13 dicembre 2009

Associazioni italiane: dove sono i giovani?

Ogniqualvolta si organizza un incontro per parlare di associazioni e associazionismo, inevitabilmente ci si domanda: dove sono i giovani? Ma la domanda da porsi sarebbe piuttosto: perché non ci sono giovani? Ha tentato di porsela, recentemente nel corso di un incontro a Bienne, un anziano militante dell’associazionismo, Walter Antelmi. Egli ha anche abbozzato una risposta: probabilmente i giovani disertano le nostre associazioni perché non siamo stati capaci di trasmettere loro i valori in cui credevamo. Mi pare difficile non dare almeno un po’ di ragione all’amico Walter. Ma la risposta a quella domanda è indubbiamente più complessa.
Prima generazione e giovani
E’ sicuramente vero che i giovani della seconda e soprattutto della terza generazione sono lontanissimi dallo spirito dell’associazionismo che ha caratterizzato per molti decenni l’immigrazione italiana in Svizzera, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Questa lontananza si spiega però solo in parte con l’incapacità degli adulti nel trasmettere valori quali solidarietà, impegno, intraprendenza, coralità, che stavano alla base dell’associazionismo impegnato.
Sarebbe azzardato colpevolizzare la prima generazione. Le esperienze associazionistiche di questi immigrati erano infatti legate molto spesso a esperienze traumatiche e sarebbe stato impossibile parlare delle prime senza inserirle in un contesto di grande sofferenza. Un padre e una madre, se possono, desiderano che i figli conservino solo bei ricordi del passato e invece, purtroppo, le prime generazioni fino agli anni Settanta potevano trasmettere (quasi) solo ricordi di sofferenza, tristezza, sfruttamento, isolamento, paura, rabbia di non poter comunicare col mondo indigeno. E’ dunque comprensibile che molti genitori non se la siano sentita di coinvolgere anche solo indirettamente le generazioni nate negli anni Settanta e Ottanta in questa loro storia, tanto più che le circostanze stavano velocemente cambiando.
Alle origini dell’associazionismo
Sta di fatto che molti giovani (ma anche meno giovani) non hanno mai avuto l’opportunità di riflessione sull’origine e sulla natura dell’associazionismo italiano del ventennio 1960-1980, il periodo della sua massima espansione in Svizzera. Anch’esso, come quello di un secolo prima, non nasceva da spirito d’avventura o dal desiderio di riempire in qualche modo il tempo libero del fine settimana, ma per risolvere problemi seri e in certo senso vitali.
Se le prime forme associazionistiche in emigrazione erano nate verso la metà dell’Ottocento per proteggere le famiglie in caso di infortunio, disoccupazione, malattia, morte di un loro congiunto (le famose società di mutuo soccorso), quelle degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono nate per tentare di risolvere altri pericoli, non meno gravi, legati sia alle caratteristiche degli immigrati e sia all’ambiente circostante. Vale forse la pena accennarvi.
Così descriveva la situazione un contemporaneo: «Non esistono praticamente rapporti tra italiani e svizzeri, se si escludono quelli puramente formali derivanti dai contatti quotidiani sui luoghi di lavoro, e dal vivere nella stessa città. Italiani e svizzeri, pur lavorando nelle medesime fabbriche, abitando talvolta fianco a fianco, usando gli stessi servizi e infrastrutture, si ignorano reciprocamente, svolgendo vite parallele, ma completamente separate. […] Le discriminazioni non avvengono con limitazioni e prescrizioni, ma piuttosto in modo automatico, per cui alcuni quartieri, locali, abitazioni diventano “per italiani” e non vengono frequentati dagli svizzeri e viceversa. Da ambo le parti si riscontra la tendenza a mantenere le proprie caratteristiche ed abitudini, senza sentire l’esigenza di un interscambio ed anzi l’un gruppo etnico guardando con un certo senso di fastidio l’altro» (Da Ros, 1975).
L’associazionismo tentò storicamente di dare una soluzione a questo problema d’incomunicabilità, non tanto facendo da ponte (salvo rare eccezioni), quanto proponendosi come una sorta di ciambella di salvataggio. Infatti, dice la stessa fonte, «tale situazione è accettata come un dato di fatto dalle associazioni che non pensano di avere la forza sufficiente per mutarla, essendo essa troppo generale e diffusa e affondando le proprie radici in un costume generale e ormai consolidato». E ancora: «se all’interno delle associazioni esiste fra i soci, almeno gli assidui, una certa coesione e confidenza (si danno generalmente del tu) ed anche una certa frequenza di rapporti, che permangono generalmente anche al di fuori dell’associazione, per quanto riguarda invece l’ambiente esterno, le associazioni paiono mantenere un certo isolamento».
Associazioni per sopravvivere
Per molti immigrati l’associazionismo era la garanzia di una sopravvivenza «umana» e dignitosa. Si trattava soprattutto di superare quella malattia allora diffusissima e pericolosa, che pur chiamata con nomi diversi (disagio, solitudine, nostalgia, senso di abbandono, paura), altro non era se non una profonda tristezza che ha accompagnato gran parte degli immigrati dal dopoguerra agli anni Settanta. Era la tristezza di chi si sentiva non solo sfruttato («ci trattavano come schiavi», si legge in molte autobiografie), ma anche considerato un estraneo: «era una sofferenza fisica e morale; eravamo buoni solo per il lavoro ma per il resto non eravamo accettati». Scriveva nel 1966 Tozzoli (Gli svizzeri visti da uno straniero):«Il miglior comportamento dello svizzero medio non oltrepassa il livello di un’educata indifferenza».
L’associazionismo ha rappresentato per parecchi decenni non solo l’antidoto alla solitudine e all’isolamento, ma anche un ambiente corroborante, che di fatto rendeva inutile (errore!) l’integrazione. Non va nemmeno dimenticato che per decenni gli immigrati italiani escludevano di fermarsi a lungo in questo Paese e il loro principale interesse era lavorare, risparmiare e ritornare in patria per costruirsi la casa e magari avviare un’attività in proprio. Anche la vita dei figli nati in Svizzera era tutta proiettata nella prospettiva del ritorno. Per questo la rete dei rapporti sociali dei primi immigrati si svolgeva quasi esclusivamente nell’ambito dell’associazionismo.
In effetti, il rischio di essere sopraffatti dalla solitudine e dalla tristezza era grande. Questo spiega anche la gran voglia degli italiani di quegli anni di organizzare incontri, dibattiti, soprattutto feste con tanto di cori, orchestre e artisti fatti venire appositamente dall’Italia. Le musiche e i canti erano soprattutto quelli folcloristici, atti più di altri a rafforzare il senso di appartenenza a una regione e a una patria. Le iniziative erano tante e nascevano dall’intraprendenza dei soci. Forse anche per questo carattere fortemente volontaristico esse avevano un grande successo, soprattutto nella grandi città (ad es. Zurigo, Ginevra, Berna, ecc.) ma anche nelle piccole.
Anche quando non si organizzavano feste, i centri italiani erano sempre animati. A Berna, ricordano alcuni anziani che frequentavano la Casa d’Italia, «era come una grande famiglia dove noi italiani passavamo le sere e le domeniche giocando, chiacchierando e festeggiando».
L’isolamento degli immigrati non era tipico solo della Svizzera tedesca, dove l’ostacolo maggiore era costituito dalla lingua. Anche in quella francese non era molto diverso, come ricorda una signora immigrata a Neuchâtel agli inizi degli anni Sessanta: «Tutti i sabati e le domeniche pomeriggio si andava fuori assieme, a bere un caffè a Neuchâtel nei posti dove all’epoca erano frequentati quasi da soli italiani. Ci si trovava fra noi, gli svizzeri in quel periodo ci evitavano, eravamo solo mano d’opera niente altro. Avevamo i nostri locali».
Associazionismo autosufficiente
Le associazioni erano divenute centri di italianità, luoghi d’incontro, di ricreazione, di discussione, di oblio della quotidianità e di ricarica umana. L’associazionismo finì per diventare una sorta di mondo separato, non in contrasto o concorrente con quello svizzero, ma parallelo, ben organizzato e autosufficiente. In questo mondo parallelo tutto «italiano», era possibile soddisfare quasi tutti i bisogni, dall’asilo alla scuola dell’obbligo, dalla ricreazione all’impegno sociale, dall’assistenza alla politica, dallo sport all’arte, dalla cultura alla beneficienza, ecc. Molte associazioni gestivano anche buoni ristoranti e alcune finirono per coincidere con i ristoranti stessi.
Solo in famiglia e nelle associazioni gli italiani della prima generazione si sentivano pienamente a loro agio. Non si rendevano conto, però, che questo mondo «italiano», nel giro di qualche decennio sarebbe divenuto evanescente ed effimero agli occhi della stragrande maggioranza dei giovani figli o nipoti e pronipoti di quegli immigrati.
Le nuove generazioni
E’ evidente, a questo punto, rispondere che i giovani non partecipano alla vita associazionistica tradizionale soprattutto perché non hanno gli stessi problemi dei loro nonni o genitori e hanno modalità diverse di manifestare i valori che stavano alla base dell’associazionismo.
La sofferenza che gravava sulle prime generazioni fortunatamente non si è trasmessa alle successive. La rabbia dell’incomunicabilità non ha più ragion d’essere perché l’ostacolo della lingua è stato naturalmente superato fin dalla scuola materna. Con l’accesso alla formazione professionale degli stranieri alla pari degli svizzeri sono andate via via scomparendo anche le differenze delle carriere e delle posizioni professionali. Sono radicalmente mutati anche i rapporti di lavoro e le relazioni sociali. In altri termini, l’integrazione ha creato attorno ai giovani di seconda e terza generazione un contesto sociale completamente diverso da quello dei loro padri e antenati. E’ dunque comprensibile che essi non abbiano affatto bisogno di un mondo parallelo «italiano», sicuramente non dell’associazionismo tradizionale italiano, ma nemmeno di quello più recente regionale e nazionale estremamente politicizzato e orientato quasi esclusivamente all’Italia.
Il problema della trasmissione dei valori è altra cosa, ma anche al riguardo occorre una certa prudenza nell’esprimere giudizi severi. Alcuni dei valori molto presenti nella prima generazione sono mutati nel tempo e riguardano l’intera società. Si pensi ad esempio al diverso modo di considerare il rispetto della famiglia o lo spirito di sacrificio o l’attaccamento al lavoro. Altri valori invece sono passati per intero, ma hanno nei giovani applicazioni differenti. Si pensi alla tenacia nello studio e nel lavoro, che ha portato molti giovani di seconda e terza generazione a carriere professionali di prim’ordine. Si pensi anche alla solidarietà e al volontariato, anche se vengono coniugati dai giovani d’oggi in altre forme rispetto all’associazionismo. Senza dimenticare che ai giovani d’oggi vanno riconosciuti anche capacità e valori nuovi rispetto a quelli del passato. Basti ricordare la loro apertura mentale, la notevole capacità di adattamento, l’accentuata capacità di apprendimento e d’interagire, un rapporto col denaro e col risparmio più sano che in passato, ecc.
Ciò che spesso nelle discussioni tra soli adulti non si riesce a capire è che i giovani italiani sono necessariamente «diversi» dalle generazioni precedenti e anche quando li si vuole considerare a tutti gli effetti «italiani» si dimentica che sono italiani in un modo «diverso» dai giovani che vivono in Italia. I giovani nati e cresciuti in Svizzera, anche se col solo passaporto italiano, sono molto probabilmente più svizzeri che italiani, perché hanno modi di pensare e di vivere fortemente impregnati della cultura locale. E questa diversità non è un minus, di cui eventualmente farsi colpa, ma una ricchezza, che va compresa, rispettata e valorizzata.
Giovanni Longu
Berna, 13.12.2009