23 giugno 2010

Como, Varese e la Valle d’Aosta prossimi Cantoni svizzeri?

In diverse epoche, movimenti irredentisti italiani hanno rivendicato il Ticino fino al San Gottardo per il completamento del territorio nazionale. Nei 150 anni di storia delle relazioni italo-svizzere, non credo invece che si sia mai posta seriamente per la Svizzera la questione circa la possibilità d’integrare nel suo territorio regioni appartenenti al Regno d’Italia prima e alla Repubblica Italiana dopo, … fino a qualche mese fa. Sì, fino a qualche mese fa, quando una tale possibilità è stata invocata da alcuni parlamentari svizzeri. Con una mozione hanno infatti chiesto al Consiglio federale svizzero di proporre gli adeguamenti costituzionali e legislativi necessari in modo da poter integrare nel territorio nazionale, ovviamente a richiesta, alcune regioni di confine quali, ad esempio, le province di Como e di Varese, la Valle d’Aosta, Bolzano, l’Alsazia, il Voralberg, ecc.
Ipotesi balzana di qualche paranoico isolato, dirà forse qualcuno. E invece no, si tratta di una vera e propria mozione parlamentare che porta il nome di un deputato (Dominique Baettig) del partito di destra UDC (Unione democratica di centro), ma è stata sostenuta da ben 28 parlamentari.

Seguendo il filo della storia
Si può ricordare che la Svizzera, dopo il Congresso di Vienna del 1815, non è mai stata tentata seriamente d’integrare altri territori nei suoi confini. L’Italia invece, sia prima dell’Unità che dopo, è stata attraversata da movimenti irredentisti, che rivendicavano alcuni territori della Svizzera italiana.
I momenti più problematici si possono collocare all’indomani dell’Unità d’Italia, sull’onda del movimento risorgimentale, e dell’avvento del Fascismo. Ogni velleità irredentista venne tuttavia stroncata sul nascere dai governi dell’epoca, facendo prevalere il buon senso e il calcolo politico. Era nell’interesse delle due parti non solo garantire i rapporti di buon vicinato ma anche sviluppare rapporti di collaborazione.
All’indomani della proclamazione dell’Unità d’Italia fu lo stesso Primo ministro Camillo Benso di Cavour (piemontese di nascita ma di madre svizzera) a garantire al Paese confinante l’assoluto rispetto della propria sovranità nazionale, nella convinzione che fosse nell’interesse dell’Italia avere come confinante uno Stato neutrale. Aveva tacciato di «chimeriche» le voci che parlavano di una possibile annessione della Svizzera italiana e aveva dichiarato che l’Italia non avrebbe mai tentato nulla contro la Svizzera. Secondo lui, «la nuova era che viene ad aprirsi per l’Italia contribuirà a migliorare ancora le buone relazioni d’amicizia che esistevano da così lungo tempo tra la Sardegna e la Svizzera. Il Governo del Re d’Italia farà, da parte sua, tutto ciò che è in suo potere per attendere a questo risultato».
Rassicurata da queste affermazioni, la Svizzera fu tra le prime nazioni a riconoscere il nuovo Regno d’Italia ad appena due settimane dalla proclamazione dell’Unità. La Confederazione aveva già stretto un accordo commerciale nel 1851 col Regno di Sardegna e da entrambe le parti si voleva che fosse mantenuto e rafforzato, anche in vista dei lavori per le grandi trasversali ferroviarie nord-sud di cui si cominciava a discutere.
La Svizzera, tuttavia, fiera della propria indipendenza, restava vigilante e non si accontentava delle assicurazioni formali. In ogni caso non avrebbe tollerato alcuna violazione dei suoi confini. In un celebre discorso di fine gennaio 1862, il generale Dufour, aveva rassicurato i politici e la popolazione perché «l’esercito è pronto!» (Die Armee ist da!) e poteva disporre di 100.000 uomini (compresi i riservisti) più 50.000 uomini della milizia territoriale. Tutti ben equipaggiati, istruiti e ben armati.

L’Italia pronta ad accogliere territori svizzeri
La Svizzera era vigilante ma tranquilla. Così accolse `nel 1862 con un certo imbarazzo, ma senza allarmismo, un intervento alla Camera del ministro degli esteri Giacomo Durando (1862) in risposta a voci irredentiste. Sarebbe stato un errore politico, aveva detto, creare difficoltà alle buone relazioni con la Confederazione. E anche nel caso che, spontaneamente, una parte del territorio nazionale svizzero avesse chiesto di ricongiungersi con l’Italia, egli avrebbe fatto di tutto per offrire alla Svizzera una compensazione territoriale. Aveva sottolineato che «l’Italia, Signori miei, farà di tutto per garantire l’indipendenza della Svizzera». In un successivo intervento aveva aggiunto che «se la Svizzera fosse minacciata, il dovere e l’interesse dell’Italia erano di aiutarla e difenderla».
Nell’informare Berna di quanto affermato dal ministro italiano, il rappresentante della Svizzera a Torino aveva sottolineato le «intenzioni amichevoli del ministro verso la Svizzera», anche quando ammetteva la «possibilità» di accogliere eventualmente territori confederati. A sua volta, il Consiglio federale, nel riferire questa comunicazione alle Camere, dichiarava di trovare le affermazioni del ministro generalmente favorevoli alla Confederazione, tranne quella riguardante la «possibilità» che una parte della Svizzera si riunisse volontariamente all’Italia pur garantendo delle compensazioni. Una tale «possibilità» minava, secondo il Consiglio federale, i principi stessi su cui si fonda la politica della Svizzera. Si convenne tuttavia di rinunciare a una protesta diplomatica preferendo mantenere e intensificare i buoni rapporti, soprattutto economici, tanto che nel 1864 la Svizzera decise di inviare quale suo ministro plenipotenziario a Torino un ex Consigliere federale, Giovan Battista Pioda, e non un semplice funzionario dell’amministrazione.

Il Vorarlberg in cambio del Ticino?
La «possibilità» di un’annessione pacifica della Svizzera italiana, restava tuttavia aperta e questo gli svizzeri lo sapevano. Ad una completa unificazione del territorio nazionale, secondo i Savoia, mancavano ancora il Veneto (sotto la dominazione austriaca) e Roma (capitale dello Stato pontificio). Tra gli scenari possibili in caso di vittoria italiana, nell’eventualità di un conflitto contro l’Austria per il controllo del Veneto, c’era anche la possibilità che il Vorarlberg austriaco passasse alla Svizzera in cambio del Ticino da assegnare all’Italia. Per impedire un tale scambio, il Legato svizzero a Torino aveva chiesto rassicurazioni allo stesso primo ministro Cavour che rispose: «Se la carta dell’Europa fosse rimaneggiata, se si donasse alla Svizzera il Vorarlberg e il Tirolo, ciò che io spero per il bene dell’Italia, se allora i Ticinesi desiderassero unirsi a noi, e se la Svizzera lo acconsentisse, certo noi non diremmo di no. Ma, pertanto, non siamo ancora a questo punto».
La questione del Vorarlberg resterà aperta fin dopo la fine della prima guerra mondiale e costituì un problema di politica estera assai delicato non solo per la Svizzera ma anche per l’Italia e le altre potenze europee. Se infatti il Vorarlberg e possibilmente anche il Tirolo fossero divenuti svizzeri, la Svizzera sarebbe diventata una specie di guardiana dell’intero arco alpino, benvista in questa funzione da alcune potenze. L’Italia non si sarebbe opposta, ma solo in cambio di avere il Ticino. E’ bene tuttavia ricordare che nel 1919, quando gli abitanti del Vorarlberg chiesero a grande maggioranza (85%), attraverso un referendum, il distacco dall’Austria e l’unione alla Svizzera, la Confederazione respinse l’offerta. Le buone relazioni con tutti i Paesi vicini erano più importanti.

La «ragliata» di Mussolini…
Durante il Fascismo riemersero alcune rivendicazioni irredentiste sul Ticino, ma anche stavolta il buon senso e gli interessi comuni prevalsero. A stimolare le pretese italiane era stato Mussolini prima che prendesse il potere, con alcuni articoli sul «Popolo d’Italia» (di cui era direttore), ritenuti dal rappresentante della Confederazione a Roma «ingiuriosi nei confronti della Svizzera». Ma fu soprattutto il suo primo discorso da deputato (21 giugno 1921) che sembrava non lasciare dubbi: considerava infatti il San Gottardo il naturale confine settentrionale dell’Italia.
Mentre la stampa italiana non dava alcun rilievo alle affermazioni di Mussolini sul Ticino, la stampa svizzera e soprattutto quella ticinese le condannò energicamente. Solo il quotidiano socialista «Libera Stampa» tentò di sdrammatizzare considerando le affermazioni di Mussolini «una ragliata sonora». Questa volta tuttavia, dietro insistenza dei deputati ticinesi, il Governo federale protestò energicamente e chiese una smentita al Presidente del Consiglio Giolitti, che infatti rispose garantendo alla Svizzera il pieno rispetto della sua sovranità.
Dopo la presa del potere, anche Mussolini, ritenne più opportuno se non cambiare opinione almeno non parlarne più e già nel novembre del 1922 confermava al rappresentante svizzero in Italia la sua «ferma intenzione di mantenere fra i nostri due paesi una perfetta amicizia e una completa fiducia», aggiungendo che «non ci devono essere questioni territoriali tra l'Italia e la Svizzera».

… e quella dell’UDC
La storia fino ad oggi ha confermato le buone intenzioni di entrambe le parti. Suona dunque come un’altra «sonora ragliata», per riesumare l’espressione sopraccitata, la richiesta dei 28 fantasiosi deputati dell’UDC, depositata il 18 marzo 2010, secondo cui «il Consiglio federale è incaricato di proporre un quadro costituzionale e legale che permetta di integrare, quale nuovo Cantone svizzero, le regioni limitrofe, se auspicato dalla maggioranza della popolazione interessata».
Nel proporre alle Camere di respingere la mozione, il 19 maggio 2010 il Consiglio federale motivò il suo parere in questi termini: «Una revisione della Costituzione federale che permetta alle regioni limitrofe al nostro Paese di unirsi alla Confederazione svizzera costituirebbe un atto politico ostile, che gli Stati vicini potrebbero considerare, a giusto titolo, provocatorio e nuocerebbe gravemente alle relazioni con i Paesi in questione. Una tale revisione non sarebbe soltanto politicamente inopportuna, bensì anche problematica sul piano del diritto internazionale. Violerebbe infatti le regole fondamentali del diritto internazionale, che non riconosce un diritto generale alla secessione. Il diritto di secessione costituisce soltanto l'ultima ratio in circostanze eccezionali, che evidentemente non sono date nella fattispecie».
La questione è dunque chiusa? Si direbbe di sì, visto che è impensabile che le Camere possano accogliere la mozione nei termini proposti. Del resto, la stampa non ha dedicato alla notizia molta attenzione. Ma non si può escludere che dal cilindro di qualche testa calda (e ve ne sono diverse anche nel Parlamento elvetico) salti fuori qualche altra amenità, utile solo a far sorridere e ricordare che la storia, nonostante i corsi e ricorsi storici teorizzati dal filosofo napoletano Giambattista Vico (vissuto a cavallo tra Seicento e Settecento), raramente si ripete.
Giovanni Longu
Berna 23.6.2010