09 settembre 2009

Pandemia da maldicenza. E la chiamano informazione!

Chi in questi mesi ha dedicato un po’ più tempo del solito alla lettura della stampa italiana allo scopo di sentirsi più informato sulla situazione generale del Paese, sull’andamento della crisi, sull’operato del governo per superarla, sulla tenuta dell’economia, sulle misure per affrontare l’incombente minaccia di aumento della disoccupazione, ecc. penso che sia stato ampiamente deluso. Personalmente ne sono stato disgustato. Le prime pagine di molti giornali sono state dedicate (e in parte lo sono ancora) a tutt’altri argomenti, che solitamente sono relegati in qualche pagina di cronaca rosa perché appartenenti alla categoria «gossip», ossia pettegolezzo, diceria, o addirittura eliminati quando certe notizie o dicerie non confermate rischiano di sconfinare ampiamente nella maldicenza, a sua volta imparentata con la menzogna e la calunnia.
Scarsi e scarni gli articoli di fondo sui veri, grandi temi del Paese, le riforme istituzionali, la situazione economica, la politica migratoria, il ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo o qualche altro dei numerosi problemi che frenano lo sviluppo e incrinano l’immagine del Bel Paese nel mondo. Ho trovato invece un’interminabile serie di accuse reciproche tra maggioranza e opposizione, ogni sorta di pettegolezzo a sfondo sessuale riguardante il premier Berlusconi, farneticazioni sui rischi di dittatura e della perdita in Italia della libertà di stampa, un continuo sparlare degli uni contro gli altri, insomma una sorta di pandemia da maldicenza.
Trovo deprimente costatare che prestigiosi giornali d’opinione si sono prestati a supportare senza alcun senso critico insinuazioni, maldicenze, calunnie. Trovo inaccettabile che il diritto all’informazione si trasformi in licenza di sparlare, di infangare, di pubblicare illecitamente documenti riservati o secretati, di violare l’intimità. Trovo scandaloso che direttori di grandi testate si prestino per vendere magari qualche copia in più a queste meschinità senza chiedersi non tanto «a chi giova?», ma «chi può danneggiare?». Credo che in un organo d’informazione ci debba essere posto anche per le notizie riguardanti i «peccati» confessati o provati dei personaggi pubblici persino del calibro di Berlusconi. Ma che un organo d’informazione non sia più capace di esercitare il diritto-dovere della veridicità delle cose che pubblica usando illecitamente e acriticamente fonti riservate o affidandosi alle confessioni estorte o comprate di prostitute e personaggi abbastanza squallidi in cerca di notorietà, o usando «prove» provenienti da una illecita violazione della privacy, questo sì è un grave indizio di perdita della libertà d’informazione.
Che poi alcuni politici, Di Pietro in testa, invece di pensare a far pulizia in casa propria, si accaniscano a ripetere ciò che i giornali pubblicano, aumentandone l’enfasi e la cattiveria, mi sembra un indice assai preoccupante non di una difesa a spada tratta del sacrosanto diritto all’informazione, ma di una volontà di distruzione che va ben al di là della lotta politica in un Paese democratico «normale». Oggi purtroppo il dibattito politico, complice una sinistra visibilmente in difficoltà, è scaduto a gossip sulle (presunte) frequentazioni anomale di Berlusconi, sulle sue prestazioni naturali o agevolate, sempre «all’insegna della strategia del materasso (l’espressione è di Francesco Cramer), sulle domande-accuse di un quotidiano illiberale, sui pronunciamenti di emeriti e monsignori sulle debolezze del premier e, purtroppo, via dicendo. Peccato!
Credo che non stia alla stampa né agli uomini politici e nemmeno ai vescovi giudicare in piazza i comportamenti immorali (presunti) di una persona, anche se incaricata di importanti funzioni pubbliche, perché ognuno, su questa terra, è giudicato per i suoi peccati privati dalla propria coscienza. Se poi questi presunti peccati hanno una rilevanza pubblica e addirittura politica allora devono diventare oggetto di critica politica, non di censure moralistiche o di attacchi sotto la cintura. Anche senza scomodare San Giacomo, uno degli apostoli di Cristo, mi viene spontaneo chiedere a chi veste, spesso usurpandola, la toga del censore: «ma tu chi sei, che giudichi il tuo prossimo?».
Sia ben chiaro, non mi sta bene che Berlusconi dia adito con i suoi comportamenti, le sue frequentazioni e le sue uscite estemporanee e incontrollate all’astio che lo circonda e al discredito che genera nell’opinione pubblica nazionale e internazionale, ma non mi sta bene neppure che a gran parte dei politici italiani il bene dell’Italia e l’immagine dell’Italia nel mondo siano ben lontani dai loro interessi principali. Se intendono far fuori l’avversario politico, lo facciano sul terreno politico delle idee, delle proposte, delle critiche oggettive, e magari con persone diverse, meno logore.
Bene ha osservato Fini qualche giorno fa, anche se il suo intervento giunge forse troppo tardivo: «da qualche tempo in Italia non si polemizza tra portatori di idee, non si tenta di demolire un’idea ma colui che ce l’ha. Si va dritti al killeraggio delle persone, con buona pace della credibilità dell’informazione e della politica, ma anche della credibilità dell’Italia in Europa».
Giovanni Longu
Berna 9.9.2009

08 settembre 2009

La tragedia di Mattmark e gli anni della svolta (seconda parte)


Oltre duecento giornalisti svizzeri e corrispondenti esteri raccontarono al mondo con ampi servizi quel che era successo in una vallata sperduta del Vallese il pomeriggio del 30 agosto 1965, mentre centinaia di stranieri e di svizzeri costruivano una diga. Le immagini sconvolgenti della valanga che aveva stroncato la vita di 88 lavoratori furono viste da milioni di persone.
Per la Svizzera fu «un vero e proprio shock» (Gaggini Fontana). In Italia, Dino Buzzati rievocò dalla pagine del Corriere della Sera l’«amara favola» dell’emigrazione e delle sue tristi conseguenze. La sinistra passò direttamente alle accuse: «La radio governativa parla oggi di Mattmark come del ‘cantiere maledetto’. Dimentica però di dire che (…) maledetta è soprattutto quella politica che costringe i nostri uomini, le nostre forze migliori a mendicare un po’ di lavoro all’estero in condizioni di esistenza paragonabili a quelle degli schiavi» (Pasquale Stiso).
In Svizzera, politici, economisti, intellettuali e gente comune trovarono nella tragedia di Mattmark un ulteriore stimolo per approfondire il dibattito, già in corso da alcuni anni, sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato che richiedeva sempre più manodopera estera, soprattutto per le grandi opere infrastrutturali (di per sé molto rischiose) e per le attività a bassa intensità di qualifica abbandonate dagli svizzeri.
Anche per la collettività italiana qui residente fu un’occasione forte per interrogarsi sul senso della sua presenza in un Paese in cui era parte attiva e persino determinante del benessere, senza per altro sentirsi accettata e corresponsabile, anzi alle prese con ventate di ostilità. Erano gli anni della svolta.
Immigrati, insostituibili eppure odiati
Agli inizi degli anni Sessanta, i lavoratori italiani erano divenuti praticamente insostituibili nella costruzione delle grandi opere idroelettriche, ma anche in alcuni comparti dell’industria svizzera. Nel lavoro erano molto apprezzati, meno dopo il lavoro, nella vita di tutti i giorni per le difficoltà di adattamento, di mentalità, di comunicazione. Gli italiani in particolare sembravano decisamente troppi (costituivano oltre il 60% degli stranieri) e ingombranti. Come scriverà più tardi Max Frisch, rivolgendosi ai suoi concittadini («un piccolo popolo dominatore si vede in pericolo: sono state chiamate forze di lavoro e arrivano persone»), gli stranieri erano benvenuti quando servivano «sul cantiere, in fabbrica, nella stalla, in cucina», ma dopo il lavoro, soprattutto la domenica, sembravano troppi. Eppure, «non divorano il benessere, anzi sono indispensabili al benessere». La xenofobia cominciava a diffondersi.
Alcuni intellettuali, come il giornalista Alfred Peter in una serie di articoli, si sforzavano di far capire che senza gli stranieri, e in particolare gli italiani, non ci sarebbe stato il benessere di cui tutti godevano: «Ohne Italiener kein Wohlstand» [senza gli italiani non c’è benessere].
Nel 1963 un certo Stocker di Zurigo fondò addirittura un partito «antitaliano», intriso di odio contro gli stranieri e in particolare gli italiani del Sud. Ma quando nell’agosto di quell’anno venne trasmessa dalla televisione svizzera una sua intervista, non si fecero attendere lo sdegno della collettività italiana e le rimostranze ufficiose e ufficiali delle autorità italiane. La televisione svizzera, che non condivideva le idee di Stocker, reagì invocando il diritto all’informazione e annunciò che in segno di «interesse e riconoscenza» verso gli italiani, si stava organizzando una emissione settimanale dedicata a loro.
Quando nel 1964, dopo una lunga gestazione, venne mandata in onda la prima trasmissione di «Un’ora per voi», il Ministro degli esteri italiano Giuseppe Saragat fece sapere agli italiani in Svizzera che per il loro lavoro e il loro comportamento si erano meritati «la stima e il rispetto delle autorità e del popolo svizzero». Davvero? Sì, confermava l’omologo svizzero, il Consigliere federale Friedrich Wahlen: «tutto il popolo svizzero prova per voi grande stima e viva riconoscenza».
L’Accordo italo-svizzero e l’avvio dell’integrazione
Evidentemente esageravano entrambi, ma esprimevano la posizione ufficiale dell’Italia e della Svizzera. Del resto, che i rapporti bilaterali stessero cambiando, in meglio, lo dimostrava l’«Accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera», siglato a Roma il 10 agosto 1964. Un accordo importante per l’Italia che riuscì a far accettare numerose rivendicazioni, ma importante anche per la Svizzera perché definì alcune linee guida della futura politica federale in materia di immigrazione.
L’Accordo italo-svizzero, entrato in vigore nel 1965, diede una forte spinta al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli italiani in Svizzera. Esso determinò anche la data ufficiale a partire dalla quale le autorità svizzere s’impegnavano a favorire, «di concerto con le autorità italiane e gli ambienti interessati», l’adattamento dei lavoratori italiani e delle loro famiglie alle condizioni di vita svizzere. Era l’avvio della nuova politica svizzera dell’integrazione, anche se il termine non veniva ancora utilizzato.
L’Accordo impegnava evidentemente anche il governo italiano che, proprio in tema d’integrazione, raccomandò subito alle autorità diplomatiche e consolari e ai lavoratori italiani di fare il possibile per inserire i loro figli nella scuola svizzera. Ne andava del loro futuro.
Solidarietà e riconoscenza
In questo contesto sopraggiunse la tragedia di Mattmark. Furono in molti a rendersi conto che tra il dare e l’avere, gli stranieri davano più di quel che ricevevano, perché molto spesso davano anche la vita. Il grande slancio di solidarietà e generosità che seguì nel popolo svizzero per aiutare i parenti delle vittime e i sopravvissuti nasceva non solo dalla pietà per le vittime, ma anche da una convinzione profonda e da un sentimento di riconoscenza genuino. La tradizionale amicizia italo-svizzera ne usciva rafforzata.
Intervenendo alla seguitissima trasmissione «Un’ora per voi» del 25 settembre 1965, il consigliere federale Wahlen ribadiva la riconoscenza della Svizzera verso i laboriosi ospiti italiani e la necessità di collaborare sempre più strettamente per risolvere nel modo migliore i comuni problemi. Anche il sottosegretario agli esteri on. Storchi, nella stessa occasione, ricordava la grande ondata di simpatia, di umana comprensione, di concreta solidarietà che aveva sollevato il tributo degli operai italiani in Svizzera, contribuendo così a riavvicinare ancor di più i due popoli.
Non si potrà mai sapere quanto questa presa di coscienza e questa ondata di simpatia abbiano realmente influito sugli sviluppi dei rapporti bilaterali tra la Svizzera e l’Italia e, soprattutto, sui rapporti tra la collettività italiana e quella svizzera. Un fatto è certo, le convinzioni xenofobe non riuscirono mai a prendere il sopravvento e, proprio in quegli anni, vennero poste solide basi a quel lungo processo di avvicinamento e d’integrazione che troverà nei decenni successivi pieno compimento nelle seconde e terze generazioni.
Dalla metà degli anni Sessanta, quasi a volersi difendere dagli attacchi della xenofobia, ma anche nella consapevolezza di contare più che nel passato, si estese e rafforzò l’associazionismo. Operava in molte direzioni, quello della rivendicazione ma soprattutto quello della promozione, della difesa dei diritti dei lavoratori, dell’integrazione dei giovani soprattutto attraverso le istituzioni scolastiche e di formazione professionale, ecc.
Collaborazione e partecipazione
Nel 1966, quando per iniziativa di lavoratori italiani si realizzò un centro italo-svizzero di formazione professionale per stranieri denominato CISAP, fu come se si fosse lanciata una sfida molto ambiziosa nella strada dell’integrazione professionale e sociale degli adulti. Ebbe già sul nascere uno straordinario successo perché richiese e ottenne la collaborazione delle autorità sia italiane che svizzere federali e cantonali, dei sindacati e del padronato e non da ultimo dell’associazionismo. Nel 1972 lo stesso presidente della Confederazione Nello Celio, visitando la scuola, se ne compiacque, essendo rimasto impressionato di quanto i lavoratori possono fare se si organizzano.
La politica federale nei confronti dell’immigrazione stava cambiando, privilegiando la qualità e stabilità più che il numero e la crescita indiscriminata. Se fino al 1962 concedeva oltre 200.000 nuovi permessi annuali di lavoro, negli anni successivi andranno diminuendo in misura sempre più consistente. Per evitare una dipendenza dell’economia svizzera dalla manodopera straniera il Consiglio federale cominciò a introduce misure di limitazione degli stranieri e l’industria fu indotta a fare sforzi di razionalizzazione.
La riduzione interessò anche gli immigrati italiani, ma solo marginalmente. Gli italiani, ormai, avevano meno bisogno di prima di cercare lavoro all’estero. In Italia era in atto il boom economico e la disoccupazione era al suo minimo storico (1962-63). Dopo aver raggiunto il numero massimo d’ingressi nel 1962 con 143.054 persone, da allora gli arrivi dall’Italia tenderanno progressivamente a diminuire, mentre aumenteranno i rientri fino a avere nel 1970 e poi dal 1972 in poi un saldo migratorio sempre negativo. Parallelamente cresceva il livello d’integrazione, soprattutto delle seconde e terze generazioni.
La collettività italiana in Svizzera resterà comunque saldamente sempre la più numerosa e, grazie all’incremento naturale, la sua consistenza è abbastanza stabile, tant’è che ancora oggi si aggira sul mezzo milione, compresi ovviamente i doppi cittadini.
Giovanni Longu