18 novembre 2010

1961-2011: 2. Questione meridionale ed emigrazione

Nel 1861 venne unificata l’Italia, quasi per intero, ma restava da creare una coscienza nazionale di tutti i popoli che la costituivano. In effetti, gli italiani erano tanto diversi soprattutto culturalmente che fino alla prima guerra mondiale risultava difficile persino comunicare in una lingua comune. Massimo D’Azeglio (1798-1866), uomo politico liberale, aveva sentenziato all’indomani dell’unificazione che l’Italia era sì fatta, ma restava da fare gli italiani.
Va tuttavia ricordato che prima dell’unità d’Italia il divario tra le realtà economiche unificate era meno accentuato di quello esistente a livello sociale e culturale. Basti pensare che il Mezzogiorno non conosceva ancora il sottosviluppo e l’emigrazione (già praticata al nord), anzi godeva di un certo benessere. Prima dell’annessione il Regno delle due Sicilie aveva raggiunto persino un buon livello d’industrializzazione sia in Sicilia che in Campania e in Calabria; aveva adottato una politica economica protezionistica ed esercitava una bassa pressione fiscale. Tutti, in fondo, avevano la possibilità di lavorare la terra come contadini in proprio o come braccianti o di lavorare nell’industria e nell’amministrazione borbonica.

L’emigrazione nasce spesso da un problema politico
Nell’opinione pubblica si ritiene abitualmente che l’emigrazione sia un tentativo di sfuggire alla povertà e al sottosviluppo e non ci sono dubbi che nella maggior parte dei casi sia così. Talvolta però si dimentica che la povertà non è sempre endemica o frutto di fatalità, ma spesso è dovuta a guerre, epidemie, malgoverno, corruzione, ingiustizia, oppressione, tassazione esosa, ecc.
Anche l’emigrazione dal Meridione, durata per oltre un secolo, ha le sue radici in quella che fu definita «la questione meridionale». Con questa espressione si voleva indicare la condizione di arretratezza e di sottosviluppo in cui venne a trovarsi il Mezzogiorno a pochi anni dall’entrata a far parte del nuovo Regno d’Italia. Si dimentica però che quella situazione di povertà e arretratezza, inesistente prima dell’unificazione, fu indotta da una inadeguata politica dei nuovi governanti.
Gli storici sono concordi nel sostenere che sull’involuzione del Mezzogiorno ha inciso profondamente il malgoverno piemontese, la sottrazione delle ricchezze prodotte nelle regioni del sud a beneficio delle regioni del nord mediante un sistema fiscale vessatorio, la mancanza d’investimenti e in generale la scarsa considerazione delle potenzialità del sud. All’origine della povertà, che già alla fine del primo decennio unitario ha indotto molti meridionali a cercare una via di scampo nell’emigrazione c’è dunque sicuramente la politica economica, sociale e fiscale profondamente sbagliata condotta fin dai primi anni dai governi di destra, ma poi anche di sinistra, dell’Italia unita.

Accettazione senza condivisione
Per capire il fenomeno dell’emigrazione meridionale è utile ricordare che l’unità d’Italia non fu un’aggregazione spontanea di popoli e governi che decisero di unirsi, ma fu in molti casi una vera e propria annessione, sia pure suggellata da referendum di accettazione, per altro molto contestati circa la loro legittimità e validità. Ma accettazione non significa condivisione, tanto è vero che tra Meridionali e Piemontesi i rapporti furono fin dall’inizio molto tesi. I primi consideravano i secondi dominatori arroganti e spietati. Inoltre, si sentivano traditi dai conquistatori perché nessuna delle promesse fatte era stata mantenuta, soprattutto quelle della riforma agraria e degli investimenti industriali. Non accettavano soprattutto di essere considerati subalterni e privati di qualsiasi autonomia.
Da parte loro, i Piemontesi (come venivano generalmente chiamati i governativi) cercavano d’imporre anche con la forza la legislazione unitaria, compreso il nuovo sistema fiscale ben più vessatorio di quello borbonico. Nel processo di unificazione si volle infatti unificare anche il forte debito accumulato dal Regno di Sardegna a causa delle guerre contro gli austriaci e degli investimenti effettuati in Piemonte, facendolo gravare su tutti i sudditi e quindi anche sui contribuenti meridionali.
Per rafforzare il senso dello Stato unitario e affermare il radicale cambiamento istituzionale, si volle imporre anche al sud metodi di governo applicati al nord, ignorando totalmente problematiche, tradizioni ed esigenze tipiche del sud. Ne diede un evidente segnale la bocciatura, proprio all’indomani dell’Unità d’Italia, nel marzo del 1861, della proposta del ministro Minghetti che chiedeva un minimo di autonomie regionali. Il governo unitario preferì l’estensione anche al sud della legislazione sabauda e impose un forte accentramento, garantito dall’esercito e dalla polizia, e un’amministrazione «piemontesizzata», incentrata su prefetti e funzionari inviati e controllati direttamente dal Ministero degli interni.
Per evitare che il disagio delle masse nei confronti del nuovo Regno si radicalizzasse, il governo centrale estese anche al sud certe pratiche che oggi si definirebbero «clientelari», sostenendo alcune categorie di persone in grado di aiutarlo a controllare la situazione sociale, soprattutto la nuova borghesia agraria (latifondisti che acquistavano a poco prezzo beni demaniali svenduti dal nuovo regime) e i discendenti dei vecchi feudatari. In cambio del loro sostegno, lo Stato dovette garantire privilegi, la stabilità della proprietà e soprattutto l’intervento militare contro il diffuso brigantaggio, il maggior nemico dei latifondisti.

La lotta al brigantaggio
Fu così che tra il 1861 e il 1865 mezzo esercito di 120.000 uomini venne dislocato nel Mezzogiorno per dare la caccia ai briganti e ai loro sostenitori, soprattutto piccoli contadini delusi e impoveriti. Per alcuni anni intere regioni del sud vennero occupate militarmente e sottoposte alla legge marziale, con enormi disagi per la popolazione civile. La lotta al brigantaggio fu una vera e propria guerra civile che fece migliaia di morti, più di quante ne procurarono le tre guerre d’indipendenza messe insieme.
Quando nel 1865 il brigantaggio fu debellato (ma proprio in quegli anni nacque la mafia!), il Mezzogiorno risultò ancor più lontano di prima dal resto dell’Italia. Soprattutto al nord cominciò a diffondersi l’idea che il Mezzogiorno fosse una regione socialmente ed economicamente sottosviluppata. Si cominciò a parlare della «questione meridionale», senza saper offrire a queste regioni del sud soluzioni per una rapida ripresa. Iniziava un’involuzione che avrebbe condannato per oltre un secolo il Mezzogiorno al sottosviluppo e all’emigrazione.
Anche questa involuzione fu indotta. Il nuovo Stato unitario, povero di mezzi, dovendo fare delle scelte, preferì investire al nord nella nascente industria e nelle infrastrutture stradali e ferroviarie piuttosto che al sud. Nel Mezzogiorno i Savoia non lasciarono nemmeno una parte del forte attivo di bilancio ereditato dal Regno delle Due Sicilie. I meridionali vennero addirittura caricati di nuove imposte. Il sogno di molti braccianti di veder realizzata una riforma agraria che desse loro terre da coltivare si infranse contro un muro di totale indifferenza. Ad essi venne offerta unicamente la strada dell’emigrazione verso le regioni del nord.

Inizia l’emigrazione
I dati dell’emigrazione fino al 1876, quando si cominciò a registrarli sistematicamente, non sono noti, ma il flusso migratorio, sempre più intenso, era sicuramente iniziato almeno dieci anni prima. I primi emigrati si fermarono nelle regioni settentrionali, ma poi s’indirizzarono verso mete più lontane, le Americhe. Di fronte all’aumento di questo flusso, il governo, prima tollerante, si mostrò chiaramente ostile. Temeva di fornire attraverso gli emigrati un’immagine negativa dell’Italia quasi fosse in preda alla povertà e all’ignoranza. Impedendo o rendendo difficile l’emigrazione si voleva anche evitare di fornire buoni motivi per le critiche di inadeguatezza e di incapacità del governo a risolvere i problemi di arretratezza del Paese. Il governo preferiva accusare chi sull’emigrazione intendeva a suo avviso lucrare, come gli «ingaggiatori», agenti d’emigrazione che reclutavano operai e contadini per conto di imprese e compagnie di navigazione e vendevano i biglietti di viaggio.
Nel 1873, con una circolare il governo Lanza, allo scopo di frenare l’esodo dalle campagne, soprattutto da parte dei giovani, introdusse una serie di misure restrittive all’emigrazione, tra cui una cauzione di quattrocento lire in contanti o di una garanzia da parte di terzi per poter pagare le spese di rimpatrio di chi non fosse in grado di pagarle direttamente. La misura sembrava efficace, perché solo pochi potevano disporre di una tale somma, e invece finì per incoraggiare l’emigrazione clandestina e l’usura. Molti, piuttosto che imbarcarsi nei porti italiani, preferivano partire senza tante formalità dai porti francesi.
el 1876, quando prese il potere la sinistra guidata da Agostino Depretis, l’atteggiamento governativo nei confronti dell’emigrazione attenuò le misure restrittive introdotte da Lanza, ma non mutò nella sostanza. Per combattere l’emigrazione clandestina, una circolare del ministro dell' Interno prescrisse nuove norme per impedire che gli emigranti, anziché imbarcarsi nei porti del Regno approfittassero dei porti esteri, soprattutto quello di Marsiglia, dai quali potevano partire senza bisogno di passaporto e di altre formalità.

Purtroppo, invece di sforzarsi per incidere profondamente sulle cause dell’ignoranza, della povertà e del sottosviluppo, per quasi un secolo tutti i governi di destra e di sinistra si sforzarono solo di regolamentare i flussi migratori con leggi, regolamenti e accordi internazionali, come se l’emigrazione fosse un male invincibile e una fatalità.

Giovanni Longu

Berna, 17.11.2010.

17 novembre 2010

1861-2011: 2. Questione meridionale ed emigrazione

 
Nel 1861 venne unificata l’Italia, quasi per intero, ma restava da creare una coscienza nazionale di tutti i popoli che la costituivano. In effetti, gli italiani erano tanto diversi soprattutto culturalmente che fino alla prima guerra mondiale risultava difficile persino comunicare in una lingua comune. Massimo D’Azeglio (1798-1866), uomo politico liberale, aveva sentenziato all’indomani dell’unificazione che l’Italia era sì fatta, ma restava da fare gli italiani.
Va tuttavia ricordato che prima dell’unità d’Italia il divario tra le realtà economiche unificate era meno accentuato di quello esistente a livello sociale e culturale. Basti pensare che il Mezzogiorno non conosceva ancora il sottosviluppo e l’emigrazione (già praticata al nord), anzi godeva di un certo benessere. Prima dell’annessione il Regno delle due Sicilie aveva raggiunto persino un buon livello d’industrializzazione sia in Sicilia che in Campania e in Calabria; aveva adottato una politica economica protezionistica ed esercitava una bassa pressione fiscale. Tutti, in fondo, avevano la possibilità di lavorare la terra come contadini in proprio o come braccianti o di lavorare nell’industria e nell’amministrazione borbonica.

L’emigrazione nasce spesso da un problema politico
Nell’opinione pubblica si ritiene abitualmente che l’emigrazione sia un tentativo di sfuggire alla povertà e al sottosviluppo e non ci sono dubbi che nella maggior parte dei casi sia così. Talvolta però si dimentica che la povertà non è sempre endemica o frutto di fatalità, ma spesso è dovuta a guerre, epidemie, malgoverno, corruzione, ingiustizia, oppressione, tassazione esosa, ecc.
Anche l’emigrazione dal Meridione, durata per oltre un secolo, ha le sue radici in quella che fu definita «la questione meridionale». Con questa espressione si voleva indicare la condizione di arretratezza e di sottosviluppo in cui venne a trovarsi il Mezzogiorno a pochi anni dall’entrata a far parte del nuovo Regno d’Italia. Si dimentica però che quella situazione di povertà e arretratezza, inesistente prima dell’unificazione, fu indotta da una inadeguata politica dei nuovi governanti.
Gli storici sono concordi nel sostenere che sull’involuzione del Mezzogiorno ha inciso profondamente il malgoverno piemontese, la sottrazione delle ricchezze prodotte nelle regioni del sud a beneficio delle regioni del nord mediante un sistema fiscale vessatorio, la mancanza d’investimenti e in generale la scarsa considerazione delle potenzialità del sud. All’origine della povertà, che già alla fine del primo decennio unitario ha indotto molti meridionali a cercare una via di scampo nell’emigrazione c’è dunque sicuramente la politica economica, sociale e fiscale profondamente sbagliata condotta fin dai primi anni dai governi di destra, ma poi anche di sinistra, dell’Italia unita.

Accettazione senza condivisione
Per capire il fenomeno dell’emigrazione meridionale è utile ricordare che l’unità d’Italia non fu un’aggregazione spontanea di popoli e governi che decisero di unirsi, ma fu in molti casi una vera e propria annessione, sia pure suggellata da referendum di accettazione, per altro molto contestati circa la loro legittimità e validità. Ma accettazione non significa condivisione, tanto è vero che tra Meridionali e Piemontesi i rapporti furono fin dall’inizio molto tesi. I primi consideravano i secondi dominatori arroganti e spietati. Inoltre, si sentivano traditi dai conquistatori perché nessuna delle promesse fatte era stata mantenuta, soprattutto quelle della riforma agraria e degli investimenti industriali. Non accettavano soprattutto di essere considerati subalterni e privati di qualsiasi autonomia.
Da parte loro, i Piemontesi (come venivano generalmente chiamati i governativi) cercavano d’imporre anche con la forza la legislazione unitaria, compreso il nuovo sistema fiscale ben più vessatorio di quello borbonico. Nel processo di unificazione si volle infatti unificare anche il forte debito accumulato dal Regno di Sardegna a causa delle guerre contro gli austriaci e degli investimenti effettuati in Piemonte, facendolo gravare su tutti i sudditi e quindi anche sui contribuenti meridionali.
Per rafforzare il senso dello Stato unitario e affermare il radicale cambiamento istituzionale, si volle imporre anche al sud metodi di governo applicati al nord, ignorando totalmente problematiche, tradizioni ed esigenze tipiche del sud. Ne diede un evidente segnale la bocciatura, proprio all’indomani dell’Unità d’Italia, nel marzo del 1861, della proposta del ministro Minghetti che chiedeva un minimo di autonomie regionali. Il governo unitario preferì l’estensione anche al sud della legislazione sabauda e impose un forte accentramento, garantito dall’esercito e dalla polizia, e un’amministrazione «piemontesizzata», incentrata su prefetti e funzionari inviati e controllati direttamente dal Ministero degli interni.
Per evitare che il disagio delle masse nei confronti del nuovo Regno si radicalizzasse, il governo centrale estese anche al sud certe pratiche che oggi si definirebbero «clientelari», sostenendo alcune categorie di persone in grado di aiutarlo a controllare la situazione sociale, soprattutto la nuova borghesia agraria (latifondisti che acquistavano a poco prezzo beni demaniali svenduti dal nuovo regime) e i discendenti dei vecchi feudatari. In cambio del loro sostegno, lo Stato dovette garantire privilegi, la stabilità della proprietà e soprattutto l’intervento militare contro il diffuso brigantaggio, il maggior nemico dei latifondisti.

La lotta al brigantaggio
Fu così che tra il 1861 e il 1865 mezzo esercito di 120.000 uomini venne dislocato nel Mezzogiorno per dare la caccia ai briganti e ai loro sostenitori, soprattutto piccoli contadini delusi e impoveriti. Per alcuni anni intere regioni del sud vennero occupate militarmente e sottoposte alla legge marziale, con enormi disagi per la popolazione civile. La lotta al brigantaggio fu una vera e propria guerra civile che fece migliaia di morti, più di quante ne procurarono le tre guerre d’indipendenza messe insieme.
Quando nel 1865 il brigantaggio fu debellato (ma proprio in quegli anni nacque la mafia!), il Mezzogiorno risultò ancor più lontano di prima dal resto dell’Italia. Soprattutto al nord cominciò a diffondersi l’idea che il Mezzogiorno fosse una regione socialmente ed economicamente sottosviluppata. Si cominciò a parlare della «questione meridionale», senza saper offrire a queste regioni del sud soluzioni per una rapida ripresa. Iniziava un’involuzione che avrebbe condannato per oltre un secolo il Mezzogiorno al sottosviluppo e all’emigrazione.
Anche questa involuzione fu indotta. Il nuovo Stato unitario, povero di mezzi, dovendo fare delle scelte, preferì investire al nord nella nascente industria e nelle infrastrutture stradali e ferroviarie piuttosto che al sud. Nel Mezzogiorno i Savoia non lasciarono nemmeno una parte del forte attivo di bilancio ereditato dal Regno delle Due Sicilie. I meridionali vennero addirittura caricati di nuove imposte. Il sogno di molti braccianti di veder realizzata una riforma agraria che desse loro terre da coltivare si infranse contro un muro di totale indifferenza. Ad essi venne offerta unicamente la strada dell’emigrazione verso le regioni del nord.

Inizia l’emigrazione
I dati dell’emigrazione fino al 1876, quando si cominciò a registrarli sistematicamente, non sono noti, ma il flusso migratorio, sempre più intenso, era sicuramente iniziato almeno dieci anni prima. I primi emigrati si fermarono nelle regioni settentrionali, ma poi s’indirizzarono verso mete più lontane, le Americhe. Di fronte all’aumento di questo flusso, il governo, prima tollerante, si mostrò chiaramente ostile. Temeva di fornire attraverso gli emigrati un’immagine negativa dell’Italia quasi fosse in preda alla povertà e all’ignoranza. Impedendo o rendendo difficile l’emigrazione si voleva anche evitare di fornire buoni motivi per le critiche di inadeguatezza e di incapacità del governo a risolvere i problemi di arretratezza del Paese. Il governo preferiva accusare chi sull’emigrazione intendeva a suo avviso lucrare, come gli «ingaggiatori», agenti d’emigrazione che reclutavano operai e contadini per conto di imprese e compagnie di navigazione e vendevano i biglietti di viaggio.
Nel 1873, con una circolare il governo Lanza, allo scopo di frenare l’esodo dalle campagne, soprattutto da parte dei giovani, introdusse una serie di misure restrittive all’emigrazione, tra cui una cauzione di quattrocento lire in contanti o di una garanzia da parte di terzi per poter pagare le spese di rimpatrio di chi non fosse in grado di pagarle direttamente. La misura sembrava efficace, perché solo pochi potevano disporre di una tale somma, e invece finì per incoraggiare l’emigrazione clandestina e l’usura. Molti, piuttosto che imbarcarsi nei porti italiani, preferivano partire senza tante formalità dai porti francesi.
Nel 1876, quando prese il potere la sinistra guidata da Agostino Depretis, l’atteggiamento governativo nei confronti dell’emigrazione attenuò le misure restrittive introdotte da Lanza, ma non mutò nella sostanza. Per combattere l’emigrazione clandestina, una circolare del ministro dell' Interno prescrisse nuove norme per impedire che gli emigranti, anziché imbarcarsi nei porti del Regno approfittassero dei porti esteri, soprattutto quello di Marsiglia, dai quali potevano partire senza bisogno di passaporto e di altre formalità.
Purtroppo, invece di sforzarsi per incidere profondamente sulle cause dell’ignoranza, della povertà e del sottosviluppo, per quasi un secolo tutti i governi di destra e di sinistra si sforzarono solo di regolamentare i flussi migratori con leggi, regolamenti e accordi internazionali, come se l’emigrazione fosse un male invincibile e una fatalità.

Giovanni Longu
Berna, 17.11.2010.