10 marzo 2010

Andare oltre il caso Di Girolamo e la legge Tremaglia

Messo da parte Di Girolamo, decaduto da senatore in quanto eletto all’estero, si dice, con i voti della malavita organizzata, occorre affrontare seriamente il problema generale del diritto di voto degli italiani residenti all’estero. Molti (interessati) si sono affrettati ad avvertire che il caso delinquenziale di uno non deve mettere in discussione un diritto sacrosanto faticosamente conquistato dagli italiani che vivono all’estero. Eppure proprio il caso Di Girolamo mette in evidenza che la questione del voto all’estero è quanto mai aperta.
Non si tratta ben’inteso di rimettere in discussione un diritto, consolidato, pienamente costituzionale e ragionevole. Il diritto di voto e di eleggibilità è infatti collegato direttamente col diritto di cittadinanza, per cui ogni cittadino in qualunque punto della terra ha il diritto di esercitarlo, nei modi stabiliti dalla legge. Si tratta invece delle modalità con cui tale diritto è stato finora esercitato all’estero, tanto è vero che le critiche provengono dai quattro punti cardinali e da tutti i partiti politici.
La legge che stabilisce le «norme per l' esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all' estero» è la n. 459 del 2001, meglio nota come Legge Tremaglia, dal suo principale sostenitore. Votata allora a grande maggioranza, fu salutata dai più come una vittoria dopo la lunga attesa degli italiani residenti all’estero di poter eleggere propri rappresentanti rimanendo all’estero, senza dover rientrare in Italia per votare. Probabilmente nessuno, allora, si rendeva conto della «anomalia» di una tale legge. Se ne resero conto in molti già alla sua prima applicazione, nel 2006, quando consentì la vittoria del centrosinistra e al governo Prodi di reggersi unicamente grazie al voto determinante di alcuni senatori eletti all’estero. Una vera anomalia perché poche persone residenti all’estero, aventi i loro principali interessi fuori dell’Italia, erano in grado di condizionare le scelte del governo italiano e addirittura di determinarne la vita o la morte.
Questa non è tuttavia l’unica anomalia della legge. Un’altra riguarda la caratteristica forse più importante del voto, la segretezza. Solo in teoria è salvaguardato il secondo comma dell’articolo 48 della Costituzione sul voto «personale ed uguale, libero e segreto». In pratica il voto per corrispondenza non garantisce né il voto personale né il voto segreto. Di fatto, sia nel 2006 che nel 2008, molte schede elettorali furono vendute e comprate, compilate da chi non ne aveva il diritto, senza che nessuna autorità potesse esercitare alcun tipo di controllo. Le denunce di brogli furono numerosissime, ma sicuramente avrebbero potuto essere molte di più.
Inoltre, nonostante il titolo della legge citata sembri chiaro, («Norme per l' esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all' estero»), è stato possibile eleggere nella Circoscrizione Estero anche persone non residenti come Di Girolamo. Si obietterà che la sua è stata un’elezione illegittima, resta il fatto che è stata possibile e che ci sono voluti due anni per invalidarla. Evidentemente la legge non è chiara riguardo alla residenza oppure chi aveva il compito di controllarne la corretta applicazione non ha potuto o voluto farlo.
Il fatto a mio parere più preoccupante che il caso Di Girolamo fa emergere è tuttavia un altro. E’ che la legge ha consentito e consente che all’estero vengano elette persone che non hanno nessun legame diretto con gli elettori e non rappresentano i loro interessi. Del resto, anche nel caso di una procedura regolare di elezione il problema della rappresentanza resta. Data la vastità del collegio elettorale, il legame tra elettori ed eletto è pressoché impossibile. Nel caso poi che davvero la riforma del Parlamento riducesse il numero dei parlamentari nazionali e di conseguenza anche quelli eletti all’estero sarebbe ancor più evidente che questi ultimi, eletti a livello continentale, rappresenterebbero in realtà poco più che se stessi.
Il problema della rappresentanza o della non rappresentanza degli eletti all’estero ha anche un altro aspetto spesso trascurato nelle discussioni. Tutti i parlamentari dovrebbero rappresentare oltre agli orientamenti politici anche gli interessi degli elettori. Ma quali orientamenti e interessi rappresentano i parlamentari eletti all’estero?
La legge Tremaglia è stata concepita in un contesto culturale di un’emigrazione che non c’è più ormai da decenni. Gli italiani residenti all’estero non sono nella stragrande maggioranza una porzione di nazionali che vive provvisoriamente fuori d’Italia, ma sono persone, spesso con la doppia cittadinanza, che hanno fatto del Paese in cui vivono il vero centro dei loro interessi. I loro orientamenti politici si riferiscono soprattutto alla realtà in cui vivono e non a quella italiana che spesso neppure conoscono se non tramite informazioni indirette, frammentarie e incontrollabili. I parlamentari italiani eletti all’estero non potranno quindi mai rappresentare né gli orientamenti né gli interessi reali dei cittadini ormai residenti stabilmente all’estero.
Alla luce anche solo delle precedenti osservazioni non credo che si possa dare per scontata la necessità e nemmeno l’utilità dell’elezione diretta di parlamentari residenti all’estero. E per coloro che hanno ancora i loro interessi preponderanti in Italia sarebbe sicuramente preferibile che avessero la possibilità di contribuire a far eleggere deputati e senatori della loro circoscrizione naturale, in grado di meglio rappresentare i loro interessi.
Il diritto di voto per un cittadino è sacrosanto, il suo esercizio, tuttavia, non può essere scriteriato. Per questo la legge Tremaglia ha forse già fatto il suo tempo e merita una revisione radicale.
Non vorrei tuttavia che la morale del discorso si riducesse all’abolizione pura e semplice dell’elezione dei parlamentari della Circoscrizione Estero. Ciò che infatti ritengo ben più importante è che si affronti finalmente il problema generale di un sistema di organizzazione e di interconnessione delle collettività italiane all’estero (una specie di rete dell’italofonia), capace di interagire non solo con lo Stato italiano, ma anche a livello locale con i vari Stati in cui la presenza italiana è significativa. Solo all’interno di questo sistema dovrebbe trovare la sua giusta collocazione anche il discorso della rappresentanza degli italiani all’estero, da affrontare in chiave prammatica e funzionale e non in chiave partitica e autoreferenziale.
Giovanni Longu
Berna 10.3.2010

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