28 aprile 2010

3. La reazione italiana alla xenofobia


Quarant’anni fa, 1970: anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera

Di fronte alla minaccia xenofoba, sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, le organizzazioni degli immigrati italiani cominciarono a sentire il bisogno di costituire un fronte comune per far sentire in forma unitaria sia alla politica italiana che a quella svizzera la voce di un disagio che andava diffondendosi sempre più a causa della difficile convivenza con la popolazione indigena. Le associazioni più consapevoli del pericolo xenofobo erano le Colonie libere italiane (CLI), ma non sempre trovavano interlocutori attenti né tra le autorità né tra le stesse innumerevoli organizzazioni italiane presenti allora in Svizzera.

In Italia, tranne il Partito comunista italiano (PCI), che aveva nelle Colonie libere le principali organizzazioni di riferimento, né il governo né le altre forze politiche prestavano molta attenzione a quel che succedeva in Svizzera, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Eppure a Roma giungevano sempre più frequentemente voci di un diffuso disagio della collettività immigrata a causa di presunte discriminazioni e della difficile convivenza con la popolazione locale.
In Svizzera invece, le CLI e altre organizzazioni di sinistra erano attentamente osservate dalla polizia federale, che aveva cominciato a schedarne gli attivisti «comunisti» più in vista, ritenendoli i principali responsabili del malcontento. A titolo forse di avvertimento, nel 1955 la Svizzera aveva anche cominciato ad espellerne alcuni (i più esposti o forse i più deboli) con l’accusa di essere dei sobillatori ed elementi pericolosi per la sicurezza interna dello Stato.
Delle Colonie libere italiane dirà qualche anno più tardi James Schwarzenbach, il fautore della più pericolosa iniziativa antistranieri della storia svizzera, che non meritavano l’attributo «libere» perché di fatto non lo erano in quanto asservite al Partito comunista italiano. Con l’anticomunismo dell’epoca, è probabile che dello stesso avviso fossero molti, mentre è certo che le autorità svizzere guardassero con sospetto tutto ciò che avveniva in seno alle Colonie proprio per il loro legame col PCI, il più forte partito filosovietico dell’occidente.
Le reazioni della politica italiana
Contro le espulsioni degli attivisti italiani reagirono non solo l’immigrazione organizzata, CLI in testa, ma anche il governo italiano attraverso l’Ambasciata d’Italia. Persino gran parte della stampa svizzera era insorta, chiedendo al governo federale di dire almeno chiaramente cosa fosse lecito e cosa no, senza appellarsi a giustificazioni generiche. Inutilmente. Infatti le schedature continuarono come pure l’espulsione di numerosi «comunisti».
In Italia, a chiedere un intervento forte del governo nei confronti della Svizzera erano proprio i comunisti. Ma ragion di Stato e il timore che una protesta decisa potesse nuocere ai numerosi italiani presenti in Svizzera e ai futuri flussi migratori, indussero il governo italiano alla massima prudenza. Del resto, sia l’Italia che la Svizzera preferivano scaricare i problemi sulla Commissione mista prevista dall’Accordo del 1948, pur sapendo che aveva ben pochi poteri e non era certo in grado di assicurare migliori condizioni di vita, di alloggio e assicurative ai lavoratori italiani immigrati.
Per cercare soluzioni stabili ai vari problemi che venivano sempre più spesso sollevati, l’Italia finì per ritenere che la sede più consona fosse non tanto la Commissione mista, ma la revisione dell’accordo del 1948. Così, all’inizio del 1961 l’Italia ne fece richiesta alla Svizzera, che non dimostrò grande entusiasmo, ben sapendo che, oltre a dover rispondere alle rivendicazioni italiane, non poteva ignorare la pressione che la piazza ed alcuni movimenti antistranieri esercitavano sul governo e sull’opinione pubblica.
Credendo di forzare la controparte a concedere quanto l’Italia chiedeva, nel novembre del 1961 si presentò in Svizzera il ministro del lavoro Sullo ufficialmente per raccogliere informazioni di prima mano sulle condizioni dei lavoratori italiani. In realtà, oltre ad indagare, il ministro rilasciò numerose interviste nelle quali elencava diverse rivendicazioni provenienti dagli ambienti migratori italiani (ricongiungimento familiare, scuola, assicurazione malattia, assistenza sociale, alloggio ecc.) da presentare alla Svizzera.
Creò tuttavia molto imbarazzo a Palazzo federale non solo la via poco diplomatica di presentare tali rivendicazioni, doppiando in questo modo i lavori negoziali in corso, ma anche la velata minaccia secondo cui «il governo di Roma, ove non si addivenisse ad un accordo soddisfacente potrebbe anche decidere speciali provvedimenti, volti a limitare l'emigrazione in Svizzera della mano d'opera italiana nuova, o ad avviarla soltanto verso quei cantoni che già riconoscono all'operaio italiano vantaggi evidenti». Il negoziato tra l’Italia e la Svizzera fu subito interrotto e solo più tardi fu possibile riprenderlo per concluderlo faticosamente il 10 agosto 1964.
Attivisti «comunisti» schedati ed espulsi
Nel frattempo, per non dare adito alla destra xenofoba di creare difficoltà al governo e di sollevare contro la sua politica l’opinione pubblica, le autorità federali tentarono in molti modi di introdurre freni all’immigrazione e di controllare meglio gli stranieri, soprattutto quelli che sembravano «pericolosi» per l’ordine pubblico. Il controllo delle organizzazioni di sinistra e degli attivisti «comunisti» si fece intenso, giungendo nel 1963 a un caso clamoroso. Insieme a numerosi attivisti comunisti, accusati di propaganda politica e di essere pericolosi per la «pace sindacale», vennero espulsi anche alcuni deputati comunisti venuti dall’Italia per tenere incontri pubblici in alcune associazioni.
La reazione nell’opinione pubblica fu enorme sia in Italia che in Svizzera. Intervenne anche l’Unione Sindacale Svizzera protestando energicamente contro l'espulsione dei lavoratori italiani, ritenendo che tale misura fosse in evidente contrasto con i principi democratici e con i diritti di uomini liberi in terra libera.
L’on. Pellegrino, uno dei politici comunisti espulsi, accusò espressamente le autorità federali di violazione del diritto internazionale e di «persecuzione politica anticomunista contro italiani in terra svizzera» e «un'azione razzista, schiavista, colonialista degli ambienti più reazionari del padronato elvetico, tacitamente assecondato in un primo momento da tutto il padronato svizzero per fiaccare lo spirito rivendicativo e di lotta dei nostri lavoratori».
Per le autorità svizzere, invece, gli attivisti comunisti e i politici italiani dovevano essere espulsi perché mettevano in pericolo la sicurezza dello Stato e poi una legge vietava agli stranieri non domiciliati di fare politica in luoghi pubblici, se non espressamente autorizzati. In realtà si voleva far capire anche alla destra xenofoba che il governo federale intendeva assumere in pieno il controllo della situazione degli stranieri. La destra era invece convinta del contrario e lo fece chiaramente intendere all’indomani della ratifica dell’Accordo d’emigrazione italo-svizzero, che riteneva troppo favorevole all’Italia.
Essendo parte marginale in Parlamento, i movimenti xenofobi potevano solo sperare nella riuscita di una iniziativa popolare che introducesse a livello costituzionale limiti precisi e invalicabili all’immigrazione. E tentarono quell’unica carta, ben sapendo di poter contare su un ampio seguito popolare. Del resto anche i sindacati, pur non approvando le iniziative antistranieri, erano favorevoli a una limitazione dell’immigrazione per salvaguardare meglio la manodopera indigena.
La reazione delle organizzazioni degli immigrati
In un primo momento, ben pochi si resero conto della pericolosità dell’iniziativa popolare lanciata da James Schwarzenbach nel 1969. Molti pensarono che sarebbe stata ritirata come avvenne per la prima delle iniziative antistranieri, quella del 1964 poi ritirata nel 1968 dietro alcune promesse del governo per contrastare la crescita dell’immigrazione. In effetti anche nel 1969 il Consiglio federale promise di intervenire più efficacemente che in passato per frenare l’immigrazione e stabilizzare la popolazione straniera residente. Ma il movimento di Schwarzenbach non gli credette, deciso a volere un pronunciamento del popolo svizzero, come in effetti avvenne nel 1970 e sul quale si tornerà in altro articolo.
Le Colonie libere furono tra le prime a rendersi conto dei rischi che stava correndo soprattutto l’immigrazione italiana e nel 1969 si fecero promotrici di un’ampia mobilitazione contro la destra xenofoba e rivendicarono persino nei confronti delle autorità federali il diritto di essere consultate. Sul finire di giugno 1969, la Giunta federale delle CLI organizzò un seminario di studio che coinvolse ACLI, INCA, ITAL, il Sindacato FOMO e altre organizzazioni, per affrontare alcuni temi scottanti dell’immigrazione italiana in Svizzera, le condizioni degli stagionali, gli infortuni, la formazione professionale, ecc. Nel luglio dello stesso anno, le CLI e le ACLI emisero un comunicato congiunto per presentare la reale portata dell’iniziativa di Schwarzenbach. Nel gennaio 1970, le due associazioni ACLI e FCLI si ritrovarono insieme ai patronati di emanazione sindacale (INCA, ITAL, INASTIS) all’Ambasciata d’Italia a Berna, Ufficio emigrazione e affari sociali, per discutere dell’applicazione della Convenzione italo-svizzera sulla sicurezza sociale.
Un altro momento di aggregazione delle principali organizzazioni italiane è stata la protesta per il modo di far politica nei confronti dei lavoratori immigrati in occasione dell’emanazione del decreto del Consiglio federale del 16 marzo 1970 sulla limitazione degli stranieri esercitanti un’attività lucrativa. Di questo decreto facevano discutere soprattutto le difficoltà e gli ostacoli posti al cambiamento del posto di lavoro, al cambiamento della professione e allo spostamento della residenza da un Cantone a un altro.
Ma l’associazionismo unitario dell’immigrazione italiana in Svizzera ebbe la sua consacrazione in occasione del Convegno di Lucerna il 25 e 26 aprile 1970, al quale sarà dedicato uno dei prossimi articoli.
Le associazioni italiane stavano lentamente prendendo coscienza delle loro possibilità e responsabilità, soprattutto nel denunciare manchevolezze e inadempienze sia da parte dell’Italia sia da parte della Svizzera. Ufficialmente sia il Governo italiano che il Consiglio federale non ne tenevano conto, ma stavano a sentirle, quelle almeno che riuscivano a far sentire la loro voce. Queste erano purtroppo pochissime, perché le altre erano per lo più scarsamente organizzate, senza mezzi, con pochi iscritti e assolutamente ininfluenti socialmente e politicamente.
(Gli altri articoli di questa serie sono apparsi il 10.3.2010 e il 7.4.2010)
Giovanni Longu
Berna, 28.04.2010