08 settembre 2010

Mattmark ricorda!

Sabato 4 settembre sono salito come altre volte in passato al lago di Mattmark, attratto dalla bellezza dei luoghi, ma anche dalla storia di quella diga possente che trattiene nel lago artificiale oltre 100 milioni di metri cubi d’acqua, frutto, in parte, del lavoro italiano e segnato per sempre dalla tragedia che uccise 88 lavoratori di cui ben 56 italiani provenienti da 11 regioni d’Italia (Veneto, Calabria, Trentino, Friuli, Emilia, Abruzzo, Campania, Puglia, Sardegna, Sicilia, Molise). Quest’anno ci sono salito con una guida d’eccezione, Ilario Bagnariol, uno dei pochi sopravvissuti.
Mentre percorriamo la vallata che da Saas Almagell porta alla diga, Ilario mi indica a destra e a sinistra della strada dove erano situate baracche degli operai, le mense, le officine, la direzione generale dei lavori, le abitazioni dei lavoratori con famiglia, dove si trovava la strada allora, in quanto tempo la percorrevano per salire dagli alloggiamenti al cantiere sulla diga, ecc. Giunti quasi in cima all’attuale parcheggio delle automobili mi indica fin dove giungeva allora, 45 anni fa, il ghiacciaio, dov’era piazzato il cantiere, e dove lui si trovava al momento dello staccarsi micidiale del ghiacciaio. Si trattò, mi dice, di pochissimi attimi, ricorda però nitidamente che quella massa enorme di ghiaccio sembrava arrivargli addosso quando improvvisamente, a qualche decina di metri dal punto in cui si trovava col suo mezzo pesante, scontrandosi con la morena, cambiò direzione … e fu salvo.
Non riesco ad immaginare cosa può provare un sopravvissuto nel rivedere quei luoghi dove ha lavorato per alcuni anni, dove ha stretto amicizia con tanti immigrati come lui (perché quando si devono affrontare lavori difficili e pericolosi la solidarietà è un fatto spontaneo!), dove la morte gli è passata a pochi metri. So solo che Ilario, anche a distanza di 45 anni non dimentica mai i compagni di lavoro periti sotto la massa di ghiaccio, non prova più sensi di colpa per essere un sopravvissuto (per vent’anni non mise più piede da quelle parti!), si rende conto di essere una specie di miracolato e per questo non dimentica nulla ed è uno dei protagonisti delle annuali commemorazioni.

Il luogo della disgrazia
Giunti ai piedi della diga, dove numerosi «pellegrini» sono già pronti per la commemorazione religiosa, mi stacco dal gruppo per osservare dall’alto il paesaggio circostante, splendido, soprattutto in una giornata di sole come quella del 4 settembre di quest’anno. Mentre osservo l’enorme sbarramento in pietra e terra provo però un profondo senso di commozione sapendo quanta fatica, quanto sudore e quanto sangue è costato soprattutto ai lavoratori italiani che hanno contribuito a costruirlo tra il 1960 e il 1969. Poi il mio sguardo si fissa su quella che è oggi una enorme parete scoscesa di pietra e sulla quale, invece, si stendeva fino alle ore 17.30 del 30 agosto 1965 il ghiacciaio Allalin.
Resto per qualche tempo immobile, mentre i miei pensieri corrono. Sulla base di fotografie scattate prima della tragedia, di filmati d’epoca e delle testimonianze di alcuni sopravvissuti, cerco di immaginarmi la situazione di 45 anni fa. Il ghiacciaio che si estendeva alcune centinaia di metri più a valle, apparentemente tranquillo, centinaia di lavoratori che prelevavano dalle morene pietre e terra di riempimento della diga (occorrevano complessivamente circa 10 milioni e mezzo di metri cubi di materiale) e poche centinaia di metri sotto il ghiacciaio, su un pianoro, i baraccamenti del cantiere con alcuni magazzini, officine, dormitorio, mensa (gli alloggiamenti principali del personale e le grandi officine, come pure la direzione centrale erano situate a valle ad alcuni chilometri dalla diga). Tutto sembrava tranquillo, tant’è che Ilario Bagnariol avanzava come tutti i giorni col suo bulldozer verso la cresta della morena da cui si prelevava il materiale e l’ingegnere olandese Egbert Roosma stava per iniziare i controlli di routine.

Dubbi e certezze
In realtà, l’unica certezza era che centinaia di persone, per lo più immigrate, in quel momento o erano al lavoro o ancora riposavano perché avevano svolto il turno di notte e tutte, comunque, in quel cantiere cercavano di meritare un giusto salario per le esigenze della propria famiglia. Era invece incerta la tranquillità del ghiacciaio, come dimostrò fragorosamente e tragicamente alle 17.30 di quel lunedì 30 agosto 1965, forse irritato per i continui scoppi di mine o per le mutevoli condizioni del tempo o chi sa? per altre ragioni rimaste sconosciute o comunque non determinanti (anche ai giudici che dovettero pronunciarsi nei successivi processi). Era sicuramente incerta, la stabilità del ghiacciaio, anche per i responsabili del cantiere, tanto è vero che procedevano spesso a sondaggi e negli ultimi giorni prima della catastrofe un elicottero volteggiasse in continuazione lungo le propaggini del ghiacciaio.
I giudici scartarono qualsiasi responsabilità diretta dei responsabili del cantiere e non sta certo a chi scrive rifare processi o emettere sentenze. Qualche dubbio comunque resta, perché è difficile spiegare sia in termini comuni che in termini scientifici, che senza alcun segno premonitore possano sganciarsi improvvisamente e contemporaneamente da un ghiacciaio oltre un milione e mezzo di metri cubi di ghiaccio e detriti, producendo un boato udito a chilometri di distanza e distruggendo un cantiere sicuramente non sufficientemente protetto.
La tragedia, con o senza colpevoli, resta comunque per la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera una pagina triste, scritta col sangue. Fu anche una pagina importante per il futuro della collettività italiana, in quegli anni al centro di micidiali attacchi della destra xenofoba che ne chiedeva un drastico ridimensionamento. Data l’eco che la disgrazia di Mattmark ebbe su tutti i mezzi di comunicazione di massa, l’opinione pubblica svizzera si rese conto forse per la prima volta del significato non solo economico ma anche umano della popolazione immigrata. In realtà gli immigrati non portavano via lavoro e soldi agli svizzeri, non inquinavano la loro cultura, ma apportavano ricchezza, contribuivano col loro lavoro, con la loro fatica e talvolta col loro sangue al benessere della Svizzera. I movimenti xenofobi non indietreggiarono in seguito alla tragedia di Mattmark, ma sta di fatto che le loro idee non riuscirono mai a prevalere nell’opinione pubblica e nessuno mai escludere se e quanto possa aver influito sulla decisione di molti svizzeri di respingere negli anni successivi tutte le iniziative antistranieri.

La memoria di Mattmark
Sul posto, prima della cerimonia religiosa, anche altri sopravvissuti rievocano con una straordinaria nitidezza di particolari quel che videro e udirono e soprattutto lo strazio nel non vedere e non udire nemmeno un lamento di tanti amici e colleghi. Invano i superstiti andarono alla ricerca di eventuali feriti. Ne furono trovati pochissimi, la maggior parte era morta sotto diversi metri di ghiaccio e pietre.
Quest’anno, alla commemorazione delle 88 vittime, di cui 56 italiane, è intervenuta anche una folta delegazione di parenti e amici delle vittime bellunesi (ben 17), guidata dal vescovo della diocesi di Belluno-Feltre mons. Giuseppe Andrich. Presenti anche numerosi rappresentanti di associazioni, l’agente consolare Rossana Errico, il senatore G. Vaccari e l’on. F. Narducci.
Così ogni anno si perpetua il ricordo di quell’immane tragedia e si onorano, come vuole la dedica incisa sulla lapide ricordo apposta sulla roccia a loro dedicata, quei «morti sotto il ghiaccio / vivi nella memoria».

Giovanni Longu
Berna, 8.9.2010