06 dicembre 2009

60 anni fa il primo accordo italo-svizzero in materia di assicurazioni sociali

Quando nel dopoguerra gli italiani cominciarono ad affluire in massa nella Confederazione, probabilmente nessuno intuiva che quel flusso sarebbe durato parecchi decenni. In Italia era diffusa la speranza di farcela, dapprima ricostruendo quanto era stato distrutto dalla guerra, poi creando lo sviluppo all’inseguimento del benessere americano, intravisto con l’arrivo dei soldati americani ben equipaggiati ed espressione di una società ricca. Avevano portato insieme alla pace il boogie-woogie, il chewing-gum, la Coca-Cola, tanto cioccolato e marmellata, insomma un’immagine di benessere invidiabile.
Qualche segno di ripresa si era intravisto già nel 1946 e la Vespa, realizzata quell’anno, sembrava fatta apposta per alimentare il sogno della crescita. Anche il Piano Marshall americano sembrava promettere a breve termine lavoro per tutti. E’ vero che c’era ancora tanta fame e la disoccupazione colpiva non meno di due milioni di persone, ma si sperava che presto ci sarebbe stata la piena occupazione. Questo promettevano del resto i vari governi del dopoguerra. Intanto, almeno per un po’ sembrava utile o addirittura necessario riprendere la strada dell’emigrazione.
Non era tuttavia facile trovare in quel momento Paesi in grado di assorbire grandi numeri di immigrati. Per una combinazione fortuita di fattori (ad es. il divieto di emigrazione dei tedeschi e degli austriaci imposta dagli Alleati) la Svizzera si trovò nella condizione di poter accogliere decine di migliaia di italiani per i lavori stagionali, soprattutto opere del genio civile e dell’edilizia e attività agricole.
Per molti italiani fu una benedizione poter venire in Svizzera, dove, come scrisse un emigrato-poeta nel 1914, «il sudor con le monete d’oro si ripesa», mentre in Italia, nei primi anni del dopoguerra, l’inflazione galoppava e i salari perdevano continuamente potere d’acquisto. Passavano in secondo piano i disagi e le difficoltà da superare nel Paese d’immigrazione, come pure le fatiche e i pericoli legati al tipo di lavoro e l’insicurezza del futuro.
Fu così che già nel 1946 gli italiani cominciarono ad emigrare in Svizzera a decine di migliaia, per qualche stagione, si diceva, al massimo per qualche anno, in attesa di trovare il posto fisso in Italia. Nel 1947 e 1948 il flusso migratorio verso la Svizzera continuò intensamente, anche perché, per molti, la speranza nella ripresa italiana e nella piena occupazione si allontanava. Meglio tenersi il lavoro sicuro in Svizzera, anche se si trattava di occupazioni stagionali, perché gli svizzeri, con la legge sugli stranieri del 1931, avevano impegnato il governo federale a lottare contro l’inforestierimento, limitando l’immigrazione stabile e regolare.
Dapprima l’Accordo di emigrazione…
Vista la continuità dei flussi migratori, l’Italia ritenne opportuno stipulare con la Svizzera un apposito accordo, allo scopo di «mantenere e sviluppare il movimento emigratorio tradizionale dall’Italia in Svizzera». Negli ambienti politici si nutrivano forti dubbi su una prossima piena occupazione, tanto valeva offrire e ottenere garanzie riguardanti i lavoratori italiani immigrati in Svizzera.
In Italia, ricorderà qualche anno più tardi l’on. Lupis (PSI), «tutti i partiti politici erano d’accordo nel sostenere la necessità di trovare alla nostra sovrappopolazione quegli sbocchi che avrebbero permesso, come hanno permesso in epoca anteriore, di poter ristabilire un certo equilibrio». Lo stesso Nenni dichiarava nel 1946 che «l’emigrazione è una esigenza fondamentale per l’Italia».
In Svizzera, d’altra parte, l’economia che reclamava «braccia» trovava negli immigrati italiani la manodopera che cercava, senza per altro intaccare la politica governativa intenzionata a non far aumentare la popolazione straniera stabile.
Per queste ragioni, praticamente nessuno pose ostacoli alla firma nel 1948 dell’«Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera». Non da parte italiana, in quanto erano state ottenute sufficienti garanzie per i connazionali. L’Accordo prevedeva infatti, fra l’altro, che «i lavoratori italiani dovranno beneficiare in Svizzera dello stesso trattamento dei nazionali per quanto concerne le condizioni di lavoro e di rimunerazione», come pure la clausola che «le leggi e regolamenti relativi alle prevenzioni degli infortuni, all’igiene (compresa la lotta contro la tubercolosi) e alla protezione dei lavoratori si applicheranno ai lavoratori italiani come ai nazionali». Neppure da parte svizzera furono sollevate obiezioni rilevanti, perché l’Accordo riguardava esclusivamente i lavoratori «stagionali», che non venivano considerati nella popolazione residente e quindi non rappresentavano alcun pericolo d’inforestierimento.
… e poi la Convenzione sulle assicurazioni sociali
L’unica perplessità manifestata dalla delegazione italiana durante le poche sedute relative all’Accordo del 1948 riguardava le assicurazioni sociali, ritenute insufficienti. La delegazione svizzera non fu infatti in grado di fornire alcuna garanzia precisa, perché non aveva ricevuto al riguardo alcun mandato.
Le due parti convennero di rimandare a un successivo negoziato, da avviare al più tardi entro sei mesi dalla firma dell’Accordo del 1948, la trattazione delle assicurazioni sociali applicabili ai lavoratori italiani. E così fu. L’Accordo del 1948 venne firmato il 22 giugno 1948 e il 18 ottobre furono avviati i negoziati in vista di una «Convenzione tra l’Italia e la Svizzera relativa alle assicurazioni sociali». In pochi mesi si arrivò alla firma (4 aprile 1949) e, data l’importanza della materia, gli effetti furono fatti decorrere dal 1° gennaio 1948.
Per ammissione di entrambe le delegazioni, il risultato della Convenzione era quanto di meglio si poteva garantire in quel momento, ma entrambe erano consapevoli che la complessa materia delle assicurazioni sociali era in evoluzione e andava sicuramente ripresa. Non va dimenticato che solo nel 1947 il popolo svizzero aveva approvato l’assicurazione per la vecchiaia e i superstiti (AVS), e questa era appena entrata in vigore (1° gennaio 1948). Molto restava ancora da fare nel campo dell’assicurazione contro gli infortuni, l’invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc.
In Italia, soprattutto le sinistre, criticarono i magri risultati della delegazione italiana e, al momento della ratifica da parte della Camera dei Deputati (dopo che il Senato l’aveva già approvata), un loro rappresentante, l’on. Aldo Cucchi (PCI), lamentò soprattutto le presunte «deficienze» della Convenzione, specialmente nel campo dell’assicurazione malattie, dell’assicurazione infortuni, degli assegni famigliari e di altre assicurazioni.
Secondo il relatore di maggioranza favorevole alla ratifica, invece, tutte le critiche erano infondate perché la Svizzera garantiva con quell’accordo la parità di trattamento tra italiani e svizzeri, compatibilmente con la legislazione in vigore. Egli riconobbe alla Svizzera un grande «spirito di cordialità verso l’Italia» e vide in quell’accordo «un nuovo atto di amicizia della Svizzera verso l’Italia, che viene a riconfermare la cordialità e l’amicizia, nel nome del lavoro, fra le Repubbliche amiche d’Elvezia e d’Italia». La Camera dei Deputati ratificò la Convenzione con 255 voti favorevoli, 16 contrari e 81 astensioni.
Limiti della Convenzione
In effetti, con quella Convenzione la Svizzera s’impegnava a ben poco, non tanto per mancanza di apertura o di buona volontà, quanto per l’impossibilità della Confederazione di garantire certi diritti e prestazioni per carenza legislativa o difetto di competenza (ad es. nel campo degli assegni familiari). Anche nel campo dell’assicurazione vecchiaia e superstiti, di competenza federale, per rendere valida la Convenzione occorreva modificare un paio di articoli della legge da poco entrata in vigore.
Una difficoltà oggettiva era costituita dalla differenza delle rispettive legislazioni nazionali in materia, per cui in regime di reciprocità la Svizzera non poteva concedere ai cittadini italiani immigrati più di quanto l’Italia fosse in grado di assicurare ai cittadini svizzeri ivi residenti e, soprattutto, più di quanto era concesso agli stessi svizzeri residenti nella Confederazione. Per la stessa ragione, probabilmente, la delegazione svizzera dichiarò di non poter accettare, «nello stato attuale» la proposta della delegazione italiana di richiedere ai rispettivi governi d’impegnarsi «ad applicare in materia di assicurazioni sociali ai cittadini svizzeri in Italia e ai cittadini italiani in Svizzera il regime di cui beneficiano o beneficeranno in avvenire i cittadini della nazione più favorita».
Un’altra difficoltà era dovuta alla condizione particolare dell’immigrazione italiana, che aveva generalmente un carattere stagionale ed era sottomessa di fatto a un principio di rotazione per cui sarebbe stato difficile a moltissimi lavoratori italiani maturare i diritti alla pensione svizzera. Questa condizione particolare non sempre era stata tenuta presente dal legislatore.
Va anche aggiunto che per la Svizzera si trattava del primo accordo internazionale in materia di assicurazione vecchiaia e superstiti. Un accordo, dunque, molto importante, perché avrebbe dovuto far scuola per accordi analoghi con altri Paesi.
Resta il fatto che la Convenzione restò in vigore solo pochi anni per essere sostituita già nel 1951 con una più adeguata e successivamente più volte modificata in funzione dell’evoluzione dell’immigrazione italiana e della legislazione generale nel campo della sicurezza sociale.
Un avvio importante
Quella Convenzione, pur nella sua limitatezza, è stata tuttavia fondamentale per gli sviluppi delle relazioni bilaterali in materia. Non solo ha costituito un chiaro punto di partenza, ma ha messo in evidenza il principio di «garantire ai cittadini dei due Paesi, nella misura del possibile, il beneficio della legislazione italiana e della legislazione svizzera in materia di assicurazioni sociali» (Preambolo della Convenzione).
Essa ha anche stabilito il diritto dei rispettivi governi di ritornare sui singoli punti già regolati o in attesa di regolamentazione non appena la legislazione italiana o quella svizzera in materia avesse subito modifiche e miglioramenti. E di fatto, di lì a poco si sarebbero riaperte le trattative per un nuovo accordo, a riprova anche dell’interesse dei due Paesi a risolvere pacificamente le controversie.
Che gli accordi del 1948 e del 1949 fossero generalmente bene accolti dai principali interessati, i lavoratori italiani in Svizzera, lo dimostra il flusso degli arrivi: già molto intenso nei primi anni del dopoguerra (media di 85.400 l’anno nel triennio 1946-47-48), dopo una repentina frenata nel 1949-50 per ragioni congiunturali, proseguì a ritmi elevati negli anni seguenti (quasi 83.000 l’anno dal 1951 al 1960).
Molti immigrati di quell’epoca testimoniano nei loro ricordi che, in fondo, in quegli anni non si stava poi così male. Anche la stampa italiana rendeva spesso testimonianza della soddisfazione dei lavoratori italiani in Svizzera, considerati non solo «perfettamente ambientati», ma anche «rispettati» (Corriere della Sera, 1949).
Giovanni Longu
Berna 6.12.2009