02 settembre 2009

La tragedia di Mattmark e gli anni della svolta (prima parte)


Anche quest’anno non può passare inosservato l’anniversario di quell’enorme disgrazia che il 30 agosto 1965 colpì duramente la collettività italiana in Svizzera. In quel finale di agosto di 44 anni fa, a Mattmark, poco al di sopra dei 2000 metri nell’alta valle di Saas in Vallese, stava per essere ultimata una diga di grandi dimensioni. Era un lunedì e molti lavoratori erano appena tornati dalle ferie di Ferragosto. Erano oltre 600 persone, di cui più di 400 italiani, provenienti da molte regioni d’Italia.
Il grosso dei lavori doveva essere terminato prima dell’inverno. Per questo si lavorava freneticamente, a turni, giorno e notte. Al momento della catastrofe erano in azione decine di bagger, bulldozer, camion con altrettanti conduttori e aiutanti. Anche le officine, le baracche, la mensa erano in esercizio. Quel lunedì, in fondo alla valle di Saas, dicono le cronache, splendeva il sole, ma oltre i 2000 metri faceva freddo. Nulla lasciava presagire la tragedia.
Mi pare opportuno rievocare quel tragico evento, non solo per onorare le numerose vittime, ma anche per ricordare che in quegli anni Sessanta la collettività italiana stava attraversando un periodo cruciale. La disgrazia di Mattmark, per la sua gravità e per la sua copertura mediatica, fece dell’immigrazione in Svizzera un problema nazionale. Essa contribuì anche a far prendere coscienza agli italiani, che costituivano il gruppo straniero più consistente, dei loro problemi e delle soluzioni possibili.
La tragedia di Mattmark
Dapprima i fatti. Per cercare di capire l’accaduto, è opportuno ricordare che la diga di Mattmark non è in calcestruzzo ma del tipo «in terra», ossia costituita prevalentemente di pietrame e altri materiali sciolti, prelevati sul posto dalle morene formate nel tempo dal sovrastante ghiacciaio Allalin, uno dei più importanti della Svizzera.
Data la base (370 m) e l’altezza (120 m) della diga, il suo riempimento richiedeva una quantità enorme (circa 10 milioni e mezzo di metri cubi) di materiale. Per questa ragione il cantiere era stato allestito proprio nel cono di deiezione del ghiacciaio, tra le due morene principali, ai piedi della diga. Evidentemente il gigante Allalin era stato ritenuto «tranquillo», quasi dormiente. Invece se ne stava lì come ad osservare dall’alto quel che poche centinaia di metri più sotto stava accadendo.
I lavori procedevano secondo i piani, senza intoppi, come rivelava anche un breve filmato del Cinegiornale svizzero girato il 26 agosto 1965, quattro giorni prima della disgrazia. Decine di bulldozer, bagger, camion in movimento. Nessuno degli addetti si sentiva per così dire minacciato o intimorito dalla vicinanza al ghiacciaio. Ciò che i piani non prevedevano, come è già successo altre volte in passato e, purtroppo, succederà ancora in futuro, è quel maledetto pericolo che è sempre in agguato e talvolta, improvvisamente e inaspettatamente, sembra prendersi la rivincita sulla presunta onnipotenza dell’uomo.
Fu così che il 30 agosto 1965, alle 17.30, il ghiacciaio Allalin, come un drago inferocito, scaraventò a valle immensi blocchi di ghiaccio e detriti (forse un milione di metri cubi) travolgendo tutto e tutti quelli che incontrava nella vorticosa discesa. Il terribile boato fu udito a chilometri di distanza.
La gravità della disgrazia è data da alcune cifre. Un intero cantiere di vaste proporzioni andò interamente distrutto. Persero la vita 88 persone, di cui 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. Pochi dei presenti sul cantiere si salvarono. Uno di essi, uno dei pochi ancora in grado di descrivere i fatti, il friulano Ilario Bagnariol, frastornato dal rumore del suo bulldozer, non udì neppure quel boato maledetto, ma vide dall’alto della morena su cui stava lavorando tutto il disastro sottostante. Colleghi di lavoro, baracche, macchinari, tutto era stato travolto e stritolato.
Fortunatamente la sciagura non avvenne al cambiamento dei turni. Le conseguenze sarebbero state ancora più spaventose ed il numero delle vittime almeno due volte più grande. Era infatti in questo cantiere che i subentranti prendevano le consegne da chi aveva finito il turno. Il campo base era situato a valle, a circa sei chilometri dalla diga. Qui si trovavano gli uffici della ditta appaltatrice e gli alloggi degli operai, che di lì partivano ogni giorno per i vari cantieri. Per un certo tempo, dunque, due gruppi si ritrovavano contemporaneamente nello stesso posto.
I lavori di soccorso iniziarono immediatamente e nei primi giorni proseguirono anche in condizioni estreme, giorno e notte, nella speranza di ritrovare ancora qualcuno vivo. Quando fu evidente che non potevano più esserci sopravvissuti, si cominciò a recuperare le salme. Fu un’impresa delicata e per certi versi anche rischiosa per il pericolo di nuove valanghe o di caduta di lastroni di ghiaccio. Gran parte delle vittime giacevano sotto una ventina di metri di ghiaccio e detriti. Il recupero richiese diversi mesi, anzi l’ultimo corpo venne ritrovato e identificato quasi due anni dopo, il 18 agosto 1967, pochi giorni prima dell’inaugurazione della diga. L’identificazione delle vittime fu talvolta difficile e penosa. Ne sa qualcosa il sopravvissuto Bagnariol, perché a volte si trattava di ricomporre un corpo maciullato da enormi massi di ghiaccio duri come pietre.
Cause e responsabilità
Lo sconcerto per l’accaduto provocò inevitabilmente numerose domande sulle cause e sulle eventuali responsabilità. Non si arrivò mai ad avere risposte definitive e ineccepibili nonostante le inchieste e i processi. I pareri degli esperti circa l’imprevedibilità dell’accaduto e l’ininfluenza dei lavori del cantiere (sbancamento delle morene, scoppio di mine, grandi movimenti di terra e di roccia, i forti sbalzi di temperatura di quell’estate, il rumore fragoroso dei macchinari) non riuscirono a convincere tutti. Non è infatti immaginabile che un pezzo di ghiacciaio di vaste proporzioni si stacchi improvvisamente e precipiti a valle, senza una ragione che ne spieghi la dinamica.
Sicuramente non fu, com’è stato scritto, «una catastrofe annunciata» e nemmeno una «fatalità». E sebbene i tribunali di prima e seconda istanza abbiano assolto i presunti responsabili (progettisti e responsabili del cantiere) dall’accusa di «omicidio per negligenza», resta sempre il dubbio se le precauzioni e le misure di sicurezza fossero adeguate. Tante domande restano ancora aperte. Perché il ghiacciaio non è stato monitorato costantemente? Perché è stato ignorato l’avvertimento di un anno prima della Commissione federale dei ghiacciai che considerava instabile e pericoloso il fronte dell’Allalin? Perché sono stati sottovalutati certi segnali come la caduta di piccoli blocchi di ghiaccio e l’aumento repentino di alcuni flussi d’acqua? E soprattutto, perché non è stata ritenuta la pericolosità di collocare il cantiere proprio nella traiettoria obbligata del ghiacciaio delimitata da due enormi morene, nell’eventualità di un avanzamento del ghiacciaio o di eventuali distacchi di lastroni importanti di ghiaccio? Perché, per precauzione, il cantiere non è stato sistemato al di fuori del cono di deiezione del ghiacciaio?
Sono domande alle quali nessuno potrà mai dare risposte certe e non è più tempo per fare nuovi processi, nemmeno virtuali. Ma se si esclude la «negligenza» da cui sono stati assolti tutti gli imputati nei processi di primo e secondo grado nel 1972, è forse esagerato affermare che si è trattato almeno d’imprudenza, di sottovalutazione del pericolo e magari di codardia per non aver spostato il cantiere per prudenza? Anche per questi dubbi, non solo i parenti delle vittime, i sopravvissuti e i rappresentanti del mondo del lavoro, ma una gran parte dell’opinione pubblica giudicarono quelle sentenze di assoluzione «scandalose».
Sgomento e solidarietà
In poche ore la notizia della catastrofe fece il giro del mondo. Era la disgrazia sul lavoro più grande conosciuta dalla Svizzera. Ci fu sconcerto e rabbia nella vallata del Saas. L’angoscia dominava i sopravvissuti. Lo sgomento attraversò in lungo e in largo il mondo politico, le chiese, i sindacati, la stampa, soprattutto in Svizzera e in Italia. Per diversi giorni i sentimenti si mescolarono vorticosamente, passando dal senso d’impotenza alla rabbia, dall’accusa alla solidarietà, dal desiderio di giustizia alla pietà.
Poiché le vittime più numerose erano italiane, accorsero dall’Italia in gran numero uomini politici, sindacalisti, giornalisti, preoccupati apparentemente più degli aspetti giuridici e assistenziali che del sostegno anche psicologico delle vittime. Il cronista svizzero Dario Robbiani raccolse lo sfogo del viceconsole di Briga Odoardo Masini, un uomo che si era prodigato in ogni modo per aiutare le vittime e i sopravvissuti, riguardo a certe visite: «Poi sono arrivati i deputati e i sindacalisti comunisti. Hanno detto che era colpa di questo e di quest'altro, che bisognava costruire uno sbarramento di cemento armato per isolare il ghiacciaio, e contenere la morena con muraglioni. Allora sono scoppiato: - Sì, adesso voi rimproverate agli svizzeri di non aver messo il bichini al ghiacciaio. Non hanno più parlato. Mi facciano il piacere: è perlomeno di cattivo gusto fare polemiche del genere sopra ottantotto bare».
Nell’apprendere la tragedia, L’Osservatore Romano, organo del Vaticano, aveva esortato in una nota sotto il titolo «Lutto comune»: «più urgente, più imperativo, più categorico, si rivela ora il dovere di solidarietà per i superstiti. Bisogna consolare, riconfortare e soprattutto aiutare le famiglie delle vittime. Che la società umana non si mostri avara nei confronti di coloro che offrono al progresso tecnico il sangue vivente del sacrificio della loro vita o dei loro sentimenti».
In effetti, in tutta la Svizzera, che ospitava allora circa 700.000 lavoratori stranieri, insieme allo sgomento per l’accaduto, prevalse un enorme senso di solidarietà e di sostegno. Fu come se quell’abbraccio di morte che aveva ucciso indiscriminatamente stranieri e svizzeri si fosse trasformato in un abbraccio di solidarietà universale. Il popolo svizzero, di fronte a queste avversità, sa reagire con una generosità straordinaria. Intanto la politica migratoria stava cambiando. (Fine prima parte)
Giovanni LonguBerna 02.10.2009