, la massiccia riduzione di alti funzionari italofoni, il disimpegno del Cantone Ticino a promuovere e sostenere la lingua e la cultura italiana fuori dal proprio territorio, ecc.
Sul fronte dei rimedi c’è ben poco da segnalare, anche perché a poco servono i nuovi strumenti giuridici (legge e ordinanza sulle lingue), i richiami al plurilinguismo dei Consiglieri federali Didier Burkhalter e Simonetta Sommaruga, il potenziamento dei servizi di traduzione in italiano dell’amministrazione federale e quindi il potenziamento delle pubblicazioni in questa lingua. Nell’ottica della salvaguardia dell’italiano e dell’italianità nemmeno il nuovo delegato al plurilinguismo Vasco Dumartheray potrà fornire un sostanzioso contributo perché la sua sfera d’intervento è assai limitata.
Il problema dell’italiano e dell’italianità richiederebbero ben altro. Bisognerebbe, ad esempio, poter rispondere concretamente a queste e a simili domande: Chi si occuperà di garantire che in seno al Consiglio federale, ai vertici della Cancelleria federale e degli Uffici federali sia garantita una congrua presenza di italofoni (ticinesi o italo-svizzeri di seconda o terza generazione)? Chi curerà autorevolmente l’immagine della Svizzera plurilingue garantendo che nelle Cancellerie cantonali e nei grandi servizi pubblici delle città sia garantita la comunicazione in italiano col pubblico italofono? Chi garantirà che nei grandi musei svizzeri l’inglese non finisca per sostituire sistematicamente l’italiano? Chi garantirà che i servizi di polizia, delle imposte, del turismo delle principali città siano dotati di informatori anche in lingua italiana? Chi s’impegnerà affinché in tutte le scuole medie della Svizzera tedesca sia garantita «una settimana d’italiano intensivo» come auspicato dal prof. Bruno Moretti dell’Università di Berna? Chi aiuterà le testate italiane a non scomparire e le associazioni culturali a continuare ad offrire conferenze, presentazioni di scrittori e artisti italiani, concerti, opere teatrali?
Si spera sempre nel volontariato – ed è certamente una grande risorsa, basti pensare all’UNITRE – ma non basta, occorrono anche le istituzioni pubbliche, che se non altro potrebbero fornire almeno un po’ di sostegno morale e …finanziario. Spetta soprattutto al portabandiera dell’italianità in Svizzera, al Cantone Ticino, farsene carico, se davvero vuole rappresentare una dimensione nazionale.

Giovanni Longu
Berna, 15.12.2010