25 maggio 2009

Collettività italiana componente stabile della società multiculturale svizzera

Quando agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, in seguito alle difficoltà dell’economia svizzera e alla crescente ostilità verso gli stranieri (istigata da potenti movimenti xenofobi, guidati all’epoca da J. Schwarzenbach), i rientri in patria degli immigrati italiani cominciarono a superare gli arrivi, si disse che ormai il flusso migratorio dall’Italia verso la Svizzera si sarebbe presto esaurito.
Le statistiche parlavano chiaro. Se nel 1961 il saldo migratorio italiano in Svizzera (differenza tra arrivi e partenze) era di +45.414 persone, dieci anni più tardi, nel 1971 era sceso a +8218, ma già l’anno precedente era diventato negativo (-1438), per proseguire col segno meno per tutti gli anni Settanta. In cifre assolute la popolazione italiana era scesa da 583.855 (1970) a 418'989 persone. Anche conteggiando i doppi cittadini, era evidente che la collettività italiana andava diminuendo a vista d’occhio, anche perché veniva meno il tradizionale approvvigionamento dall’Italia.
Questa tendenza indusse pian piano la collettività italiana a modificare radicalmente la tradizionale prospettiva di lavorare qualche anno in questo Paese e rientrare con l’intera famiglia al più tardi non appena raggiunta l’età della pensione.
Ad agevolare questo cambio di orientamento erano intervenuti soprattutto due elementi: l’avvio da parte della Confederazione di una nuova politica migratoria orientata all’integrazione degli stranieri e la crescente facilitazione della naturalizzazione soprattutto per le giovani generazioni.
La politica d’integrazione
La politica d’integrazione si era resa necessaria perché ci si rese conto che gli stranieri, soprattutto gli italiani, restavano sempre più a lungo in Svizzera. Questa loro permanenza a tempo indeterminato rendeva acuto il problema della scolarizzazione dei figli dei migranti. Con fermezza le autorità svizzere pretesero l’inserimento dei bambini stranieri nella scuola svizzera e la chiusura una dopo l’altra delle numerose scuole italiane, tranne poche eccezioni che sopravvivono ancora oggi grazie ad alcune caratteristiche particolari.
Le conseguenze positive non tardarono ad arrivare quando inevitabilmente, al termine della scolarità obbligatoria, si aprirono praticamente tutte le porte dell’apprendistato anche agli stranieri. Se oggi non c’è praticamente alcun ramo economico in cui non si trovano figli di emigrati italiani collocati a tutti i livelli gerarchici è grazie a quel processo d’integrazione avviato negli anni Settanta.
Nella convinzione che ormai l’immigrazione dall’Italia era finita ed era sempre più una chimera il rientro definitivo in patria, molti italiani, giovani in particolare e interi nuclei familiari, optarono per la naturalizzazione svizzera.
Da sempre restii a intraprendere questa decisione fino agli anni Sessanta, dagli anni Settanta in poi la naturalizzazione divenne per molti italiani una conseguenza «naturale» sia per i presupposti linguistici e culturali che per le conseguenze, soprattutto dopo che dal 1992 fu resa possibile la doppia cittadinanza. Divennero cittadini svizzeri oltre 33 mila italiani negli anni Settanta, più di 28 mila negli anni Ottanta e quasi 40 mila negli anni Novanta. In questo decennio si sono già naturalizzate oltre 46 mila persone col passaporto italiano.
La prospettiva del progressivo esaurimento del flusso migratorio dall’Italia venne ampiamente confermata, come pure la costante diminuzione della collettività col solo passaporto italiano. Rispetto al 1970 gli italiani in possesso della sola cittadinanza italiana si sono ridotti della metà (290.020 persone nel 2008).
In realtà, la collettività italiana è rimasta numericamente molto stabile, tanto è vero che, stando alle statistiche del Ministero degli affari esteri italiano, gli italiani presenti nella Confederazione (compresi i doppi cittadini) superano abbondantemente il mezzo milione. Eppure le differenze qualitative tra la collettività degli anni Settanta e quella odierna sono enormi. Non tenerne conto significherebbe non aver capito nulla del lungo processo d’integrazione che ha reso la componente italiana una delle più importanti della moderna società elvetica.
I matrimoni misti
Un indicatore significativo della riuscita integrazione della collettività italiana è quello dei matrimoni misti. Questo fenomeno va visto sia come risultato delle mutate condizioni ambientali, da alcuni decenni più favorevoli agli immigrati in generale e agli italiani in particolare, e sia come causa di un ulteriore slancio verso l’integrazione. Per capirne la portata, si potrebbe dire, senza pretesa di darne una dimostrazione scientifica, che quel che non accadde alla collettività italiana in Svizzera in oltre cent’anni della sua storia (se questa la si fa iniziare ufficialmente dal primo trattato bilaterale in materia del 1868), le riuscì in pochi decenni, grazie anche ai matrimoni misti.
Tradizionalmente gli italiani non volevano «mescolarsi» con gli svizzeri, per cui erano rari i matrimoni misti, soprattutto quando si frapponevano difficoltà di ordine religioso e l’obbligo della rinuncia ad una nazionalità per prenderne un’altra. Di fatto, fino agli anni Sessanta e parte degli anni Settanta, gli italiani si sentivano ed erano in gran parte estranei alla vita sociale svizzera. Nel frattempo, occorre ricordare, gli italiani si erano talmente abituati a vivere per conto proprio che avevano i loro ritrovi, i loro giornali, le loro feste, le loro scuole, i loro piatti preferiti, le loro associazioni, le loro «famiglie regionali», i loro negozi, i loro ristoranti e via discorrendo.
Col riorientamento dell’atteggiamento sia svizzero che italiano in materia d’integrazione avvenuto negli anni Settanta, a dare un forte impulso al cambiamento intervennero anche i sempre più numerosi matrimoni misti. Fino ad allora la maggioranza dei matrimoni degli italiani avveniva tra connazionali secondo la tradizione «moglie e buoi dei paesi tuoi». Ma già dal 1970 la tendenza s’invertì e i matrimoni misti superarono quelli tra connazionali (51,3% contro il 48,7%). Nel 1980 la tendenza si confermò con proporzioni rispettivamente del 66,5% e 33,5%.
Gli anni Novanta rappresentarono gli anni più intensi del processo integrativo degli italiani. La vecchia immigrazione stava per concludere il suo corso. La nuova è meglio qualificata (il 30 per cento degli italiani immigrati dopo il 1995 ha una formazione di grado universitario), l’integrazione dei giovani di seconda generazione nel mondo della formazione e del lavoro è quasi completa. I matrimoni misti sono ormai decisamente in aumento rispetto a quelli tra connazionali: se nel 1990 le percentuali erano ancora rispettivamente del 67,2% e 32,8%, nel 2000 erano ormai dell’ordine del 76% e 24%. La tendenza si conferma in questo decennio, con la punta dell’83% e del 17% nel 2007.
Per capire l’importanza dei matrimoni misti nel processo integrativo della collettività italiana in Svizzera non va dimenticato che i dati si riferiscono agli italiani con la sola cittadinanza italiana. Alla statistica sfuggono infatti i doppi cittadini. Considerando anche questi, il fenomeno dei matrimoni misti diventerebbe ben più rilevante non solo nell’ottica dell’integrazione della collettività italiana, ma anche nel panorama della multiculturalità svizzera. Esso sta ad indicare che ormai nella società svizzera odierna l’elemento etnico italiano in quanto tale è pressoché irrilevante.
Anche i dati di questi ultimi anni vanno letti in questa ottica. Sebbene continui, ad esempio, la tradizionale preferenza delle donne svizzere a sposare cittadini italiani, l’elemento «nazionale» è un aspetto molto secondario. Ed è altrettanto poco significativo il fatto che le donne italiane, fino al 2000 detentrici della seconda posizione dopo le tedesche nelle preferenze degli svizzeri, dal 2001 hanno ceduto il posto a brasiliane e tailandesi. In realtà, le donne italiane figurerebbero ancora al secondo posto se si considerassero anche le giovani italiane con la doppia nazionalità, che tradizionalmente sono state sempre più numerose dei giovani italiani a richiedere la cittadinanza svizzera.
In conclusione
I dati fin qui citati si commentano da sé e non lasciano dubbi sulla reale integrazione della collettività italiana, anche soltanto quella con la sola cittadinanza italiana.
Un approfondimento di questo fenomeno potrebbe essere interessante per una riconsiderazione degli «italiani all’estero», un’espressione onnicomprensiva, che in realtà andrebbe coniugata Paese per Paese. In Svizzera, questi italiani, a prescindere dal loro passaporto unico o plurimo, sono nella stragrande maggioranza cittadini integrati pienamente in questo Paese.
Nell’attuale e spesso distorta discussione sulle vecchie e nuove forme di rappresentanza degli «italiani all’estero» bisognerebbe tener presente questa realtà che ormai di «migratorio» ha sempre meno e non ha bisogno di forme di rappresentanza basate su presupposti inesistenti.
D’altra parte, se davvero, soprattutto in Italia, si vogliono raggiungere obiettivi d’integrazione sul tipo di quelli raggiunti dagli italiani in Svizzera, il clima politico e sociale dev’essere migliorato. Allo straniero che ha deciso di mettere radici in Italia va data l’opportunità di piantare queste radici in un terreno accogliente e fertile. Una volta che queste radici sono attecchite solidamente, i contributi che possono dare gli stranieri (quanto prima naturalizzati) sono straordinari e nell’interesse di tutta la società. Quel che si diceva (e in parte si continua ancora a dire) degli italiani all’estero, che sono una risorsa, va detto con la stessa convinzione anche degli stranieri in Italia. Ma bisogna cominciare subito, nell’interesse di tutti.
Giovanni Longu
Berna 24.5.2009