19 maggio 2010

Quando si parla di «fuga dei cervelli»!

Da decenni si sente parlare in Italia di fuga dei cervelli (in inglese: brain drain) e da qualche anno si discute su come farli ritornare. Purtroppo non esistono al riguardo «scudi» o incentivi analoghi a quelli che servono per far rientrare i «capitali in fuga». I cervelli corrono dove trovano gli ambienti adatti a svilupparsi. Evidentemente quello italiano non è tra i più idonei.
Troppe chiacchiere
Ho letto che si vorrebbe creare «una lobby per la ricerca in Italia» e si è trovato pure lo slogan: «Contro-Fuga». In Parlamento giacciono proposte di legge per incentivare il ritorno dei cervelli italiani dall’estero e rendere più internazionale il mondo universitario italiano. I politici, di tutti gli orientamenti, sembrano fare a gara a evidenziare i problemi dei giovani e a elargire ricette per risolverli. Tutti sembrano puntare sui giovani, l’avvenire del Paese, ma non si dice mai a partire da quando. Da qualche anno si moltiplicano le fondazioni che fanno capo a personalità di spicco, tutte orientate al futuro, dove i giovani sono oggetti, non soggetti attivi. Si susseguono i convegni dedicati al futuro dei giovani, organizzati inevitabilmente da adulti: «generare classe dirigente», «generazione futuro», «giovani e politica», ecc.
La politica e l’economia si schierano decisamente, a parole, dalla parte dei giovani. Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi assicura l’impegno del governo per i giovani. Per il Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini la politica deve gettare le basi per lo sviluppo e dare un futuro ai giovani. Per Luca di Montezemolo occorre «liberarsi dalle divisioni e dagli egoismi e ritrovare il gusto della sfida» e attingendo a una serie di valori (etica, responsabilità, fiducia…) «per definire una visione del nostro futuro ed impegnarci a realizzarla». Parole, parole, parole, soltanto parole!
La parola chiave è «eccellenza»
Mi viene in mente, per contrasto, quanto ebbe a ripetere qualche settimana fa il Ministro della cultura svizzero Didier Burkhalter al Dies Academicus dell’Università della Svizzera italiana a Lugano per spiegare il successo del sistema educativo svizzero: «la parola chiave è eccellenza» e indicare la rotta da seguire per il futuro: «l'educazione e la ricerca svizzere saranno riconosciute se mireranno all'eccellenza». Per questo, diceva ancora, occorre dare fiducia ai giovani.
La Svizzera ne dà la prova, nelle classifiche mondiali riesce a piazzarsi quasi sempre ai primi posti. E l’Italia? Si direbbe che si perda nelle parole, di fatto nelle stesse classifiche occupa spesso posizioni di retroguardia.
Sia ben chiaro, in alcuni settori l’eccellenza italiana emerge ed è riconosciuta a livello internazionale. Alcuni esempi nel campo della moda, dell’alimentazione, del designer, della tecnologia, della domotica sono attualmente in vetrina all’esposizione mondiale di Shanghai. Eppure l’Italia non compare quasi mai ai vertici delle classifiche mondiali che «misurano» la competitività e l’innovazione. Il sistema formativo italiano non gode di alcun prestigio internazionale, sembra addirittura inadeguato ai bisogni di uno dei Paesi più industrializzati del mondo, ma anche tra i meno competitivi e innovativi.
Confronto Italia - Svizzera
Presi singolarmente, i ricercatori italiani sono tra i migliori al mondo e sono per le loro scoperte tra i più citati al mondo nelle riviste scientifiche internazionali. Ma per fare ricerca devono (!) lasciare l’Italia. I ricercatori di alto livello sono molto numerosi, ma i loro progetti non riescono spesso ad aggiudicarsi i finanziamenti internazionali necessari alla loro realizzazione. Nel 2009, ad esempio, su 1584 ricercatori di alto livello (Advanced Grants) che hanno presentato domanda di finanziamento ad un concorso del Consiglio europeo della ricerca (ERC) ben 220 erano italiani, preceduti da britannici (306), ma più numerosi dei francesi (159), tedeschi (145), svizzeri (102), ecc. Su 236 progetti selezionati e dotati di cospicue borse di studio (da 2 a 3,5 milioni di euro) solo 23 erano italiani, contro i 55 britannici, i 31 francesi e altrettanti tedeschi.
Ciò che colpisce maggiormente di questo concorso è che dei 23 progetti vinti da italiani solo 15 saranno realizzati in Italia, mentre in Gran Bretagna ne verranno realizzati 58, in Francia 34, in Germania 31 e ben 29 in Svizzera. Segno che questi Paesi riescono ad attirare anche ricercatori stranieri, mentre l’Italia non riesce a trattenere nemmeno i propri.
Nella rinomata classifica annuale (2009/2010) della competitività del World Economic Forum (WEF), la Svizzera risulta al primo posto, davanti a Stati Uniti, Singapore, Svezia e Danimarca. Per trovare l’Italia bisogna scorrere la lista fino al 48° posto (l’anno precedente occupava il 49° posto).
Secondo un’altra classifica dello stesso WEF che misura la capacità nazionale di promuovere la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (The Networked Readiness Index 2009–2010) l’Italia occupa ancora la 48a posizione, tra la Tailandia e la Costa Rica, mentre la Svizzera si piazza al 4° posto dopo Svezia, Singapore e Danimarca.
Secondo i dati dell’ Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), la Svizzera è anche tra i leader mondiali per numero di brevetti depositati per abitante e si colloca al primo posto al mondo per il numero di pubblicazioni scientifiche per abitante. La Svizzera registra anche il maggior numero di Premi Nobel pro capite, più cioè di qualsiasi altro Paese al mondo.
La Svizzera è anche campionessa europea dell’innovazione, alla testa di un ristretto gruppo di Paesi comprendenti oltre alla Svizzera, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca, la Germania e il Regno Unito. L’Italia è nettamente sotto la media europea (UE27).
Investimenti e organizzazione
A questo punto ci si potrebbe domandare dove sia finita la proverbiale inventiva italiana, ma evidentemente nel settore della ricerca tecnologica avanzata la genialità senza gli strumenti, i laboratori, le università non basta. E per avere questi mezzi oggi più che mai occorrono investimenti sostanziosi e mirati che, ad esempio, la Svizzera mette in campo, mentre l’Italia sembra aspettare tempi migliori, senza accorgersi che la concorrenza non sta ad aspettare.
Se la Svizzera è tra i Paesi leader mondiali nell’innovazione e nella ricerca è perché investe molto nel settore della formazione. Nel 2008 la Confederazione ha investito per la ricerca e lo sviluppo (R-S) 1,5 miliardi di franchi, in aggiunta agli investimenti privati, ben più consistenti, di quasi 12 miliardi di franchi (ossia il 2,2% del PIL). La Svizzera si posiziona al sesto posto nella graduatoria mondiale (preceduta da Israele, Giappone, Svezia, Corea del Sud e Finlandia) e sopravanza del doppio la media dei Paesi dell’Unione europea (UE-27) corrispondente all’1,1% del PIL.
Le conseguenze sono sorprendenti per un piccolo Paese come la Svizzera. Alcune sue università sono tra le più prestigiose al mondo. La classifica internazionale delle università del Times Higher Education colloca ben 4 università svizzere tra le 100 migliori al mondo. In Europa, solo la Gran Bretagna fa meglio e la Svizzera compete alla pari con la Germania e i Paesi Bassi. Si calcola che oltre il 70 per cento degli studenti svizzeri è formato in una delle 200 migliori università al mondo (Shanghai Ranking). Le università svizzere sono molto attrattive e vantano un elevato grado d’internazionalizzazione.
La situazione italiana
La situazione dell’Italia è desolante. Per la formazione investe meno della media non solo europea, ma del mondo. Sono scarsi non solo i finanziamenti pubblici ma anche, anzi soprattutto, quelli privati. I risultati si vedono al livello universitario e nell’innovazione. Nella citata classifica înternazionale, l’università italiana che si posiziona meglio, quella di Bologna, è solo al 174° posto e la seconda, l’Università di Roma La Sapienza, è al 205° posto. Il sistema universitario italiano è poco attraente e il suo grado d’internazionalizzazione è bassissimo. I dottorandi stranieri rappresentano una percentuale minima, poco più di un terzo della media Ue, meno di un quarto della media OCSE.
Perché l’incontro tra innovazione e investimenti sia altamente produttivo occorre un’efficiente organizzazione. Quella svizzera lo è perché, mentre lascia un’ampia autonomia alle scuole universitarie cantonali e federali, garantisce allo stesso tempo un coordinamento adeguato delle loro attività, in particolare per quanto riguarda le infrastrutture più onerose (si pensi ai grandi calcolatori) e all’integrazione nei 28 poli di ricerca nazionali. Il denominatore comune è puntare all’eccellenza.
Al confronto, com’è facile capire, la situazione italiana è sconfortante, anche se, secondo il Censis, l’Italia possiede 71 comprensori di eccellenza e 25 poli dell’innovazione. Ma sono troppo pochi e per di più localizzati per il 70,7% al Nord, il 14,7% al Centro e il 14,6% al Sud. Ma ancor più sconfortante è che la politica e anche l’economia sembrerebbero non accorgersi del ritardo italiano e, di fatto, il sistema formativo non rappresenta una priorità per il Paese, tantomeno un’eccellenza.
Conclusione
Non credo che l’Italia manchi di talenti, anzi ne ha tantissimi, e nemmeno di idee. Manca tuttavia la consapevolezza che la situazione è grave e che il sistema formativo va riformato e sviluppato con il concorso di tutte le forze politiche (maggioranza e opposizione) ma anche dell’economia privata. Per questa riforma occorrono cospicui finanziamenti ed è necessario trovarli perché se un Paese non investe nella formazione e nella ricerca è condannato al declino.
Di fronte a questa esigenza credo che la logorante guerra tra maggioranza e minoranza debba cessare e lasciare il posto al più ampio consenso. Credo anche che la solita formula di riserva «compatibilmente con le ristrettezze di bilancio» non debba essere applicata in questo settore. Ne va davvero dell’avvenire dei giovani e dell’intero Paese.
Sono convinto che se nel Paese si troverà la concordia e il buon senso per investire quanto è necessario nel sistema formativo italiano, a guadagnarne saranno non solo i diretti interessati, ma la ricerca, lo sviluppo, l’innovazione, l’economia, la competitività, la crescita generale del sistema Italia. E la Svizzera sarà ancor più vicina.
Giovanni Longu
Berna 19.05.2010