20 gennaio 2010

Lo scandalo vergognoso di Rosarno

(L'ECO, 20.1.2010) Le immagini delle violenze subite dagli africani a Rosarno sono di quelle che non possono lasciare indifferenti. E quelle videate sui capannoni abbandonati in cui quei poveracci cucinavano, dormivano e passavano il tempo libero fanno semplicemente ribrezzo.
Vedendo quelle immagini mi sono venute spontaneamente alla mente certe descrizioni sulle condizioni di vita e di alloggio degli italiani immigrati in Svizzera in alcuni cantieri all’epoca della costruzione delle ferrovie e nelle periferie delle grandi città in cui costruivano strade, fabbriche e palazzi all’inizio del secolo scorso.
In un saggio del 1907 sulla «questione degli italiani», lo storico Jacob Lorenz esponeva senza pietà le misere condizioni degli italiani nelle principali città svizzere, dove abitavano in stamberghe squallide e insane e dove si nutrivano miseramente. «Le abitazioni degli italiani sono da cercare in quelle case che per la loro sporcizia e la loro mancanza d’igiene sarebbero da abbandonare al più presto possibile […]. Nelle stanze si trovano dappertutto letti e panconi. La latrina che viene usata da un gran numero di persone si trova in condizioni raccapriccianti […]. Ogni letto è occupato da 2, 3 o più persone. Senza differenza d’età, spesso senza quella del sesso. Genitori e bambini, coppie sposate e affittuari coabitano insieme nelle stesse camere, che vengono ventilate raramente e sono sovraffollate del doppio e del triplo».
Un altro storico, Hektor Amman, così scriveva degli italiani in Svizzera nel 1917: «In genere appartengono ai ceti più poveri e meno colti della popolazione italiana. Tra di loro gli analfabeti sono numerosi. Di conseguenza anche le loro pretese nei confronti della vita sono le più modeste ipotizzabili. Per mangiare spendono poco […]. Molti non mangiano assolutamente nulla di caldo durante l’intera giornata, solo pane e salsiccia o formaggio e birra. Inoltre spesso cucinano assieme in una qualche baracca, alle cui pareti sono appese su grossi chiodi le pagnotte iniziate. Si bevono poche bevande alcoliche. Apparentemente lo sporco e i buchi nei vestiti non danno loro alcun fastidio. Per questo motivo sono pochissimi quelli che possiedono indumenti da lavoro o tute. A contrastare con le nostre idee sono però soprattutto le loro condizioni di alloggio. Gli italiani che lavorano a progetti ferroviari ecc. vivono lontano dagli insediamenti umani e quelli che lavorano in campagna solitamente in particolari baracche di legno, nelle città nei quartieri più miseri. L’abitazione di un italiano è riconoscibile da lontano per la sporcizia e il degrado, come vetri infranti, porte rotte ecc. Si cucina, si mangia e si dorme nello stesso locale, e in ogni locale dormono tante persone quante possono stendersi su materassi per terra o simili.[…] Tutto ciò consente loro naturalmente di mettere da parte buona parte dei loro guadagni».
Si dirà, forse, quelli erano altri tempi. Già, da allora è passato un secolo, ma per molti sembra passato inutilmente, perché se Lorenz o Amman dovessero descrivere le condizioni di alloggio degli extracomunitari di Rosarno (e probabilmente di molte altre località simili) userebbero le stesse parole e proverebbero lo stesso disgusto.
Le responsabilità
Un sentimento che non ho notato nelle reazioni degli abitanti di Rosarno e nemmeno degli uomini politici che sono intervenuti sulla vicenda. O fa differenza che cento anni fa i protagonisti fossero italiani e oggi siano africani? O sono forse cambiate le responsabilità? Evidentemente, la storia dell’emigrazione italiana ha insegnato poco, forse perché troppo in fretta dimenticata.
Potrebbe aiutare la nostra riflessione quanto ha scritto un altro storico, Peter Manz, un italo-svizzero che si è occupato intensamente delle pessime condizioni igienico-sanitarie delle miserrime abitazioni spesso improvvisate degli immigrati italiani a Basilea agli inizi del secolo scorso. Dopo aver raccolto le testimonianze dell’epoca sull’indecenza di quelle abitazioni pietose, Manz confessa che a colpirlo è stato «innanzitutto il silenzio e la noncuranza della maggior parte degli osservatori: qui, anche nel [primo] dopoguerra, autorità ed imprenditori ma anche sindacati ed operai, si distinguono spesso per un vistoso ritardo, per una scarsa sensibilità e per una complice indifferenza, per arretratezza, impreparazione e disinformazione», ma «soprattutto il disinteresse degli ambienti padronali e la complicità delle autorità competenti, ma anche la debolezza e l’incoscienza, la rassegnazione e la miopia di larghi strati di lavoratori, soprattutto se stagionali».
La costatazione fatta da Manz mi sembra in buona parte applicabile anche alla situazione registrata un secolo più tardi a Rosarno e regione. Anche in questo caso, infatti, la situazione non era nascosta o isolata, ma sotto gli occhi di tutti, che hanno fatto finta di non vedere e non conoscere. La gente del posto, provava solo fastidio, ma probabilmente non ha reagito nella maniera propria di uno Stato di diritto. Per paura? E’ probabile, ma insufficiente a giustificare l’accettazione di uno stato d’illegalità e di degrado tale.
E’ risaputo che molte responsabilità vanno cercate nella sete di guadagno di avidi padroni e nello strapotere della «’ndrangheta». Ma a fallire in questa vicenda è stato un sistema diffuso di illegalità, indifferenza, ipocrisia, irresponsabilità. Dovrebbe essere intollerabile per tutti, in un Paese civile, accettare situazioni di degrado e di sfruttamento come quelle ampiamente e tragicamente documentate!
In Italia si discute molto, forse perfino troppo, di giustizia, mentre la giustizia applicata fa spesso cilecca, più che bendata sembra cieca. Come si fa a parlare apertamente di ‘ndrangheta, di cosche, di mandanti e di esecutori con tanto di nomi e cognomi e non riuscire a renderli innocui? Come si fa ad accettare senza indignarsi e senza reagire un vero e proprio atto di schiavitù come quello perpetrato nei confronti di esseri umani, sfruttati all’inverosimile, «colpevoli» solo di non disporre dei permessi di residenza giusti e di non avere sindacati a loro difesa?
Soprattutto la politica ha le sue colpe. Se uno Stato fa una legge, dev’essere anche in grado di osservarla e farla osservare, altrimenti è preferibile che non la faccia. Non è degno di uno Stato di diritto tollerare così tanti clandestini come sembrerebbe ne circolino liberamente soprattutto nel Meridione. E per favore, ogni governo si prenda le proprie responsabilità e non si faccia a scarica barile. Non ha senso che il ministro degli interni in carica e la maggioranza che lo sostiene cerchino di addossare le responsabilità dell’immigrazione clandestina al lassismo dei precedenti governi per non aver sorvegliato a dovere tutti gli ingressi e aver tollerato sul territorio nazionale chiunque fosse riuscito a mettervi piede, anche illegalmente. Le leggi sono dello Stato e ogni governo è tenuto a farle rispettare tutte. Oggi è in gioco la credibilità dell’attuale governo.
Legalità e integrazione
Mi hanno colpito anche alcuni commenti della gente comune, secondo cui lo scoppio della violenza a Rosarno era «inevitabile». Come se le condizioni che provocano la violenza non dipendessero dalla volontà delle persone e non potessero essere modificate. Come se all’illegalità non ci fosse rimedio. Come se la malavita organizzata fosse più forte dello Stato e lo Stato impotente di fronte alle forze del male. Forse è proprio questo il punto: occorre una presa di coscienza collettiva, Stato compreso, che il bene (comune) può vincere il male e ciascuno, nessuno escluso, deve dare il proprio contributo.
Ma è evidente che il compito più importante e più difficile spetta allo Stato. Sarebbe superficiale ignorare le difficoltà, ma non sarebbe nemmeno più tollerabile l’indecisione. L’immigrazione, quella regolare come quella clandestina, è un problema politico, nazionale e sociale che non è possibile – Rosarno insegna – affrontare senza che lo Stato scenda in prima linea.
Due mi sembrano le linee guida che dovrebbe seguire il governo: da una parte la fermezza nell’applicazione delle leggi, compresa quella sull’immigrazione clandestina, e dall’altra impostando e realizzando una politica d’integrazione che concili gli interessi della popolazione locale e gli interessi degli immigrati. Le due linee non sono divergenti ma convergenti, portano solo a un buon risultato.
Purtroppo non esistono scorciatoie. La lunga storia della politica migratoria svizzera, che ha coinvolto nel bene e nel male centinaia di migliaia di italiani immigrati, m’insegna che la migliore integrazione non la si fa con le leggi ma con la pratica: nella scuola, sul posto di lavoro, in chiesa, per strada, in televisione, nell’associazionismo, nello sport.
L’immigrazione è soprattutto un problema sociale, perché ne va dell’equilibrio dell’intera collettività. L’ingovernabilità e il degrado di un sottogruppo di popolazione potrebbe provocare il collasso dell’intera società.
La storia e la memoria dell’emigrazione di milioni di italiani dovrebbe agevolare il compito che aspetta oggi l’Italia in questa materia. Gli italiani, ovunque, anche in Svizzera, hanno dovuto sopportare le cosiddette pene dell’inferno prima di affermarsi come una componente sana, produttiva e importante, in tutti i Paesi dove ha messo radici. Oggi quel che conta è il risultato. E la riuscita degli italiani all’estero dovrebbe insegnare che anche in Italia gli immigrati possono diventare una componente utile e importante. Per questo devono essere rispettati ed esigere da loro rispetto, nello spirito di una comunità che deve crescere insieme.
Giovanni Longu
Berna 17.01.2010